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Il 1848 e le cinque giornate di Milano
di Antonio Monti
Pubblicato su PB15


Anno 2004- Fratelli Frilli
Prezzo € 19- 272pp.
Collana Lombardia storica
ISBN 8875630119

Una recensione di Carlo Santulli
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Votanti: 1730
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Il 1848 e le cinque giornate di Milano

Ristampare i libri di storia potrebbe sembrare, a prima vista, un esercizio sterile, perché se i fatti sono, idealmente, immutabili, in realtà la storiografia si costruisce sulle fonti, insomma sui documenti e sulle testimonianze. Questo lascia non solo margine per diverse interpretazioni, ma anche rappresenta, grazie alla stessa scelta delle fonti, un motivo di controversia nella ricostruzione dei fatti. Di conseguenza, quando rileggiamo un’opera storiografica uscita più di mezzo secolo fa, come questo libro di Antonio Monti, che uscì per la prima volta nel 1948 in occasione delle celebrazioni per il centenario delle Cinque Giornate (18-22 marzo 1848), è facile osservare come tutto vi appaia datato, dal tono dell’esposizione alla scelta dell’impostazione ad una certa enfasi patriottica intorno al Risorgimento, che non può che sembrare “fuori moda” in quest’epoca multiculturale ed europeistica.
Questo in apparenza: ma poi, andando a fondo, ci si rende conto che la ristampa di questo libro ormai introvabile in commercio, non rappresenta solo un atto dovuto, ma illumina con chiarezza che cosa un episodio breve, ma intenso, come le Cinque Giornate rappresentò in una città come Milano, in fase di sviluppo economico, e caratterizzata da vivaci contrasti sociali e da un fortissimo spirito stracittadino, che faremmo forse fatica a ritrovare nella moderna metropoli, nella quale la città del ’48 è stata largamente cancellata, un processo accelerato specie dopo il 1926, quando una serie di comuni limitrofi vennero aggregati a quel che era Milano in origine, cancellando di conseguenza molte particolarità topografiche, che rimangono più come curiosità che altro. Nella Grande Milano, anche i Navigli sono stati ricoperti, salvandone solo la zona della Darsena, verso sud-ovest. Come già Monti osservava nel 1948, ancora con molte trasformazioni di là da venire, le Cinque Giornate sembrano un episodio accaduto in un’altra città, forse in un luogo di fantasia. L’autore però ci riporta alla realtà, non solo perché era già abbastanza anziano quando scrive questo libro da ricordare quello che Milano era solo un paio di generazioni prima (la Milano di Bava Beccaris, e degli altri tumulti del ’98, se vogliamo), ma anche perché raccoglie le preziosissime testimonianze dei “reduci” del 1848, quando nel 1884 la Commissione Municipale decide di concedere loro la medaglia delle Cinque Giornate, dopo aver accertato il loro ruolo reale nell’insurrezione. Il che è molto bello ed ottocentesco, e ci avvicina quelli che venivano visti nell’iconografia come eroi, e che testimoniano con una modestia ed un tono di sincerità quasi toccante, tutt’altro che icastica, ma viceversa molto umana, e non priva di pietà per il “nemico” austriaco (ad onor del vero, molti soldati di stanza a Milano erano in realtà croati). E questo ci fa vedere come i Milanesi compresero l’importanza da subito di quella sollevazione, al di là del suo risultato, che fu quello di una decina d’anni di repressione e compressione delle libertà civili da parte dei governanti austro-ungarici. Questa estrema rilevanza delle Cinque Giornate è indicata per esempio dal fatto che moltissime vie di Milano sono dedicate a reduci di quelle giornate di marzo ’48, come per esempio Bernardino Bianchi, che nel 1884, come Monti riporta, era prefetto di Ferrara, e c’è anche corso 22 marzo che giustamente inizia a piazza delle Cinque Giornate. Ed il fatto topografico è per una volta indice di qualcosa di molto importante, cioé che il Quarantotto è stato qualcosa motivo d’orgoglio per i milanesi, prima di tutto perché la rivolta riportava la loro città per qualche tempo al ruolo ed alla responsabilità di una capitale, se non per tutta Italia, almeno per l’Alta Italia, come era stata ai tempi di Napoleone (e non è un caso del numero e dell’importanza di ex-bonapartisti, pur anziani, che parteciparono alle Cinque Giornate.
E verso una capitale, la gente accorre letteralmente da ogni dove a portar soccorso, ci sono i genovesi di Nino Bixio e Goffredo Mameli che arrivano solo l’ultimo giorno, ma poi c’è, a dare il ruolo di rivoluzione alle Cinque Giornate, la partecipazione di tutto il popolo a creare le barricate, da coloro che svolgevano i mestieri più modesti (molte le donne) fino alla nobiltà, come la bellissima Contessa Suardi, che dato un pugnale ad un giovane abate, cui dal balcone aveva fatto cenno di salire (e non è da escludere che questi avesse pensato ad una diversa conclusione della vicenda), gli dice: “Va’ e ferisci l’oppressore che oltraggia la bella Italia nostra”, cosa che l’abate esegue senza esitazioni e che dà l’inizio alla rivolta. Molto operistico, anzi verdiano.
Certo, ci sono anche i nomi “che contano” nel Risorgimento milanese, da Casati a Cattaneo, che pur non essendo d’accordo praticamente su nulla sulla questione del dopoguerra e dell’Italia da farsi, riescono tuttavia a collaborare efficacemente nel governo provvisorio: e che il dopoguerra fosse più complesso della guerra lo dimostrano i 22 (almeno) giornali politici che si stampavano a Milano poche settimane dopo il 22 marzo 1848. E c’è Mazzini naturalmente, che arriva tardi e cerca di formare la repubblica, ed anche Manzoni, che firma con mano tremante la petizione perché Carlo Alberto intervenga. E qui ci metto del mio, perché, se Monti avanza dei dubbi sulla “mano tremante” (altro topos operistico, comunque) di Manzoni, io credo che sia un effetto della malattia nervosa che lo tormentò per tutta la vita.
La specificità tuttavia del Quarantotto milanese fu l’immediata partecipazione popolare, che non ebbero altre rivoluzioni, ed episodi ben più celebri, come quello dei Mille di Garibaldi, acquistarono solo strada facendo, si conquistarono per così dire. Per questo, la parte più interessante però rimangono le testimonianze dei reduci, sparse qua e là nel testo e poi concentrate come documento alla fine. Monti ne segue la vita dopo le Cinque Giornate, per quanto possibile, e ci sono per lo più vite tranquille, modeste, borghesi diremmo oggi, spesso ritirate da ogni partecipazione politica. Questo accresce il fascino un po’ oleografico di quella lontana rivolta, a cui pur dobbiamo qualcosa se l’Italia, pur con tutti i suoi problemi e difficoltà, rimane un paese unito.


Una recensione di Carlo Santulli



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