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Un ritmo per l'esistenza e per il verso - metrica e stile nella poesia di A.Bertolucci
di Fabio Magro
Pubblicato su SITO


Anno 2005- Esedra Editrice
Prezzo € 21- 280pp.
Collana L'upupa. Studi italiani e romanzi
ISBN N/A

Una recensione di Carlo Santulli
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In un certo senso, la poesia italiana del novecento si può considerare orfana dell'endecasillabo. Non è un'osservazione nuova, ma è sempre pregnante, quella che anche laddove i versi appaiono rispondere a ritmi diversi, la "trappola" dell'endecasillabo torna, in modo magari ellittico, a funzionare. Questo per due motivi, credo, che sono poi collegati: perché l'endecasillabo, dalla Divina Commedia in poi, è per così dire il "verso di successo" della nostra poesia, e perché, avvicinandosi di più al ritmo del parlato italiano, è il verso che ci suona più "familiare". Per uscire pienamente da questa trappola, e restare leggibile e vero dopo quasi due secoli, bisognava forse essere Leopardi.
Questa premessa, anche banale forse, serve per dire che l'analisi della metrica di un poeta del novecento italiano non può prescindere dal rapporto tra regolarità del discorso, rappresentata dall'endecasillabo, e la rottura di tale regolarità a fini espressivi (ma anche, in qualche caso, semplicemente di sonorità o di flusso del discorso).
Nella sua lunghissima attività, che spazia dalla fine degli anni '20 quasi alla fine del secolo scorso, Attilio Bertolucci non sembra aver mai dato per scontato ed acquisito il verso, con una certa scontrosa e tacita scontentezza per la sua apparente facilità. E' molto interessante il percorso compiuto dall'endecasillabo all'interno della sua poesia: da verso minoritario, com'è a partire dalla prima raccolta di Bertolucci, "Sirio" (1929), utilizzato per legare e distendere (solo un apparente ossimoro) la quieta tensione lirica dei componimenti, a verso narrativo di raccolte successive, come "La capanna indiana" (1955) teso al recupero dell'omogeneità del discorso, della necessità della "storia". Storia che può divenire dominante e strutturare la forma poetica in un'opera alquanto anomala nel novecento italiano come il romanzo in versi "La camera da letto" (1984-87). Narratività che, per inciso, rende Bertolucci ancor più isolato, e proprio per questo interessante, nell'ambito della lirica post-montaliana, un poeta che ha seguito il proprio percorso, attento allo svolgersi delle modalità espressive intorno a sé, ma disinteressato ad inquadrarsi nell'ambito di una qualche tendenza o gruppo.
Questo libro è nato dalla tesi di laurea di Fabio Magro, ma - e lo si vede chiaramente - è stato meditato ed esteso ad abbracciare l'intera figura poetica di Bertolucci, nella consapevolezza che rimane ancora molto da scoprire in un poeta che ha avuto sì una certa attenzione dalla critica, specie a partire dagli studi di Pier Paolo Pasolini e Giovanni Raboni, ma che risulta purtroppo poco presente nel nostro panorama librario, forse per la sua stessa natura di uomo schivo e signorilmente appartato. Eppure si tratta di un poeta capace di sorprendente pregnanza psicologica e di accenti di verità non comuni, dove la mai banale musicalità aderisce senza apparente difficoltà all'espressione. Basta pensare alla dimessa complessità, prima che sintattica, sentimentale di una breve lirica, come "Le more", molto esemplificativa dello stile di Bertolucci: "La luce di settembre dentro gli occhi/voglendoti mi hai chiesto delle more/che l'estate piovosa non matura/sull'Appennino quest'anno del tuo primo/ricordare, quest'anno che declina,/ci porta via, foglie sbandate/che si cercano, che ancora si ritrovano,/come quando sul Bratica ti chini/a una flottiglia verde e silenziosa". Certamente, nello studio di Fabio Magro c'è molto più di una rivisitazione della poesia di Bertolucci, l'analisi si estende anche ai titoli delle sue poesie e raccolte, cercando di carpir loro il mistero delle origini di questo forse anomalo poeta del nostro Novecento. La lettura solida e sicura, ma priva d'enfasi, che Bertolucci dà della koiné pascoliano-dannunziana che aveva dato forma anche al crepuscolarismo, gli impedisce quell'indeterminatezza di una generica malinconia, che l'avrebbe forse condannato ad essere un epigono fuori tempo di certi modi gozzaniani. Determinatezza e concretezza, pur nel tono sempre misurato e nell'aspirazione di un'attualità non di facciata, che l'autore riferisce alla lettura della Recherche proustiana da parte di Bertolucci: il che ci fa capire come quell'"elusivo gentiluomo", come da espressione felice di Pier Vincenzo Mengaldo, aveva un retroterra molto più esteso di quanto la sua natura appartata potesse far sospettare.


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