Il paese di Volpedo, nel fondovalle del Curone, presso Tortona, è noto particolarmente perché vi è nato il pittore Giuseppe Pellizza, autore del famoso quadro “Il quarto stato”. In paese, ci sono (o c'erano) diverse teorie su chi siano i modelli dei personaggi principali del quadro. In particolare, un mio lontano parente potrebbe essere stato il modello del bambino che la donna sulla destra porta in braccio, concitatamente ma amorosamente. E' un fatterello personale, e non so nemmeno quanto sia probabile, ma fa capire come gli artisti siano in fondo integrati nell'ambiente in cui vivono, anche se temuti. Temuti per quel tanto di inesplicabile che rimane nell'arte, e magari anche (contortamente) invidiati, come spesso accade quando qualcuno intorno a noi, che pensavamo “controllabile” e “noto”, spicca il volo verso la fama. Pellizza, celebrità locale, fu trovato, a quel che si diceva in paese, impiccato alle travi del solaio: el s'è tacà su è più o meno l'espressione dialettale. Anche qui, non so quanto tutto ciò fosse attendibile, ma questo spiega la doppia immagine dell'artista, generato dall'ambiente, ma divenuto presto un corpo estraneo.
Ho scelto Pellizza per pura limitazione culturale, solo perché credo di capire un pochino la sua arte ed anche (in certo senso) il suo modo di pensare, semplicemente per contiguità territoriale. Nel libro però di Maria Grazia Mezzadri Cofano, una lettura piacevole che ci viene da ARPANet, c'è ben altro: si parte da Pieter Brueghel, e si arriva a Jean-Michel Basquiat, c'è appunto Pellizza, ma ci sono Caravaggio, Goya, Van Gogh, Andy Warhol, Edward Munch, Tamara de Lempicka e molti altri, tra cui Picasso, Chagall e Mirò. Sono brevi ma densi ritratti, visti dall'interno di uno specchio, dove non si nasconde nulla delle problematiche psicologiche e spesso anche psichiatriche che l'artista attraversa (ed anche della diffidenza, culminante a volte nel disprezzo e nell'incomprensione più aperta, dell'ambiente circostante). Dal mio personale punto di vista, il libro ha due pregi evidenti: non permettere che cali l'interesse, delineando il personaggio con rapidi tratti e antropizzando in certo senso i simboli, più che le figure, che fanno parte del dipinto analizzato: il ramo di mandorlo di Van Gogh, l'urlo di Munch, le costellazioni di Mirò, la danza di Salomè di Ambrogio Figino. C'è anche un uso, molto felice secondo me, dell'ucronia: per esempio, Picasso parla di sé in prima persona, oggi, rievocando tutti i momenti più densi (e forse più fraintesi) della sua esperienza artistica, e Goya è un intervistato di lusso, anche se un tipo tutt'altro che “facile”.
Un secondo pregio è quello di riaccendere un interesse, magari sopito per eccesso di stimoli di altro tipo (e non sempre, neanche lontanamente culturali), per la storia dell'arte. Trovo che materiale divulgativo di alto livello manchi nel nostro paese, anzi peggio la divulgazione, che dove funziona è comunicazione efficace e flessibile, viene spesso ancora percepita come una diminutio per l'autore e per il lettore. Per questo, quando si è in presenza, come qui, di un'operina agile che divulga senza svendere, ma anzi valorizzando le singole figure, evidenziando come l'autrice padroneggi appieno le sensazioni ed i concetti che espone, tanto da non aver bisogno di chiudersi in gerghi settoriali, non si deve, secondo me, passarla sotto silenzio. Anche per rispetto della bellezza artistica, di cui il mondo è pieno, pur se il suo segreto non sempre si svela a tutti.