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Commento alle poesie di Andrea Cambi
di Pietro Pancamo
Pubblicato su PB19


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Per alcuni la letteratura è una professione; per altri, pure. Ma solo di fede. Sarà per questo che la vita mi toglie il fiato non tanto per la bellezza che irradia, quanto invece per la fatica? Eh sì, mannaggia! Non a caso il mio desiderio maggiore, guarda un po’, sarebbe quello di dormire attentamente (per filo e per segno, ossia compiutamente) dopo aver lasciato morire per sempre i miei scritti episodici. Che non procedono più, a ogni modo, e che mi lasciano freddo, in genere – cioè ormai –, proprio come il calore degli ottimisti.
Fra i quali annoverare Andrea Cambi non sembra opportuno davvero, dal momento che accostandoci alla sua vastissima produzione (qui rappresentata, per esiguità di spazio, da undici esempi contati) ci troviamo a tu per tu, immediatamente, con un autore dedito alla spi-ritualità delle parole: al ritorno ciclico-ascetico di temi e ironie struggenti che si ripetono con insistenza montaliana, fino ad illustrarci pienamente il male di essere al mondo e di dover affrontare ogni giorno, in stretta alternanza, l’ansia e la paura di vivere. Se non addirittura (come suggeriscono i problemi gravi di permanente e prominente disperazione, che affiorano dalle liriche di Andrea) quella sensazione di vuoto al cuore, alla quale è difficile sottrarsi, quando (magari dopo aver trascorso l’intera esistenza ad organizzare questue capillari che ci elemosinassero un rifugio qualunque, purché “ricalcato” sul nostro cuore) scopriamo a lutto che la poesia, in ambedue i “versi” (a leggerla o a scriverla), può – se va bene – costituire uno sfogo. Ma una consolazione... mai e poi mai. (Pietro Pancamo)

______________________________________________________

Poesie di Andrea Cambi


Terapie

La notte
che ha pareti
interminabili:

umidi cilindri
precipitano in altrove…

E io che ci cado dentro
come un relitto bellico,
un aeroplano in vite piatta:

eppure rido,
godendo di quell’alesaggio
senza stridori,

trasfiguro casualità
e finzioni e le vedo
come realtà:

fingo conoscenze radicate,

su sesso e vita…


Pathos

Questo allora è il dolore.

Un’acqua che s’asciuga in fretta
sul dorso di un muro soleggiato,

e nel guardare quel dolore
c’è rimpianto e una strana allegria:

la lontana gioia
d’esser stati vivi…


Gassman

... pomeriggio:

fa risorgere pro tempore
la mia mente:

sole postatomico bianco
in ritardo sulla vita reale,

crudele…

(“… posso tollerare
la compagnia che più
ho temuto,
che più ho odiato:

che ascoltavo a cuore fermo
su appunti di Geologia,
dentro a primomaggio
senza suoni… ”):

la solitudine.


Tesi

Ho perso.
(“Ho sbagliato tutto… ”).

Ma la mia sconfitta
non ha dolore:

esso si annega
in un tempo
che ho scordato.

Ha vinto la Vita,
la mia paura di lei.

Si sveglierà
in una debole angoscia,
immatura come la luce
al mattino:

da stordirsi
in un’arida prassi:

di lacrime senz’acqua…


Marco

“… insisto… ”:

fatto magro
da questo vento
come una terra
senza padrone,

da questa pioggia
che luoghi inaccessibili
partoriscono impalpabile:

dentro
ho un’ulcera continua,
un buco nello spirito:

invisibile ai più,
o inguardabile
come un peccato:

riscattarmi
in uno spaventoso futuro
di vanagloria,

per mitigare
l’unica vergogna
che mi riconosca:

aver troppo temuto di vivere.


Reality

… “che tragedie
sotto l’esile scorza
della bionda borghesia:

dietro la facciata
che risplende all’arido
sole appeso…

Gli occhi semichiusi
delle finestre al mattino,

non nascondono che il mio corpo
è un relitto senza speranze,
arenato fra le macerie di un letto:

ancora grigioblu notte,
e quasi alba che offende… ”.


Estate

… sto tutto
rappreso nella mia…

abbronzatura imprestata,

ottenuta con l’imprimatur
di mia madre che vigila…

“È che… ”.

Vengo da una remota
coscienza narcisistica:

tenevo all’apparire,
mi scrutavo e gioivo
per il biondo che aumentava
nei capelli, con l’estate…

Ora oscillo appeso
all’altalena dell’irrealtà:

“Senza corpo… ”,

fra un passato
tanto distante
da apparire dimenticato,

e un atroce presente
senza scelta…


Statica

Non chiedo
che una notte feriale,

tiepida e ricca
di profumati silenzi:

un’urna blu
nella quale perdermi…

Avere abbastanza corpo
da poter reggere gli attacchi
del cuore, le ondate nere
del respiro:

tutto il peso
dell’essere fragile…



Capelli da ragazzo

Al mio dolore
non so se acuto…

come la punta di una lancia…

… la fantasia accesa
non ha fatto seguito.

Guardo alle vecchie paure,
tutte appese come foto
che rammentino il passato:

come fossero un miraggio…

Il mio dolore quello vecchio
ha quasi il suono delle campane,
l’abito della festa:

racconta che tutto era possibile…



Ti scrivo da una mia guerra

“Scusa se non partecipo/
ma ho già il mio bel daffare/
a sopravvivere”:

è che oggi risento tutto il dolore,
il vecchio insieme al nuovo:

li rivedo qui.

Così la mia gioia
per non dover partire
è tutto l’orrore…

… del senso di protezione
che offre un giorno feriale,
un programma televisivo,

la promessa di una nevicata
che attutisca la vita.

Sai,
ieri sfogliavo i telegiornali,
e mi sono imbattuto
nel mio più grande eroe neurovegetativo:

il camionista incagliato nel traffico,

quello che racconta tranquillo
le disavventure dell’ultima notte,
e invoca l’aiuto della polizia,

ma con grande educazione.

E il fumo dalla sigaretta sale azzurro,
nello sfondo scuro dell’abitacolo…


Il reparto

Il massimo dell’involuzione
è questo?

Usare il dolore al piede
come timore più grande,
come distrazione al sottofondo
di sempre:

il cuore malato…

© Pietro Pancamo



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