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La mano
di Massimo Burioni
Pubblicato su PBSE2007


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Una notte di settembre, all'inizio della stagione delle piogge, Giovanni fu svegliato dal guardiano che bussava come un forsennato alla porta di casa chiedendogli a gran voce di aprire.
- Nkosi Giovanì, Nkosi Giovanì ! Fungula, Fungula!
- Vingila fioti, mono me kuisa ! - Arrivo, calma, rantolò con voce impastata mentre cercava a tastoni la torcia elettrica sul comodino, facendo cadere a terra la sveglia.
Arrancò verso la porta in mutande e ciabatte con la torcia in mano, giurando a se stesso di farne buon uso se il motivo del disturbo non fosse stato più che serio. Gli venne in mente quella volta che Mantata, il guardiano tuttofare, lo aveva tirato giù dal letto poco prima dell'alba per chiedergli delle pile nuove per la torcia elettrica che aveva in dotazione.
Dallo strepito che proveniva da fuori, questa volta sembrava una cosa molto urgente e grave, quindi il volontario si affrettò ad aprire la porta e ad uscire per affrontare la catastrofe.
Quando Mantata si decise a togliergli dagli occhi la luce della torcia Giovanni poté vedere che insieme al guardiano c'erano altre due persone. Uno era il proprietario della macelleria dove lui si serviva facendosi mettere da parte qualche pezzo di filetto ogni volta che veniva macellato un bovino. Si chiamava Joseph ed era un pezzo d'uomo alto, grosso e grasso che tutti chiamavano le géant, il gigante. Doveva pesare sui cento chili e, come molte persone grosse, era quasi sempre di buon umore, ma in quell'occasione l’assonnato volontario vide che sul viso rotondo aveva un'espressione assente. Sulla fronte e sul grosso naso brillavano goccioline di sudore come rugiada mattutina sull’erba. L'altro personaggio non lo conosceva, era un tipo piuttosto alto e magro, avvolto in un lenzuolo bianco come un antico senatore romano, stava dietro il macellaio e fissava Giovanni con aria stupita. Un bianco in mutande non era spettacolo frequente da quelle parti.
- Nkosi Giovanì! - Mantata urlò come se si trovasse a cento metri dalla casa - Tata Joseph ha avuto un problema stanotte... i ladri… nel macello, dalla finestra... lui… una mano tagliata...
- Calma Mantata, calmati – intervenne Giovanni spazientito – Joseph, cosa succede, sono venuti i ladri nel tuo macello? Ti hanno rubato qualcosa?
- Si, sono venuti i ladri, ma non hanno rubato niente - rispose Joseph con una calma innaturale e lo sguardo perso nel vuoto.
Intanto, illuminandolo meglio, Giovanni vide che la camicia del commerciante era schizzata di sangue, ma lui non sembrava ferito. Nella mano sinistra stringeva con forza eccessiva un sacchetto di plastica blu che riconobbe come uno di quelli che gli aveva dato lui qualche tempo prima per riporvi dentro i suoi filetti, evitando così che usasse i soliti luridi pezzi di carta con cui avvolgeva abitualmente la carne per i suoi clienti africani.
- Sei ferito? Ti hanno fatto del male? – gli chiese sempre più preoccupato.
- Non so... non credo… - balbettò lui.
- Vieni, entriamo in casa - lo prese per un braccio e lo guidò verso la stanza che fungeva da salotto e da ufficio. Lo fece accomodare con cautela su una sedia e si affrettò ad accendere la lampada a gas per fare più luce. Gli altri due li seguirono e rimasero in piedi dietro al macellaio. Il magro gli posò una mano sulla possente spalla. A quel tocco Joseph si girò di scatto e cacciò un urlo di spavento che fece sobbalzare tutti i presenti, si sbilanciò sulla sedia e cadde a terra con un tonfo sordo. Il sacchetto che teneva in mano gli scivolò via e si fermò ai piedi del padrone di casa.
- Calmati Joseph! Perdio, calmati e raccontami cosa ti è successo – Giovanni lo aiutò a rialzarsi e poi si chinò per raccogliere il familiare sacchetto. D'istinto, prima di riconsegnarglielo gettò un’occhiata all'interno pensando, dal peso, di trovarci del filetto di manzo, ma con orrore vide che conteneva una mano insanguinata mozzata all'altezza del polso.
Questa volta fu il suo grido a spaventare i presenti. Lasciò cadere la sportina a terra con il suo macabro contenuto e guardò dritto negli occhi il macellaio.
- Di chi é questa... questa mano, Joseph. Cos’è successo! - chiese per l'ennesima volta sedendosi di fronte allo sconvolto gigante.
Il macellaio si guardò intorno per qualche attimo, come se si fosse reso conto solo in quel momento di dove si trovasse. Si piegò con calma in avanti e raccolse il sacchetto da terra molto lentamente, se lo posò sulle enormi cosce e cominciò a parlare.
- Da qualche tempo, due o tre settimane circa, quando riaprivo il macello la mattina, avevo l'impressione che mancassero dei pezzi di carne, ma non ne ero sicuro. Così una sera, prima di chiudere, ho lasciato i tagli più belli in ordine su di un bancone. Il giorno dopo ho avuto la prova che qualcuno di notte rubava la mia carne.
- Hai avvisato la gendarmeria? - chiese subito Giovanni.
A quella domanda il macellaio fece oscillare stancamente il grosso testone nero.
- No, lo sai bene che non sarebbe servito a niente. Ho preferito fare a modo mio. Controllai la chiusura delle due porte e del finestrone che dà sulla strada, ma tutto sembrava a posto. La finestrella sul retro è protetta da una griglia di ferro, quindi scartai subito l'ipotesi che da lì si potesse entrare. Cambiai i lucchetti pensando che i ladri fossero riusciti a procurarsi una copia delle mie chiavi, ma dopo alcuni giorni le sparizioni si ripeterono. Pensai anche alla possibilità che qualche sorcier, qualche stregone, mi avesse preso di mira e mi preoccupai molto...
- Ma va - lo interruppe Giovanni sorridendo - con questa storia delle stregonerie voi zairesi....
- Kanga munoko ‘nge, mundele! - s’inalberò improvvisamente lo sconosciuto avvolto in quella specie di lenzuolo, chiamandolo con il termine mundele che significava bianco, forestiero.
- Taci tu! – lo apostrofò di nuovo il secco - la magia può tutto. Non bisogna mai sottovalutare i poteri degli stregoni! Voi bianchi credete che...
A quel punto Joseph intervenne per proseguire con la sua descrizione dei fatti.
- Calmati Kapenda. Lascia perdere, fammi continuare. Dunque, come stavo dicendo, il solo pensiero di essere vittima di qualche incantesimo mi mise in agitazione. Ma poi l'altro ieri vidi dei segni sulla parete sotto la finestrella, come dei graffi. Presi un bidone vuoto, vi salii e come afferrai la griglia mi accorsi che era stata segata e rimessa in posizione. Dunque niente magia, ma più semplicemente l'opera di un ladro molto scaltro e molto agile.
- Così ti sei appostato e l'hai aspettato - lo anticipò il mundele.
- Si. Ieri notte non si è visto nessuno, mentre stanotte quel figlio d'una iena ci ha riprovato. Ha rimosso la griglia con molta cautela e stava per entrare. Io ero dentro al buio e quando ho intravisto la sua ombra nel quadro della finestra ho tirato un fendente sulla parete col machete, urlando a squarciagola. Volevo solamente spaventarlo, ma lui aveva messo già un braccio all'interno, sul muro, io al buio non l'avevo visto e così.... zac!, gli ho tagliato via una mano.
Adesso stava seduto col busto inclinato in avanti e con i gomiti appoggiati sulle ginocchia. Per un attimo guardò il sacchetto che teneva sospeso tra le gambe.
- Credo sia la sinistra - aggiunse - il ladro ha urlato più forte di me, è caduto dall'altra parte e se l'è data a gambe. Adesso non so cosa fare…
Giovanni guardò fuori della finestra e vide che il nero della notte stava lasciando il posto alla timida luce dell'alba. Gli animali notturni si erano quietati e gli uccelli più mattinieri avevano già cominciato il loro concerto che sarebbe cessato solo nelle ore più calde del giorno per poi riprendere nel tardo pomeriggio.
- Be’, è quasi l'alba - disse - forse sarebbe meglio che tu andassi a metterti qualcosa di pulito addosso e poi raccontassi tutto alla polizia. Io non so cosa potrei fare e, a dire il vero, non riesco neanche ad immaginare il motivo che vi ha spinto a venire da me.
- Vedi monsieur Giovanì - rispose Joseph - subito dopo avere... insomma dopo il fatto, sono corso da mio fratello Kapenda e l'ho tirato giù dal letto per chiedergli consiglio. Pensavamo di andare alla polizia, ma poi ho avuto paura. Il commissario è una persona cattiva ed io ho paura di finire in prigione per avere tagliato la mano al ladro. Lui potrebbe non credere alla mia storia ed io vorrei evitare guai più seri.
- Continuo a non capire, Joseph. Cos’è che posso fare io?
- Kapenda dice che se andiamo alla polizia insieme ad un bianco, insieme a te, il commissario avrà più riguardo, insomma lui ti conosce e sa che tu sei onesto, così...
- Ho capito, vi serve qualcuno che sia al di fuori da eventuali storie di odi e vendette tribali. Non è così? – domandò al fratello dello stravolto macellaio, il quale si limitò ad annuire con aria grave.
Senza aspettare eventuali altri commenti del togato Kapenda, Giovanni si alzò e, rassicurandoli sulla sua disponibilità, disse loro di aspettarlo che si sarebbe vestito e li avrebbe accompagnati alla gendarmeria con la Land Rover.

Il posto di polizia era situato appena fuori del villaggio, su di un modesto promontorio dal quale si poteva controllare a vista il disordinato agglomerato di baracche e capanne che stava inesorabilmente occupando tutta la brulla piana sottostante. Dall'altra parte del villaggio, verso est, si stagliava nella luce pallida del sole nascente la sagoma della collina dove sorgeva la missione, con le basse costruzioni della scuola e del dispensario sovrastate dalla chiesa con il suo alto campanile proteso verso il cielo. Era quello l'unico posto nel raggio di molti chilometri dove la vegetazione non era stata distrutta, e le chiome di enormi alberi del pane e delle sinuose palme da cocco facevano assomigliare la collina ad un'isoletta accogliente che emergeva da un mare di desolazione.
A quell'ora del mattino, infatti, la piana di Kingwangala era sommersa da uno spesso strato di foschia grigio-azzurrognola prodotta dagli innumerevoli fuochi delle cucine all'aperto, dove le donne cucinavano fin da prima dell'alba. I pianti dei bambini e qualche latrato di cane erano le uniche sonorità che salivano dal villaggio ancora immerso nel sonno pesante dei postumi da abuso di alcool. Lungo i sentieri che a raggiera irregolare partivano dall'abitato s’intravedevano tra la foschia delle figure umane avvicinarsi lentamente all’agglomerato di capanne, caracollanti e piegate sotto il peso di enormi fascine di legna legate sulla schiena o tenute in bilico sulla testa. In questa maniera il rifornimento quotidiano per i fuochi e le stufette degli abitanti di Kingwangala era assicurato. Lunghe file composte da decine di donne mulo percorrevano distanze oramai chilometriche per approvvigionarsi di legna da ardere. Altre donne provvedevano al trasporto del vino di palma, la bevanda ricavata dalla linfa della palma da olio e della Raphia, due piante che crescevano nei fondovalle umidi e lungo i torrenti. Il vino di palma veniva trasportato in grosse e capienti zucche, le gourdes o calebasses. Nonostante il nome evocativo, si trattava di una bevanda di colore biancastro e dal sapore fresco, leggermente frizzante e gradevolmente asprigno, nulla aveva da spartire con il vino, se non un certo potere alcolico se bevuta diverse ore dopo la raccolta, grazie alla fermentazione naturale degli zuccheri. Il vino di palma era largamente consumato in tutta la regione ed anche a Kingwangala, nonostante la massiccia invasione della birra, poiché rimaneva una bevanda a buon mercato, dissetante al mattino ed ottimo sostituto della meno accessibile birra per le sbornie serali.
Arrivati davanti alla gendarmeria, Giovanni, Joseph e Kapenda scesero dalla Land Rover e si avviarono verso il posto di polizia. Un giovane poliziotto in tuta mimetica uscì dal gabbiotto della guardia, con un fucile mitragliatore AK47 spavaldamente ostentato e con sulla faccia l’espressione scontenta di chi si è appena svegliato non proprio di buonumore. La sentinella intimò l'altolà al gruppo che si immobilizzò all'istante e Kapenda, ancora abbigliato da improbabile senatore nubiano ai tempi dell’antica Roma, gli disse che dovevano conferire con il commissario. Lo fece con tono stentoreo, guardando dritto negli occhi il giovane militare e si espresse con quel misto di kikongo e francese usato da chi vuol fare capire all'interlocutore che sta parlando con qualcuno che ha studiato, lasciando ad intendere che chi gli sta di fronte gode probabilmente di una buona posizione sociale e che quindi potrebbe anche disporre di un po’ di potere.
- Beto kezola kutuba na monsieur le commissaire.
- Yandi ikele ve - non c'è, rispose seccamente la guardia puntando lo sguardo e la punta del tristemente famoso mitragliatore in direzione della camicia insanguinata di Joseph.
- Wapi yandi, na maison ? - Kapenda gli chiese se fosse a casa.
- Ve - No, riprese il piantone - Ya' kwendaka na Kikwit - é andato a Kikwit, li informò.
Kikwit era la città capoluogo della provincia e si trovava a circa trecento chilometri da Kingwangala, perciò, provando un certo sollievo, Giovanni pensò che il commissario ‘Mbaia, non certo noto per essere un personaggio gradevole con cui discutere, sarebbe stato via a lungo. E quello era già un buon inizio.
- Yandi tavutuka bubu ? – chiese il volontario per sapere se sarebbe rientrato in giornata.
- Mu me saba ve. Mu me banza ya tabika kuuna mingi, mu me saba bo mesala kisalu mingi - non lo so, ma penso che rimanga là molto tempo, perché aveva molto da fare, disse il poliziotto che cominciava a stancarsi della loro presenza.
- Mfumu fioti ikele. Kana beno kezola kutuba na yandi, kwisa – aggiunse poi che il vice capo era presente e di seguirlo se volevano parlare con lui. Senza attendere una risposta si girò e fece strada all'interno della bassa costruzione che aveva certamente visto tempi migliori.
La guardia li fece entrare in una stanza spoglia, una specie di sala d’aspetto, nella quale l'unico arredamento era una panca di legno addossata ad una parete scalcinata ed il pavimento era di semplice terra battuta. Sul muro esterno c'era una finestra senza vetri che dava sul retro, dove, riparata da un recinto di frasche, s’intuiva la presenza di una latrina. Giovanni e Kapenda rimasero in piedi, mentre Joseph si sedette sulla panca appoggiandosi con la schiena alla parete. La panca scricchiolò minacciosamente sotto il peso ragguardevole del macellaio, ma resistette. In mano stringeva ancora il sacchetto che conservava il suo macabro contenuto.
- Siamo fortunati – disse Giovanni - senza il commissario ‘Mbaia sarà di sicuro più facile chiudere la faccenda con una denuncia senza troppe complicazioni.
- Si. Conosco il sergente Kitamba e so che è una brava persona e non credo che voglia complicarsi la vita più del necessario - commentò Kapenda, anche lui visibilmente sollevato dall’assenza del temibile commissario.
In quel momento videro dalla finestra proprio il soggetto dei loro discorsi che usciva dalla latrina con passo lento ed espressione assorta. Dopo alcuni passi in direzione della gendarmeria si portò la mano destra al naso e stringendo la larga appendice tra indice e pollice soffiò vigorosamente più volte espellendo a fiotti il muco che evidentemente gli ostruiva le cavità nasali. Poi con indifferenza si pulì la mano strofinandola sulla giacca della divisa grigioverde all'altezza della tasca.
Dopo pochi minuti il vice commissario Andrè Kitamba era pronto a riceverli nel suo ufficio, dove si recarono accompagnati dallo stesso scocciato poliziotto che li aveva ricevuti all'ingresso.
L'ufficio dove furono introdotti era piccolo ed aveva un'unica piccola finestra opposta alla porta che assicurava un minimo d’illuminazione dall'esterno. Sulla destra di chi entrava c'era uno scaffale di legno appoggiato alla parete con tre ripiani stracarichi di carte e fascicoli polverosi. Molte di quelle carte erano cadute e sparse sul pavimento di terra compattata con olio bruciato e, a giudicare dal loro aspetto, parevano trovarsi lì da molto tempo. Sulla parete di fronte era appeso il ritratto di un compiaciuto presidente Mobutu, con sulla testa l’immancabile zuccotto leopardato e gli enormi occhiali sul naso dalle narici larghe, le mani appoggiate sul bastone-scettro simbolo del potere. Accanto al ritratto, attaccato ad un grosso gancio rugginoso, stava un lume a petrolio col vetro incrinato. Tre sedie di legno sgangherate erano disposte di fronte al tavolo dietro il quale stava seduto il sergente Kitamba. Sul tavolo si facevano compagnia un calendarietto pubblicitario da scrivania della Shell, vecchio di qualche anno, ed un tampone con relativo timbro, che non vedevano l'inchiostro da molto tempo. La visione d'insieme era alquanto deprimente e rendeva palese il basso grado di efficienza dell'istituzione alla quale si stavano rivolgendo. Il sergente Kitamba li osservò con attenzione mentre entravano nella penombra del suo ufficio. Era un uomo sui cinquant'anni, non molto alto e di corporatura robusta. Giovanni notò una vaga somiglianza col ritratto del Presidente appeso sopra di lui, ma sapeva che i tratti in comune col dittatore si fermavano all’aspetto fisico. Kitamba era nativo del posto e conosceva Joseph e Kapenda da sempre e, cosa più importante, era della stessa etnia, un Luba come loro, perciò sarebbe stato certamente ben disposto nei confronti del macellaio. Nella zona di Kingwangala i Baluba erano in minoranza rispetto ai Bayaka, ma essendo generalmente più dotati di spirito d'iniziativa e naturalmente portati al commercio ed all'intrallazzo, possedevano la gran parte delle attività commerciali del villaggio. In un caso come questo, il rischio di vendette a sfondo tribale era sempre da prendere in considerazione.
Se per esempio si fosse scoperto che il neo mutilato era uno Yaka e se la storia della tentata effrazione, una volta resa pubblica, non fosse stata creduta dalla comunità di maggioranza, le conseguenze avrebbero potuto essere drammatiche per il macellaio e per la sua famiglia.
Giocare d'anticipo denunciando il fatto alla polizia avrebbe potuto non essere sufficiente. In ogni modo la presenza del sergente Kitamba in vece del più ostico ed ostile commissario ‘Mbaia era un colpo di fortuna insperato.
Ci furono calorose strette di mano (e Giovanni non poté fare a meno di pensare alla soffiata di naso vista poco prima dalla finestra) e poi il sergente li fece accomodare. Dopo i soliti convenevoli di rito ed alcuni sguardi incuriositi al dimesso ed insanguinato Joseph, il sergente chiese al bianco il motivo della loro visita alla gendarmeria.
In pochi minuti Giovanni lo mise al corrente degli eventi accaduti nella notte appena trascorsa così come gli erano stati raccontati e giustificò la propria presenza col semplice fatto che la sua abitazione si trovava a poca distanza dal macello e che, dopo l'accaduto, si era proposto di accompagnare Joseph e Kapenda con la macchina per guadagnare tempo.
Il sergente ascoltò con attenzione le sue spiegazioni massaggiandosi di tanto in tanto il mento con fare pensieroso. Alla fine del resoconto rimasero tutti in silenzio per qualche istante, i tre civili in attesa di un commento del poliziotto, e questi probabilmente intento a rimuginare sul fatto, non sapendo bene a quale categoria ascriverlo. Dopo qualche secondo di mugugni se ne uscì con un una specie di pensiero a voce alta.
- Allora, se ho ben capito, non si tratta di furto, perché il ladro non è neanche entrato... però mi dite che aveva già rubato in precedenza, ma non ci sono testimoni. Non è un'aggressione... e quindi la reazione di Joseph non può essere giustificata come legittima difesa…
Fece una lunga pausa durante la quale il bianco ed i suoi due compagni occasionali si scambiarono alcune occhiate perplesse, mentre il sergente fissava il soffitto di tela bucherellata della stanza con occhi pensierosi, come se si fosse accorto solamente in quel momento dello stato di decadenza del suo ufficio.
- Fammi vedere! - disse bruscamente indicando con il braccio teso in avanti il sacchetto che il macellaio teneva adesso appoggiato sulle ginocchia unite.
Con la stessa mano tesa prese l'involucro blu e con la sinistra ne estrasse l'arto reciso ed ormai semirigido.
Cominciò ad esaminarlo rigirandolo e scrutandolo con interesse e senza mostrare la minima reazione di ribrezzo o di schifo.
- Uhm... sembra la mano di un ragazzo giovane. Non deve avere più di venti o venticinque anni. Sarà uno di quei delinquenti che campano di furti e traffico di diamanti con l’Angola.
Avvicinò la mano mozza al viso per scrutarla più da presso. Aggrottò la fronte ed arricciò le labbra carnose. Osservò il palmo esangue poi lo palpò con il pollice per verificarne la consistenza.
- Anche se la presenza di calli può far pensare ad un contadino. Comunque credo che adesso non ruberà più,… di sicuro non con questa mano qua!
Alzò lo sguardo serio dalla mano tranciata e fissò lo spaurito Joseph che non sapeva cosa dire. Poi, compiacendosi per la battuta che solo lui trovava divertente si lasciò andare ad una grassa risata appoggiandosi allo schienale malmesso della sedia che scricchiolò per un istante e poi cedette di schianto, facendolo cadere rovinosamente sul pavimento di terra nero di lubrificante di scarto. L'arto del ladro roteò in aria e ricadde sul tavolo del sergente rimbalzando con un tonfo macabro e facendo cadere a terra l’inutile timbro.
Quando il militare si rialzò aveva l'aria di un bambino imbronciato che si trattiene per la vergogna dal dare libero sfogo al pianto.
Nessuno disse niente. L'imbarazzato sergente si spolverò goffamente il retro dei pantaloni con le mani e si rimise il berretto in testa. Riguadagnata una certa dignità scostò i rottami della sedia con alcuni calci, si appoggiò sul tavolo e con tono perentorio si rivolse a Joseph.
- Dunque! Tu ammetti di avere mozzato questa mano durante un tentativo di rapina nel tuo macello. Non è così?
- Si, signor sergente. - Rispose il macellaio intimorito dalla ritrovata autorità di Kitamba.
- Però non sai chi fosse il ladro. E' così?
- No... cioè si, è così, ... non lo so... - s’impappinò il gigante divenuto d’un tratto piccolissimo sotto lo sguardo autoritario del sergente.
- Non sappiamo chi fosse il ladro, sergente – intervenne provvidenziale Kapenda.
- Insomma, il furto non c'è stato e il presunto ladro ha perso una mano, ma nessuno l'ha visto – concluse il poliziotto grattandosi ancora il mento.
Il sergente rifletté qualche istante e poi, sfoderando un sorriso bianchissimo, se ne uscì con una deduzione elementare.
- Basterà cercare un giovanotto senza la mano... la mano... - riprese l'arto dal tavolo e lo confrontò con una delle sue mani - ...sinistra! Manderò i miei uomini in giro per il villaggio e...
- Mi scusi sergente – s’intromise Giovanni - ma lei crede che quel tale se ne vada a spasso per il villaggio col moncherino in bella vista? Se io fossi in lui me ne starei ben nascosto, oppure me ne andrei al più presto a farmi curare lontano da qui.
- Uhm, giusta osservazione, monsieur Giovanì - concesse con un pizzico di delusione per essersi visto bocciare la sua brillante idea - in questo caso non potremmo fare nulla per rintracciarlo ed arrestarlo.
- A meno che non si sia recato invece al dispensario della missione per farsi medicare - aggiunse con rinnovato entusiasmo - un polso troncato sanguina molto, a giudicare dalla camicia di Joseph, e se non si tampona l'emorragia si rischia di morire dissanguati.
- Giusto! C’est ça! – esclamarono all’unisono Giovanni e Kapenda.
– Beto kwenda na mission na controler! - andiamo subito alla missione a controllare ordinò Kitamba chiudendo la fase delle ipotesi e passando alla fase dell’azione.
Rimise la mano mozzata dentro il sacchetto che riconsegnò a Joseph, chiamò una delle guardie con un latrato ed uscì dall'ufficio seguito dagli altri verso la Land Rover del bianco.

Il dispensario si trovava all'esterno della missione dei padri gesuiti ed era una bassa costruzione di mattoni con pianta a L, composta da un piccolo laboratorio per le analisi, male equipaggiato, da una specie di pronto soccorso dove venivano trattati i casi più urgenti e da un padiglione ricoveri diviso in due sezioni, maschile e femminile, che poteva ospitare una decina di degenti in tutto. Le due suore zairesi che si occupavano di mandare avanti la struttura, suor Albertine e suor Emeline, avevano una formazione da infermiere e, nonostante s’impegnassero a fondo nel loro lavoro, non erano certamente sufficienti per sopperire ai bisogni sanitari della sempre più numerosa popolazione locale, perciò i loro interventi si limitavano a cure superficiali, distribuzione di farmaci ed all’assistenza durante i parti.
Quando la Land Rover arrivò sul posto proveniente dalla gendarmeria, nonostante fossero solamente le sette di mattina, c'erano già più di venti persone appoggiate alla bassa costruzione e sparse tutto intorno che attendevano con muta rassegnazione di essere ricevute dalle infermiere. Un po’ più in disparte Giovanni notò anche alcune donne intorno a fuochi improvvisati che stavano cucinando i pasti per i loro parenti ricoverati nel padiglione. Alcune mamme accovacciate sull'erba tenevano in braccio bambini dall'aspetto malaticcio, ventri gonfi e costole sporgenti. Qualcuno di quei cuccioli sfortunati si sforzava di spremere le ultime gocce di latte materno da seni ormai sfiniti e grinzosi. Un uomo affetto da elefantiasi ad una gamba, che era diventata enorme e screpolata come il tronco di una vecchia quercia, e del cui piede si intravedevano solo alcune dita rigonfie, stava tranquillamente in piedi conversando con un altro signore avvolto in una coperta grigia. Quest’ultimo mostrava sulla faccia grottesca e deturpata gli inequivocabili segni della lebbra ormai secca; assenza di naso, labbra e orecchie.
Non c'erano giovani in mezzo a quella comunità dolente e comunque, dopo un rapido controllo portato a termine da Kitamba e dal gendarme che lo aveva seguito, risultò evidente che tutti quanti avevano le mani ben attaccate alle braccia. Anche l'ex lebbroso.
Entrarono dunque nel piccolo padiglione dei ricoverati ed una puzza quasi densa li avvolse all’istante. Era un odore acre e ributtante che rendeva penosa e breve la respirazione. Un aroma misto di vomiti, cancrene e diarree oramai talmente radicato nel profondo delle strutture, nei letti e nelle crepe delle pareti, che le normali pratiche di pulizia, rare e perlopiù superficiali, non riuscivano più a cancellare. In un posto così, se si considerava anche la carenza cronica di prodotti farmaceutici adeguati, di materiali di consumo usa e getta e di strumenti sterilizzati, e nonostante la buona volontà delle due infermiere, era più facile entrare sani ed uscire ammalati o morti che viceversa. Mentre si muoveva tra quei letti sudici cercando di respirare il meno possibile, a Giovanni tornò in mente una battuta che circolava tra i bianchi di Zaire: “Se ti ammali di malaria, prendi la Clorochina. Se ti ammali di qualcos’altro, prendi la Sabena ”. Ciò che vedeva davanti ai suoi occhi in quel momento, lo convinse che quella non era da considerarsi come una vera e propria battuta, ma piuttosto come un consiglio dettato dal buonsenso. Per un attimo fugace Giovanni provò ad immaginare se stesso disteso su uno di quei letti malconci, costretto a respirare quell'aria fetida per giorni e giorni ed il solo pensiero lo fece rabbrividire nonostante la temperatura dell’ambiente fosse già notevolmente calda per quell’ora di mattina. Considerando la situazione in cui versava la maggior parte degli ospedali e dei dispensari del paese, Giovanni comprese anche perché gli africani ricorressero alle cure ospedaliere solamente in casi molto gravi e dopo avere prima provato con cure tradizionali di ogni tipo.
Insieme ai due poliziotti controllarono in fretta e furia tutti i malati maschi e femmine e poi uscirono di nuovo all'aria aperta, dove poterono infine respirare a pieni polmoni per un po' di tempo senza parlare. Poi si diressero verso il laboratorio, dove le due suore infermiere stavano prelevando dei campioni di sangue da un bambino sudato e tremante per sottoporli all'analisi microscopica e cercare di individuare la presenza dei plasmodi, i parassiti della malaria.
L'attrezzatura del malridotto laboratorio consisteva in una centrifuga a manovella, alcune bacinelle d’acciaio per fare bollire e sterilizzare gli aghi, che venivano riutilizzati un’infinità di volte, fino a quando le incrostazioni li rendevano inservibili, alcuni fornelli a gas, un piccolo frigorifero a gasolio per conservare i medicinali ed i vaccini, qualche bottiglia di coloranti, un vecchio microscopio, una centrifuga a manovella e pochi altri materiali di uso corrente come pipette, provette e vetrini. Un armadio metallico senza ante conteneva disinfettanti, garze e cerotti per le cure superficiali e gli attrezzi chirurgici di primo intervento. Le due finestre erano provviste di una robusta grata antifurto e la porta di metallo rinforzato veniva chiusa la sera con un grosso lucchetto. Misure precauzionali minime necessarie per evitare spiacevoli sorprese, visto che la struttura si trovava all'esterno del più sicuro recinto della missione e le pur povere ed obsolete attrezzature rappresentavano sicuramente un ghiotto bottino per i numerosi ladruncoli che proliferavano a Kingwangala.
Gli uomini si avvicinarono alle suore che li salutarono distrattamente senza interrompere il loro lavoro.
- Che cosa vi porta da queste parti? – chiese suor Albertine, la più anziana, senza rivolgere la domanda a qualcuno in particolare.
Poi la religiosa alzò la testa, si accorse della camicia insanguinata del macellaio e si lasciò sfuggire un’esclamazione preoccupata.
- Buon Dio, siete ferito! Cosa vi é successo?
- Buon giorno, sorelle – risposero all'unisono Giovanni ed il sergente. Poi quest’ultimo, con un gesto istintivo, portò la mano destra alla tesa del cappello irrigidendosi nel saluto militare.
- No, non c'è nessun ferito - le tranquillizzò Kitamba. Con movimenti rapidi della mano si fece consegnare da Joseph il sacchetto blu.
- Stiamo cercando il proprietario di questa mano - aggiunse poi, mostrando il reperto alle due infermiere che, nonostante fossero senz’altro abituate a spettacoli poco piacevoli, ebbero un sussulto simultaneo ed esclamarono un Tata 'Nzambe in perfetta sintonia, un’espressione che equivaleva ad un “Dio onnipotente!”.
- A chi appartiene... apparteneva? - chiese suor Albertine, ritrovando subito la freddezza professionale e passando alla più giovane, suor Emeline, i vetrini su cui aveva spalmato il campione di sangue da esaminare più tardi per individuare la presenza di plasmodi o di altri parassiti.
- È appunto quello che stiamo cercando di scoprire, sorelle, - replicò il sergente - pensavamo che il ferito fosse passato di qua a farsi medicare.
- Oh no, Tata ‘Nzambe, nessun ferito grave è venuto questa mattina al dispensario. Non è vero Emeline?
- Si, almeno nessuno senza una mano - confermò la giovane sorella, una novizia dalla carnagione molto scura, con un bel viso rotondo ed un petto che l'informe camice non riusciva a far passare inosservato.
- Ma di certo quel poveretto avrà bisogno di cure - aggiunse con premura suor Albertine - cos'è capitato, un incidente? - domandò adesso con interesse.
Il sergente spiegò loro l'accaduto con un lungo e fiorito racconto in kikongo, mimando ad ampi e plateali gesti la scena del fattaccio. Joseph, che si era sensibilmente ripreso da quando aveva capito che molto probabilmente non sarebbe finito in galera, aggiungeva particolari e correggeva gli errori e le inesattezze che individuava nel racconto di Kitamba. Le due suore seguirono la colorita descrizione dei fatti sottolineando i passaggi salienti con esclamazioni di sorpresa o disapprovazione. I Tata 'Nzambe si sprecavano.
Giovanni pensò che in quel momento, mentre loro perdevano tempo in chiacchiere inutili, il ladro mutilato fosse già lontano, magari su un camion diretto a Panzi, nel tentativo di raggiungere l'ospedale di quel villaggio e farsi curare lontano dal luogo del misfatto per evitare di essere arrestato o linciato.
Quando il sergente ebbe terminato il suo racconto fece una pausa, si guardò intorno e poi si rivolse di nuovo alle suore.
- Lascerò qui una guardia, nel caso che il delinquente si faccia vedere al dispensario per farsi curare.
- Non credo che il ragazzo verrà a farsi curare se vedrà un poliziotto nei paraggi - disse suor Albertine - forse sarebbe meglio non sorvegliare il dispensario se vogliamo che venga a farsi ricucire il moncherino. Non crede sergente?
- Uhm, forse ha ragione lei, sorella - ammise Kitamba.
- In ogni caso – aggiunse poi con poca convinzione - fatemi sapere subito se qualcuno si fa vivo, e io vi manderò degli agenti per farlo arrestare.
Le due infermiere annuirono e suor Kisito si disse disposta a trattenerlo il tempo necessario per fare arrivare le guardie. Ma il sergente ed il volontario erano consapevoli che nel caso in cui lo sfortunato ladro si fosse presentato al dispensario le due suore non avrebbero di certo avvertito la polizia, sapendo bene a cosa sarebbe andato incontro quel disgraziato se l’avessero preso, e per loro la sola priorità era di provvedere alle medicazioni necessarie, come per qualunque altro paziente.
Il sergente sembrò soddisfatto del proprio operato e si girò per uscire dal laboratorio, poi si fermò di colpo e gettò un'occhiata pensierosa al sacchetto blu che ancora stringeva nella mano sinistra. Girò lo sguardo di lato e vide un secchio di plastica accostato alla parete con dentro materiale medico usato, garze sporche e batuffoli di cotone insanguinati. Tenne sospeso il sacchetto sopra il secchio per pochi istanti e, dopo averlo osservato con un ultimo sguardo accigliato, lo lasciò cadere dentro facendo decollare un ronzante nugolo di mosche fameliche.
- Tanto questa non serve più a nessuno - commentò con un’alzata di spalle a beneficio di chi gli stava intorno.
Riaccompagnarono i poliziotti alla gendarmeria dove Giovanni si aspettava che ci fosse qualche verbale da redigere e da firmare, ma si sbagliava. Secondo la logica del sergente, il ladro aveva già ricevuto la giusta punizione per i suoi misfatti. Per la polizia, e per il sollievo del macellaio e di suo fratello, il caso era chiuso.
Tutti annuirono vigorosamente in segno d’approvazione ed ognuno ritornò alle proprie occupazioni.

Due giorni più tardi Giovanni si trovava nel villaggio di Mafòlo, un agglomerato di poche capanne a circa trenta chilometri da Kingwangala, per incontrare uno dei gruppi di contadini che avevano aderito al programma di sviluppo e miglioramento agricolo che lui seguiva come volontario da quasi due anni. In quel villaggio avrebbe dovuto realizzare dei campi di coltivazioni dimostrative a bande alterne. Il sistema proposto ai contadini locali consisteva in filari di alberi a crescita rapida, specie leguminose capaci di fissare l’azoto atmosferico nel terreno, tra i quali coltivare cereali ed altre leguminose in alternanza.
Quel giorno dunque era previsto il primo sopralluogo nei campi di Mafòlo per scegliere le aree più adatte alla realizzazione delle parcelle sperimentali e di dimostrazione.
Appena arrestata la macchina nello spiazzo al centro del villaggio una banda di bambini mezzi nudi e vocianti la strinse d'assedio. La scena si ripeteva in ogni piccolo villaggio dove oramai la presenza periodica del volontario era diventata un piacevole diversivo alla monotona tranquillità delle giornate tutte uguali.
I primi tempi, i bambini si nascondevano alla sua vista tra le gambe delle mamme e dei nonni, perché non erano avvezzi agli automezzi e tanto meno alla presenza di bianchi. Molti si mettevano addirittura a strillare e piangevano scappando. Poi la curiosità, innata nei bambini come nei gatti, e la complicità di qualche caramella, fecero si che il mundele divenisse popolare in tutti i villaggi della zona che frequentava più assiduamente. Adesso lo chiamavano per nome, Giovanì, e si picchiavano tra loro per raggiungere la Land Rover per primi ed avere il ‘privilegio’ di aprirgli la portiera. Per toglierseli di torno Giovanni doveva sempre studiare qualche espediente che li distraesse e gli permettesse di aprirsi un varco in mezzo a quella massa urlante e festosa. In quell’occasione se la cavò mostrando alcune improbabili mosse di karatè, accompagnate dai debiti berci in un giapponese ancora più improbabile, che furono subito imitate da tutti i maschietti. Tra espressioni feroci e gesti scomposti, gli scugnizzi neri si sparpagliarono nel piazzale del villaggio rincorrendosi e picchiandosi per gioco ed emettendo urla sguaiate. Le mosse di karatè li facevano impazzire.
Finalmente dimenticato dai bambini Giovanni si ricompose e si avviò verso la capanna del capo villaggio, dove avrebbe dovuto incontrare gli anziani ed i pochi contadini interessati a lavorare con lui.
Mafòlo, come tutti i villaggi lontani dalle maggiori vie di comunicazione, era un tipico esempio di comunità rurale ancora integra nella sua struttura tradizionale e, quantunque povera, mostrava i segni del benessere interiore e della dignità di una popolazione che non era minimamente interessata ai cambiamenti ed alle metamorfosi culturali che l’incombente progresso avrebbe loro imposto. A parte pochi giovani che si erano fatti attrarre dalle lusinghe dei guadagni facili a Kingwangala, traffico clandestino di diamanti per i maschi e prostituzione per le femmine, la maggior parte della gente del villaggio continuava la propria vita come aveva sempre fatto da tempi immemorabili, seguendo gli insegnamenti degli anziani e le regole non scritte della convivenza tribale.
Il villaggio si trovava al centro di una secolare foresta protetta da un tabù popolare che impediva il taglio delle piante più grandi e gli incendi intenzionali, pena indicibili sventure che avrebbero colpito i trasgressori. La trovata del tabù funzionava bene, e la foresta si manteneva intatta pur fornendo legna secca e da costruzione a sufficienza. Il villaggio nel suo insieme offriva un esempio di come una comunità poteva vivere discretamente bene integrandosi perfettamente con l’ambiente. I campi coltivati a mano dalle donne erano ben tenuti e gli allevamenti di capre fornivano carne e latte in abbondanza. Le capanne erano ben costruite ed i tetti di paglia riparati periodicamente dagli uomini di casa. I cortili privati e gli spazi comuni erano sempre puliti, grazie anche al fatto che da quelle parti non si buttava via niente, e, in effetti, non é che ci fosse molto da buttare.
Davanti ad ogni capanna i prodotti stagionali dei campi erano stesi al sole su stuoie di fibre vegetali abilmente intrecciate. Verdi chenilles , rossi peperoncini e pomodori, bianchi tuberi sbucciati di manioca e gialle arachidi. Tutto questo caleidoscopio vegetale era guardato a vista dalle bambine che tenevano a distanza le fameliche ed onnipresenti capre e le svelte galline. Dietro ogni abitazione si trovavano i silos tradizionali, fatti di rami intrecciati intonacati con argilla rossa e sterco, che contenevano le scorte di granaglie. Quando i topi non erano troppo intraprendenti, queste riserve bastavano fino alla stagione di raccolta successiva.
Una vecchia rinsecchita raccolta in vesti variopinte stava seduta per terra con le gambe distese e la schiena appoggiata al tronco di un albero di avocado, delle cui fronde godeva la scura ombra, e filava il cotone con i gesti automatici ed esperti delle mani scheletriche, apparentemente estranea a tutto ciò che la circondava. Gli occhi della vecchia filatrice erano spalancati, ma le pupille sbiadite, rese inutili dalla cecità dei fiumi, fissavano vacuamente un punto indefinito che non potevano vedere. L’oncocercosi era una delle malattie più diffuse nella zona. Subdolamente trasmessa da una mosca, colpiva inesorabilmente buona parte della popolazione locale, senza distinzione tra uomini, donne, vecchi e bambini. Malattia doppiamente bastarda, perché le persone che ne erano affette non morivano, ma diventavano “solo” cieche, perdendo completamente la loro indipendenza e, non essendo più in grado di sbrigare la maggior parte delle attività produttive, diventavano così un peso per la famiglia e per la collettività. Inoltre, tutti quei ciechi avevano bisogno di qualcuno che li assistesse a tempo pieno, in genere un bambino della famiglia, il quale era costretto a dedicare diversi anni della propria vita a fare quasi esclusivamente da guida ed assistente alla persona menomata, perdendo così ogni speranza di realizzazione personale.
La vecchia seduta sotto l’albero si rendeva comunque utile filando il cotone e, come una nera parca sdentata, riannodava il filo bianco ogni volta che si spezzava e faceva ripartire il fuso con un movimento delle dita inaspettatamente lesto.
Di fronte alla capanna del capovillaggio, seduti in cerchio all'ombra di un grosso e frondoso albero del pane, lo stavano aspettando i giovani e meno giovani contadini insieme ad alcuni anziani membri della comunità. Questi ultimi erano abbigliati per l'occasione in maniera bizzarra ai suoi occhi di europeo progredito, ma ritenuta molto dignitosa da quelle parti; giacche di lana provenienti da chissà quale raccolta di beneficenza, indossate su maglioni o camicie pesanti. Al posto dei pantaloni i tradizionali futa variopinti avvolti intorno alla vita. Tutti gli anziani erano seduti sul tronco di un albero abbattuto che fungeva da panchina ed appoggiavano le mani nodose su bastoni intagliati di diverse forme e grandezze.
Ci furono lunghi giri di saluti e le immancabili strette di mano seguite da una rinfrescante bevuta di vino di palma, poi tutto il gruppo partì a piedi formando una lunga colonna che si snodava lungo i tortuosi sentieri che portavano ai campi. Si inoltrarono nella foresta protetta che circondava il villaggio ed il volontario si sorprese ad osservare la maestosità di certi alberi dalle altezze vertiginose e dai tronchi che alla base si allargavano in enormi coste a formare delle nicchie in cui molte persone avrebbero potuto nascondersi comodamente. Il sottobosco era fitto di arbusti e di rampicanti e fuori dal sentiero battuto sarebbe stato difficile avventurarsi. Era una giungla calda, umida e piena di suoni e melodie, acuti trilli e versi gutturali di animali misteriosi.
Giovanni provò una strana sensazione. Era come trovarsi nel luogo dove la vita di tutte le cose ebbe origine. Gli sembrava che tutte le creature appena venute al mondo stessero accordando i suoni peculiari che le avrebbero distinte le une dalle altre per le ere a venire. Suoni disordinati, come quelli di un'orchestra sinfonica negli attimi che precedono l'inizio di un concerto, prima che il direttore metta fine alla cacofonia degli accordi battendo con decisione la bacchetta sul leggio. Ma quell’orchestra non aveva direttore ed i suoni continuarono nel loro caos apparente.

Il verde, in tutte le sue sfumature, dominava la scena. In mezzo a tutta quella lussureggiante vegetazione si nascondevano anche diverse insidie. Prima fra tutte, quella rappresentata da serpenti velenosissimi, come il mamba verde, dotato di un istinto territoriale che lo spingeva ad attaccare qualsiasi intruso ed il cui veleno non offriva possibilità di scampo al malcapitato. Il letale serpente prediligeva le piante di banano che offrono l’ambiente cromatico ideale in cui mimetizzarsi. Inoltre, Giovanni sapeva per certo che in quella foresta vivevano anche alcuni esemplari di leopardo, che nei periodi di carenza di selvaggina attaccavano le capre al pascolo la mattina presto e scomparivano nel fitto del bosco con la preda tra le fauci, per rifugiarsi sui rami alti di qualche albero dove farla frollare al riparo da eventuali pericolosi concorrenti, come le iene, e mangiarsela poi con calma durante i giorni successivi.
Con questi ed altri pensieri in testa, Giovanni camminava sudando copiosamente dietro gli agili contadini che si muovevano in quell’ambiente a loro familiare con un’invidiabile andatura elastica ed apparentemente senza provare la minima fatica. Anche loro comunque sudavano, e dopo circa venti minuti di marcia il lungo serpentone si lasciava dietro una scia di odore umano che avrebbe tenuto alla larga i leopardi per diverso tempo. Dopo avere attraversato un piccolo torrente dalle acque limpide, uscirono finalmente dalla macchia fitta e si ritrovarono in un'ampia zona disboscata da poco ed illuminata dal sole, dove diverse donne chine sulle corte zappe stavano rincalzando le giovani piante di manioca. I loro movimenti erano accompagnati da una cantilena ripetitiva che aleggiava soffice e limpida sulla radura e si mischiava ai suoni che provenivano dalla foresta circostante.
Mentre si avvicinavano ad alcune di loro, che nel vederli arrivare si erano rialzate e sorridevano con le fronti grondanti ed i seni spavaldamente luccicanti di sudore sotto il sole impietoso, un urlo di terrore giunse dal bordo della foresta dalla parte opposta a quella da cui il gruppo di uomini era sbucato. Il canto delle donne cessò all'istante, i bianchi sorrisi su quelle facce sudate si tramutarono in espressioni di sorpresa e di paura ed i rumori della foresta svanirono assorbiti dal pesante silenzio che scese sui campi. Un secondo urlo, se possibile più terrorizzante del precedente, ruppe l'irrealtà di quell'attimo. Era il grido di una ragazzina spaventata a morte da qualcosa. Come se fosse un segnale che stavano aspettando, a quella seconda richiesta di aiuto tutti corsero veloci nella direzione da cui provenivano le grida. Alcuni uomini si misero ad urlare a loro volta nell'eventualità che si trattasse dell'incontro con un felino o con un bufalo, per spaventarlo e metterlo in fuga. Il terzo urlo che sentirono era incrinato dal pianto e lo udirono molto da vicino. Proveniva da una delle piccole capanne al bordo della radura che i contadini utilizzavano come rifugio provvisorio quando rimanevano anche di notte per sorvegliare i raccolti e proteggerli dalle scimmie. Era una costruzione più piccola e semplice delle normali capanne del villaggio, con le pareti d’erba secca tenuta insieme da avvolgenti strisce di flessibile corteccia di bambù. Quando il volontario arrivò davanti alla fragile costruzione le persone che lo avevano preceduto stavano tutte ammassate davanti all'entrata e gli impedivano di vedere cosa ci fosse all'interno. Poi lentamente si aprirono per lasciare passare una robusta contadina con un enorme seno ballonzolante che uscì dalla capanna accompagnando con atteggiamento protettivo una bambina scossa dai singhiozzi. La piccola non sembrava ferita, ma nel suo sguardo era rimasta la paura che né i sussurri rassicuranti della matrona né le lacrime copiose riuscivano a lavare via. Tutti parlavano freneticamente in kiyaka ed il giovane bianco non riusciva a capire un granché di quello che stava succedendo.
Allora tentò di passare tra i contadini per entrare nella capanna e vedere la causa del terrore che aveva letto negli occhi della ragazzina, ma uno degli uomini anziani lo fermò afferrandolo per un braccio con ferma gentilezza.
- Kwenda ve mundele - non andare, disse in kikongo.
Giovanni lo guardò sorpreso da quell'atteggiamento censorio e gli rivolse una domanda.
- Nani, na inzo ? - cosa c'è dentro la capanna.
- Mwana 'nkento memona muntu mosi, yandi mefwa ! - la ragazzina ha visto un cadavere, fu la risposta del vecchio.
Spinto da un inconscio impulso di macabra curiosità, Giovanni lo pregò di lasciarlo entrare ed infine riuscì ad infilarsi nella piccola costruzione, da cui giungeva alle sue orecchie il pianto sommesso di alcune donne. Quando i suoi occhi si furono adattati alla penombra dell’interno vide che due uomini stavano intorno ad una stuoia dove giaceva il corpo esanime di un ragazzo. Il cadavere fu sollevato dal suo giaciglio e a giudicare dalla rigidità delle membra doveva essere morto già da diverse ore, forse da un giorno o due. Quando lo posarono a terra alla luce del sole cocente, il corpo inerte del ragazzo rimase nella bizzarra posizione che aveva quando si era addormentato per l'ultima volta. Un ronzante stormo di mosche avvolgeva la misera figura. Grossi e luccicanti, gli onnipresenti insetti svolazzavano come impazziti, disturbati dal gesticolare inutile di chi tentava di allontanarle.
Il ragazzo aveva le gambe contratte ripiegate verso il corpo e la testa reclinata sulla spalla sinistra. Sul viso grigio spiccavano gli occhi spalancati dallo sguardo ormai secco, così opaco che pareva assorbire tutta la luce del sole, come un buco nero nell'immensità gelida dell'universo. Un brivido di freddo percorse la schiena del volontario, simile ad un’avvisaglia di attacco malarico. Il cadavere fu adagiato in mezzo alla piccola folla di contadini e Giovanni vide che era vestito con un paio di zozzi jeans di almeno due taglie più larghi ed una camicia a maniche corte, ai piedi una sola ciabattina infradito, di quelle importate dalla Cina e vendute in tutti mercati locali per pochi soldi. Teneva le braccia strette sul ventre smilzo, come chi è appena stato colpito da un pugno allo stomaco. Un'oscena enorme macchia marrone di sangue rappreso ricopriva parte della camicia e dei pantaloni. Giovanni pensò subito ad una ferita mortale al ventre, forse la cornata di un bufalo, oppure un colpo di machete. Poi vide che la mano destra stringeva l'avambraccio sinistro all'altezza del polso, ma al posto dell’altra mano spuntava un moncherino rozzamente avvolto in un ormai inutile straccio insanguinato.

© Massimo Burioni





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