Dico spesso, e non è un modo di dire (non ne avrei ragione) che in Italia ormai solo certe piccole case editrici hanno voglia di rischiare, proponendo qualche autore straniero contemporaneo non anglosassone e non di genere, contribuendo ad allargare un pochino il nostro mondo letterario. Questo è il caso del Cavallo di Ferro, per i cui tipi esce “Il favoloso teatro del gigante” di David Machado.
Machado è un giovane autore portoghese, nato nel 1978, che viene da una formazione nel mondo dell'economia, passando poi alla letteratura praticamente a tempo pieno solo negli ultimi anni, autore anche di storie per bambini (e la delicatezza del tocco, anche nei momenti più drammatici, c'è tutta). Dalla sua biografia, per quanto stiamo parlando di un trentenne, si coglie in certo senso l'embrione di una volontà di prendersi delle responsabilità, e questo non posso dire venga smentito da un romanzo come “Il favoloso teatro del gigante”, uscito in Portogallo nel 2005. Dico responsabilità, per indicare, forse con una parola non completamente adatta, la capacità di non recedere di fronte alla voglia di raccontare una storia, lasciando al lettore il compito di tracciare le conclusioni. Nessuna particolare ossessione per la trama: l'autore riesce a conferire un ritmo tranquillo, un po' indolente ma sempre funzionale, alla narrazione, e nel frattempo lavora intensamente sui personaggi intensamente che si incontrano in un paese ai margini della civiltà e del mondo, Lagares, vera e propria Colonna d'Ercole tra i monti del nord del Portogallo. Vi si radunano, quasi spinti da un destino, c'è un sacerdote, padre Augusto, una celebrità locale (c'è chi dice l'unica), e quindi collegato a vario titolo a notabili, ecclesiastici e potenti di ogni genere. Lo vediamo però ormai anzianissimo e quindi misantropo ed asociale, ma ancora piuttosto battagliero, vivere confinato ai margini della serra nel suo giardino, assistito dalla sua perpetua Francisca Pequena, che ne è stata innamorata da subito, ed amante per molti anni. Ci sarà poi un altro sacerdote, padre Casimiro, con una propensione quasi “patologica” (e sicuramente imbarazzante anche per se stesso) ai miracoli (anche perché il popolo di Lagares è molto disposto a credere a questo soprannaturale strapaesano) ed una serie interminabile di inibizioni, oltre che, va da sé, una sua propria perpetua; e c'è un medico, forse l'unico scienziato (più o meno) del posto (ma c'è davvero?).
Conosciamo poi quasi da subito una piccola maestra praticamente immutabile, Eunice, una specie di Dorian Gray al femminile, dai capelli rossi, che ha avuto due gemelli dall'antillano Thomas, il gigante del titolo, che si è addormentato da anni, e sicuramente sogna. C'è chi vuole destarlo, come Abel Duarte del Centro Sociale, mettendo al massimo volume per tutto il paese le sue canzoni preferite, un disco dopo l'altro, e ci sono tanti e tanti bambini in questo strano posto tra le montagne, che una sola strada unisce al resto del paese, la seconda non essendo mai stata terminata per mancanza di fondi (o d'interesse?).
Vere protagoniste del testo sono le storie che Eunice scrive, perché il villaggio intero le interpreti, in modo che ognuno divenga, finché lo può, un “altro da sé”, costruendo un personaggio ben più avventuroso ed interessante di quello che stava recitando suo malgrado nella vita, quasi superando nel pensiero (ma non sempre e non solo...) le anguste frontiere mentali del villaggio: e non penso mi spetti di dire di più, perché, come saprete certo, siamo tutti attori di noi stessi ogni giorno. Solo una cosa: il finale di questo romanzo è uno dei più sapienti e bei culmini letterari che io abbia letto negli ultimi anni, autentica opera di poesia.