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Tutto il mio mondo (in un respiro)
di Adriano Secci
Pubblicato su PB16


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Cara Beth,
tre passi a sinistra dalla grossa roccia di Polifemo guarda diritto davanti a te, oltrepassa con lo sguardo il grande salice in lacrime, attendi che il sole si stemperi contro la cima della collina e quando il suo occhio arrossato finisce trafitto per metà dalla forca, chiudi per qualche attimo gli occhi, respira l’aria dolciastra dei campi di grano e riaprili. E’ il vettore di luce centrale che ti indicherà la via. Non pensare, non tentennare e non temere, limitati a seguirne la direzione. Quaranta passi dopo ti troverai a cospetto di uno spuntone roccioso, il nostro dorso di tartaruga, aggiralo e alla base opposta rintraccerai una fessura, appena percettibile tra l’ombra del tramonto e gli arbusti d’edera che celano il suo ingresso. Inginocchiati e delicatamente rimuovi le radici. L’imbocco parrà dinanzi ai tuoi occhi, largo ed accogliente come forse hai scordato. Entra. Là troverai qualcosa che ti appartiene.
Sai cara Beth, col passare degli anni sempre più ho avvertito quel sentore che non m’ha abbandonato. Per un certo tempo ho persino provato a credere che mai fosse esistito; ma mi sbagliavo, era dentro me, nascosto dalle mille vergogne della quotidianità. Legato dal nodo di una cravatta, affogato nel puzzo di un buon profumo, disinfettato da un orgasmo sessuale, zittito dallo strillo di un bimbo affamato, ridicolizzato dagli zeri di un assegno bancario, dimenticato fra i numeri di un risultato calcistico… Ma è lì con te, in realtà non ti ha tradito e tantomeno lasciato. Forse appena trascurato.
E’ la sera, una di quelle come questa in cui ti sto scrivendo, tiepida di primavera, tinta di un violetto nostalgico e profumata di polline e fieno, che si fa avanti in punta di piedi e mi respira piano sul collo, veglia sui miei pensieri e mi bisbiglia negli orecchi durante il dormiveglia.
Ma tu sai più di qualunque altro quanto diverso sia io dal resto del mondo. Hai sempre saputo e m’hai sempre accettato. Ma non basta la comprensione per cacciare via l’animo di un uomo.
Passati ventidue anni non ho resistito, le barriere erette son volate via al primo alito come le morbide eliche di un soffione di prato. Son tornato nel nostro piccolo paradiso, un tardo pomeriggio di tre anni fa. E sai una cosa? E’ tutto come prima, anche gli steli d’erba, le spighe di grano, gli stormi d’uccelli, tutto come un disegno su tela, tutto come un beffardo e meraviglioso inceppo temporale. Là, qualcuno s’è scordato di dare la carica all’orologio!
Credo che le mie parole siano arabo per te. Non ti do tutti i torti, io stesso ti ripeto per un lungo periodo della mia esistenza ho completamente scordato i luoghi che appartenevano ai nostri anni fanciulleschi. Sentivo come un vuoto che non si lasciava riempire. Un pozzo che nient’altro mi restituiva se non un recipiente vuoto. Allora non ci badavo, o meglio fingevo di non dare peso a quell’oscurità. Ma il buio ha fame sai? Non è soltanto una creatura cieca ed immobile nella sua tana. Si muove, segue una sua perfetta logica, è capace di pensare e ragionare ed ha un appetito insaziabile. Mangia tutto quello che trova davanti al suo percorso, si espande strisciando come un’enorme macchia di petrolio, divorando ogni fotone di luce che gli si oppone.
Ho provato in tutti i modi a cacciarlo via, ma credimi, non c’è stato niente da fare.
Davvero non lo avverti anche tu quel senso di vuoto? Io credo di si. Magari di tanto in tanto, quando la sera sei pronta a farti coccolare dalle lenzuola, dopo esserti assicurata che il bimbo stia dormendo, dopo che hai consumato l’amore con tuo marito e ti distendi stremata e sudata sul letto; guardi il soffitto e fiuti un senso di afflizione anonimo; ti giri e ti rigiri fin quando con l’animo dolente non cadi in un sonno turbato. I raggi del mattino cancellano sempre tutto, o meglio occultano le ombre. Ma non quelle che ti porti dentro. Là nessun sole può arrivare, nessun conforto può lambire.
Sei sempre stata più forte di me, sotto ogni punto di vista. Ricordi cosa diceva sempre pa’?:
“tu Tom avrai bisogno di un marito bello duro all’antica; tua sorella invece dovrà sposarsi con una mogliettina tutto letto e fornelli”.
Serbi memoria perlomeno di questo? Io la prendevo sempre a ridere, tu invece ti offendevi e come ogni volta tiravi su le maniche della maglietta e davi le spalle, ed io ricordo perfettamente la fisionomia dei muscoli da ragazzino, conservo con ossessionante nostalgia quel tuo sguardo imbronciato che affilava i lineamenti perfetti. Eri bellissima, lo sei sempre stata.
Ma infondo il nostro caro padre non si era scostato poi tanto dalla realtà, ne convieni Beth?
Dai bigliettini d’auguri che un tempo ci scambiavamo per Natale, ho avuto quest’impressione. E’ come se abbia sempre conosciuto tuo marito. Un brav’uomo dall’aspetto giovanile, alto, magro e con un paio di occhiali con la montatura di una semplicità anonima. Dolce e rispettoso… Di la verità i conti in casa li tieni tu vero?
Niente di male credimi.
Per quanto mi riguarda, sai altrettanto bene che io ho sposato mia madre. Un donnone grosso grosso, che guai a rinfacciarle un “ma” o un “però”, è capace di cuocerti sulla padella soltanto con quel suo sguardo incavato nelle borse viola degli occhi.
Si, li tiene lei i conti, e ti confesserò di più; del mio stipendio, settimanalmente non vedo che due miseri dollari per un pacchetto di Camel. E quando si esce insieme a mangiare un gelato (ad ogni glaciazione per essere precisi), è lei che tira fuori il portafoglio e paga per entrambi. Il negoziante tentenna, mi guarda un attimo come se si aspettasse da me un: “no cara scherzi? pago io”, poi con uno sguardo miserevole prende la banconota, ed io non posso far altro che accettare la mia condizione di vittima passiva.
Ho pensato tante volte al divorzio. Ma non avrei concluso niente; se dovessi correre alla ricerca di una mia dignitosa esistenza, altro non farei che tentare di ghermire l’aria con un retino. Ho sempre avuto il bisogno di qualcuno che mi guidasse; sono un po’ come quelli uccelli che si posano sul dorso degli animali. La mia funzione è quella di liberarli dai piccoli parassiti. Niente di vitale intendiamoci, ma a loro va bene che ci sia qualcuno che si occupi delle piccole faccende. Credo che non potrei fare altrimenti, è nella mia natura e non riuscirei a vivere in una condizione di assoluta autonomia. Ma io l’ho sempre accettata sai? Perché credo che in fondo sia questo il senso della vita; scegliere la guida giusta. Perlomeno per quelli come me. Per tutti quelli che sin da piccoli si nascondevano dietro il coraggio della sorellina più piccola d’età e nonostante già più alta del fratello maggiore.
M’hai sempre difeso da tutto. Immagino che a volte mi mettessi nei guai di proposito per ricevere la tua protezione. Ricordo tanti episodi, come quello della falciatrice di pa’. Fui io ad accenderla e rompere le lame di metallo. Volevo tagliare una roccia in due, sai come faceva il samurai di Lupin. Quando pa’ si presentò con la cinta in mano stavo per confessare tutto. Ma tu ti mettesti tra me e lui e senza mai abbassare lo sguardo da quello suo furioso e severo, dicesti che io avevo passato l’intero pomeriggio ad aiutarti in matematica. Fu lui a cedere, guardò me rifugiato dietro la tua schiena e sbuffò inviperito. Sapeva che era una bugia, come sapeva che non avrebbe potuto trovare alcun attrezzo che potesse permettergli di scavalcare la tua muraglia.
“Grazie” ti mormorai osservandomi le scarpe. Mi sollevasti il mento e mi costringesti a guardarti. Ricordo caramente quei tuoi occhi azzurri, dolci e decisi allo stesso tempo, quello sguardo fermo che ho provato ad imitare per tutta la vita senza mai riuscirci. Quella calma e pacatezza di chi sa quello che vuole, di chi sa amare senza proferire parola. Io invece, ho sempre dovuto dire “ti amo” per esprimere il concetto alieno alle mie tentennanti azioni da uomo e neanche sono convinto che l’abbia mai ascoltato nessuno.
“Non mi devi ringraziare” mi dicesti “tu avresti fatto lo stesso per me”. Mi limitai ad assentire col capo, senza neanche troppa convinzione. Mi stringesti e mi baciasti sui capelli biondi, ed io avvertii la morbidezza del tuo piccolo seno sul mio torace magro. E ti amai, ti amai perché in cuor tuo sapevi che non avrei mai avuto il fegato di difenderti da pa’. Piansi della mia codardia, tu invece sorridesti prendendomi per mano ed accompagnandomi al bagno per lavare via dal viso la sofferenza dei miei dubbi vigliacchi.
Mi sono sempre sentito in debito con te, sapevi quanto bene ti volessi ma non lasciavi che avessi alcun modo per dimostrartelo. Così cominciai a calcare le tue orme, cercavo di restituirti il mio affetto nel buio dell’anonimato. Quando uscivi di casa ti pulivo la stanza. Non che ce ne fosse bisogno, sei sempre stata molto ordinata, ma lo facevo comunque. Per mesi ho spolveravo quei tuoi gattini di porcellana, ti lucidavo gli scarponcini e sistemavo bene i lacci se s’attorcigliavano, riassestavo un quadro impercettibilmente penzolante sul chiodo… sorridevo alla nostra foto sul comodino. Tante piccole cose, tanti piccoli gesti.
Non volevo che ti accorgessi di tutto questo, ma in fondo avrei voluto che mi beccassi sul fatto. Speravo che una mattina saresti entrata e mi avresti colto in flagrante: “piantala scemo” immagino mi avresti detto sorridendo con le mani sui fianchi “dai andiamo a fare un giro”, ed io non avrei detto niente, forte di un comportamento enorme nella sua umiltà.
Ma non sei mai entrata, ed io son sempre rimasto col dubbio che non ti sia mai accorta del mio invisibile tocco di dolcezza. “Il tuo angioletto custode”, mi definivo mentre rimuovevo il fango dalle suole delle tue scarpe, come se ti stessi salvando la vita… Sciocco triste eroe che non ero altro… ma sai bene, non disponevo d’altri strumenti per professare la premura di un fratello maggiore.
Ma è quell’estate in particolar modo, che m’ha spinto ad esasperanti ricerche sul tuo nuovo domicilio. Quell’estate e quel luogo hanno consentito che ti scrivessi dopo esserci persi per millenni.
Ti vidi l’ultima volta al funerale di pa’, troppo dolore per lasciar spazio alla felicità di rincontrarti.
Da allora più niente, solo quel senso di turbamento che rodeva come un tarlo fra le marcite fondamenta dell’animo. Daila non mi ha mai compreso: “se cadi in depressione a trentacinque anni, finirai appeso col cappio al collo e la lingua penzoloni fra due al massimo”, così mi tirava su di morale la mia mogliettina, dandomi le spalle in piedi sul frigo mentre spolpava gli avanzi di pollo come se non avesse mai mangiato.
Ma non ho mai serbato rancore per il suo cinismo, d’altronde non c’era niente che non andasse, non abbiamo mai dovuto affrontare delle grosse seccature. Semplicemente il problema ero io. Qualcosa dimorava fra i cunicoli della mia vita. Ho provato in ogni maniera a stanarlo, ma forse non sono mai stato troppo persuaso dal volerlo fare veramente.
Io, mai stato convinto di niente; tentennai persino quando per la prima volta mi chiedesti di fare di quello spazio fra la roccia ed il terreno, il nostro segreto nascondiglio dal mondo.
Ora riesci a ricordare qualcosa?
Passeggiavamo sempre fra le campagne. Tu mi raccontavi quali fossero i tuoi sogni futuri, anche se a me parevano più che altro programmi, convinto come son sempre stato che qualunque cosa avresti desiderato non ti ci sarebbe voluto tanto per ottenerla. Ti ascoltavo, ti guardavo e a volte ti spiavo, eccitato al pensiero che un giorno anche io sarei stato tanto deciso da prospettarmi un domani.
Tiravi su le trecce ed imbronciavi le labbra per farmi ridere, quando quel tardo pomeriggio notammo la strana forma di una roccia.
“Guarda” mi dicesti seguendone la fisionomia col dito “sembra che nel mezzo abbia un grosso occhio”; “Polifemo” ribattei io, “già Tom” rispondesti affascinata “sembra proprio l’occhio di Polifemo”. Fu da allora che per noi quella fu la “roccia di Polifemo”, la prima indicazione verso un mondo del tutto differente da quello che conoscevamo. Poco oltre fosti sempre tu a notare le cascate verdi dei rami di un grosso salice; ricordi? Non dicemmo niente, corremmo affascinati verso quello spettacolo della natura. Accarezzammo i rami e tu te li passasti intorno al collo, sbraitando che il mostro dai mille serpenti verdi t’aveva catturato. Io stetti al gioco e con una pietra finsi di tranciare i deformi rettili che volevano rubarti il fiato. Proprio in quel momento il sole discendente si perse per metà fra la cima appuntita della montagna e pareva davvero volesse fare dell’astro arrossato uno spiedino. Come strade surreali si dipinsero davanti a noi tre lame d’arancio. Annichiliti a contemplare quel prodigio, tu sussurrasti: “quella centrale Tom, seguiamo quella centrale”, ti guardai e per la prima volta ebbi l’assaggio della nostra unione. Qualcosa che di più profondo non avevo e non ho mai più provato. I raggi rossastri mi investivano, avvertivo qualcosa entrare in me, riempire uno spazio immenso. Tu neanche socchiudevi gli occhi, per niente infastidita dal riverbero del tramonto mi prendesti la mano e mi conducesti attraverso quella strada di luce. E fummo a cospetto di un grosso masso che interrompeva la nostra guida infuocata come un enorme portone. Ebbi subito l’intuizione che si trattasse di un ingresso, ma fuggì non appena il lato razionale del mio cervello mi ricordò che avevo dodici anni e certe fantasie a quell’età altro non sono che sintomo d’immaturità.
“Questa è una tartaruga” dicesti mentre salivi pericolosamente sul dorso. Cercai di fermarti, di dirti che era un rischio, ma non feci in tempo ad aprire bocca che tu scivolasti dalla parte opposta. “Mio Dio Beth” pensai e subito corsi dalla parte opposta, pronto a perdere i sensi alla vista dei tuoi occhi rovesciati verso quel cielo che avevamo ammirato qualche attimo prima… Invece tu mi guardasti e scoppiasti in un riso che mi lasciò incredulo. Ringraziai il cielo e per la prima ed ultima volta in vita mia ti rimproverai. “Dai non è successo niente Tom” mi dicesti “piuttosto guarda che ho trovato”, ti rialzasti e con la mano scostati le piante che celavano un imbocco proprio alla base della roccia, largo il tanto da entrarci uno per volta.
Io con la bocca spalancata ti guardai insinuarti. Dio solo sa cosa potesse contenere quella nicchia naturale, quali creature avrebbero potuto essere infastidite dalla tua presenza.
“Istinto” lo chiamo; quell’indole che mai ho conosciuto e che sempre ha contraddistinto il tuo carattere. Poco t’importava di quello che avrebbe potuto attenderti là sotto.
Il grido di ribrezzo o dolore che m’aspettavo mai arrivò, soltanto un’esclamazione di stupore e subito un invito a seguirti.
Non so quanto ti ci volle per convincermi, ma come sempre riuscisti nel tuo intento.
Strisciai per quella fessura, annusai l’odore della penombra, di radici, terra umida e minerali. Avevo paura, come sempre mi succede quando mi trovo in presenza di qualcosa fuori dalle mie abitudini.
Il cunicolo scendeva per qualche decina di centimetri dentro la roccia, terminando in uno spazio abbastanza accogliente per entrambi. La fievole luce che si tuffava dalla fenditura lasciava appena intravedere il bianco dei tuoi occhi. Ero infastidito dal terriccio che mi s’intrufolava tra i capelli, la polvere mi pizzicava il naso e le pareti mi trasmettevano un senso di claustrofobia tale da procurarmi un principio di panico che si presentò con un sapore metallico sulla lingua. Feci per strisciare fuori, ma tu senza guardarmi mi trattenesti per un braccio. Eri ferma là, a guardare il mondo di fuori. Osservai anche io. Tutto si presentava sotto una differente prospettiva panoramica. Potevamo scrutare, spiare, ammirare e niente e nessuno poteva farlo con noi. Segreti, due inviolabili segreti eravamo. Quella sera, là sotto non proferimmo parola, rimanemmo ad ascoltare il silenzio sotterraneo e la vita che respirava di fuori il suo alito azzurro ed i suoi sbuffi di bianche nuvole.
Per tutta l’estate tornammo nel nostro covo, ed anche quella successiva. Parlavamo come mai avevamo fatto, sentivamo, ascoltavamo, fiutavamo in un modo del tutto nuovo.
E quello era il nostro mondo, tutto nostro e di nessun altro. Una piccola nicchia chiusa all’esterno, aperta alle nostre vedute.
E’ proprio là ho forse trovato quel buio capace di colmare l’insofferente spazio vuoto nell’animo.
Ma il tempo corre troppo veloce per potergli stare dietro. E tu crescesti, maturasti e presto ti stancasti di giocare alle lepri col tuo fratello maggiore.
Il sole era stato digerito da un pezzo, guardavamo malinconicamente gli uccelli che migravano a sud ed io avvertii la sensazione che quella sarebbe stata l’ultima volta che ci saremo trovati insieme nel “nostro mondo”. Stavo con le ginocchia piegate sul petto e trovai il coraggio di dirti:
«Non verremo mai più vero?»
Tu non rispondesti, ti sentii inspirare aria umida e ributtarla fuori. Odorava di gomma da masticare alla fragola.
«E’ la nostra casa, il nostro tetto» dicevo più a me stesso che a te «la nostra magica finestra segreta sul mondo…» terminai singhiozzando.
«No Tom, non devi fare così» mi dicesti
«Le cose cambiano…» tacque guardando fuori «abbiamo imparato che tutto cambia. Vedi? Guarda quegli uccelli. Vanno via, migrano verso un posto più caldo, verso un qualcosa che si adatta meglio alle loro esigenze.» Cercai di trattenere il pianto, la tua era una verità che non potevo accettare. Continuasti:
«Credi che anche loro non vorrebbero rimanere per sempre nel posto che amano di più? Ma non possono, non si può… ci si deve adattare…»
«Ma io non mi voglio adattare Beth, io vorrei soltanto stare bene nella mia nicchia con la persona che amo di più…» risposi osservando gli stormi migrare come per maledire quella legge naturale.
«Lo farai caro Tom»
«Cosa faro?» ti risposi fra i singulti
«Ti adatterai, come tutti, troverai la giusta stagione e ti adatterai.»
«Prendi questo» mi dicesti passandomi le mani attorno al collo
«E’ la catenina che mi ha regalato nonna»
«No Beth non posso» risposi fermandola mentre cercavi d’agganciarmela al collo
«Si che posso, quando si ama tutto si può. E se la stagione futura non sarà calda quanto desideri, stringi la medaglietta, guardarla e pensa a noi».
Non singhiozzai più; le lacrime calde e copiose scesero in silenzio, mentre fuori gli ultimi uccelli strillavano il loro arrivederci.
Ti giuro Beth, ho provato e riprovato, correndo, arrancando, spossato, non son comunque riuscito a raggiungere la vita, a prenderla per la coda e farmi trascinare come hai fatto tu. Forse perché a volte avevo le mani impegnate a stringere il tuo medaglione invece che la coda… Ma cosa ti sto scrivendo? Dio mio sorellina io non voglio certo dire che la vita non mi abbia agganciato perché ero troppo preso dal ricordo del tuo affetto… No, ci mancherebbe. Più semplicemente ho preferito lasciarmi trasportare dal destino. Quello non vuole che si paghi il prezzo del biglietto, ti porta verso le sue numerose fermate, gratis, senza consulto.
Ma alla fine tutte le stazioni portano allo stesso capolinea sai?
Ed io ho sguazzato nel fango della mia inquietudine per anni; ma ora son libero, si cara Beth, sono finalmente un uomo libero, felice, in pace con la mia persona.
Ora che ho realizzato il progetto che mai ero riuscito a comprendere, ti sono debitore.
Quella catenina deve tornare sul tuo collo, t’appartiene come il tuo incoraggiante ricordo è appartenuto ai miei anni.
Le istruzioni per una breve (spero felice) parentesi di un ritorno al passato le hai ricevute, e là sotto troverai la tua medaglia.
Ho spulciato il vocabolario da cima a fondo, ma nessun aggettivo era in grado d’esprimere la mia riconoscenza per te. Semplicemente un grazie infinite.
Sorellina mia, mia dolce Beth, ti saluto con un caloroso abbraccio ed un grosso schiocco di un bacio fraterno.
Arrivederci.
Tuo Tom.


p.s.:
un ultimo favore: quando entrerai nella roccia, se dovessi avere gli occhi chiusi, riaprimeli; desidererei osservare per sempre il nostro mondo tutto speciale.

© Adriano Secci





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