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La quinta arborea e gli amanti della fontana
di Carlo Santulli
Pubblicato su PB18


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Non sarebbe stato completamente esatto limitarsi a dire che Aldo Bellini sapeva parlare. In realtà, oltre a colorire gli argomenti dei suoi discorsi, in modo che sembrassero diversi da quei due o tre soggetti specifici che era in grado di dominare, dava loro non solo dei fili per farli muovere come marionette, ma anche un'anima tradotta in almeno quattro lingue diverse, più il latino di Cicerone e quel linguaggio socioeconomico universale che le istituzioni finanziarie maneggiano tanto bene, e se vogliamo con tanta poesia, una poesia scontrosa, ma tangibile, onesta, o per meglio dire efficiente.
Quel giorno, alle dodici e ventisette, l'immagine della quinta arborea, metà teatrale, metà botanica, s'era affacciata a prender aria nel suo periodare "assorto e concettoso", come l'aveva vividamente definito il professor Golemi, umanista a tutto tondo e, come non bastasse, amministratore ed imprenditore. Si era affacciata, e l'oratore non l'aveva mollata più, quasi fosse il primo ed ultimo amore della sua vita. Era ispirato come non mai, e crescendo in lui il desiderio di abbracciare la sua felice immagine nell'ultima scena, la coccolò come il musicista di giovane talento blandisce e ripete la facile melodia, venuta fuori per caso più che per maestrìa tecnica. Decise estemporaneamente che quell'idea della quinta arborea dovesse chiudere il suo discorso, zeppo di riferimenti storici e letterari, dopo un'ultima stoccata ai nemici del progresso, che divenivano mostri, "per quella volontà, che solo creature demoniache ardiscono avere, di coartare, di comprimere il futuro, dandogli una direzione che non possiamo approvare". Poi respirò, e concluse: "E, come soltanto l'albero può offrire nella sua operosa vita la contemplazione dell'infinito, noi chiediamo alla natura, ancora una volta e sperabilmente per lunghissimi anni a venire, una soluzione al nostro problema pratico. Un fondale, un secondo cielo che rinchiuda le nostre ansie, il nostro desiderio di futuro, la nostra battaglia di civiltà".
Aldo Bellini si protese educatamente in avanti, come un tenore un po' timido, a raccogliere l'immancabile orazione, quasi si trattasse di un mazzo di violette.
E l'ovazione venne. Vi si mescolava il sollievo, perché la vicenda costruttiva della piazza principale di Cantòria si avviava, forse, a soluzione, e la speranza che le tante parole spese avrebbero fruttato altrettanti soldoni nelle casse del partito turchese, che era ciò che alla fin fine contava di più.
Poteva esser contento, e lo era. Un altro successo della sua oratoria classica, ma d'assalto… Si volgeva a raccogliere il meritato plauso dei colleghi, quando una scritta sul cellulare lo fece sobbalzare. "Polpettone di soia e noci". Oh, accidenti… Quel messaggio veniva dalla cucina di casa. Aldo era sempre stato, da buon meridionale, un cultore del polpettone, cioè in verità di tutto quanto, purché carnoso, sia macinabile ed emulsionabile, insomma riducibile in palline. Sua moglie Silvana, però, era vegana, un fatto che, oltre che ad aver portato scandalo nel partito, dove un moderato (o anche smoderato, se possibile) consumo di generi animali era considerato perfettamente logico, anzi doveroso, visto e considerato che il Fondatore possedeva buona parte delle industrie del settore. Lo scandalo era attenuato dal fatto che Silvana era incontestabilmente una bella donna, ed aveva uno sguardo magnetico. Magnetico e turchese, il che sembrava indicare una predestinazione a diventare la compagna di vita di un notabile del partito che a quel colore aveva dato una nuova vita. Un tale destino veniva soltanto messo in dubbio nel momento in cui si osservavano le abitudini alimentari della signora Bellini. In un partito nel quale mangiare (in tutti i sensi) era una religione, alimentarsi solo di frutta, verdura e legumi sembrava, oltre che insano, anche destabilizzante e probabilmente comunista.
Così, dato che tra Aldo e Silvana non si poté venire ad un ragionevole compromesso per quanto riguardava l’alimentazione, fu giocoforza che l’assessore Bellini, in una delle sue rare e partitiche visite al supermercato di proprietà della cognata del Fondatore, venisse a contatto coi succedanei. Non nel senso che li scoprisse lui per primo: di succedanei è pieno il mondo, tanto è vero che diventa difficile, oggi come oggi, individuare il prodotto che essi sarebbero chiamati a sostituire. Il Fondatore stesso aveva a suo tempo invaso, e continuava a farlo dal suo buen retiro, il Paese ed il Partito di succedanei umani. Ma quando Aldo capì che esisteva il pollo di funghi e la salsiccia vegetale, benché questo facesse venir meno duemila anni di cucina levantina, capitolò. Un aiuto sostanziale gli venne dato da Silvana, che gli fece capire, con estrema discrezione, che i succedanei, a letto...beh, ci siamo capiti. Così Aldo, benché perplesso, accettò l’accordo, a patto che ai compagni di partito non venisse svelata l’ignobile abdicazione: la cosa aveva peraltro dei vantaggi, anche a prescindere dal discorso del letto. Prendiamo per esempio le lasagne: dalle parti di Aldo, le lasagne vanno inframmezzate di polpettine, imprescindibili segni d’interpunzione tra i corposi discorsi costituiti dalle diverse sfoglie. Questo, a voler essere vegani, non era possibile, ed un tentativo silvaniano di lasagne vegane al pesto era stato bollato da Aldo come un affronto al buon gusto, alla patria ed alla civiltà. Invece, i succedanei...
Così, all’improvviso, il primo scatolo di polpette di soia oltrepassò la soglia del frigorifero. In realtà, quel che accadde, salendo la spesa dal pianoterra al terzo piano, fu che lo scatolo appassì: in tre piani perse un buon dieci per cento di peso. Aldo, che non riusciva a perdere la pancia nemmeno andando a piedi dal giornalaio, per un totale tra andata e ritorno di ben centoquaranta metri, con una media di quindici soste per salutare od ossequiare qualcuno, provò in fondo al cuore una certa invidia.
Il repentino dimagrimento dello scatolo non fu che il preludio ad una serie di inconvenienti che la consumazione dei succedanei dava ad Aldo: a parte un sonno invincibile ed una fiacca fenomenale, che secondo Silvana preesistevano, ed in ogni modo, sempre secondo Silvana, potevano anche essere motivo di fascino, c’era il senso di pieno. Era come si doveva sentire un serbatoio quando la pistola della pompa faceva “clic”, e dagli a spingere, benzina non ce ne stava di più. Il problema era che ad Aldo i succedanei avevano anche starato il galleggiante, per cui il pieno si svuotava presto, e il vuoto piangeva a calde lacrime: allora, la cucina era già ordinata e deserta, e gli avanzi nella pancia del gatto. Troppo dignitoso e di stretta osservanza turchese per cucinarsi qualcosa, Aldo soffriva in silenzio. Ben di peggio accadeva a letto: qui, lungi dal verificarsi le lusinghevoli circostanze ipotizzate da Silvana, la sapiente azione succedanea, unita all’effetto pieno-vuoto, produceva ben altri, e molto più rumorosi, eventi, all’instaurarsi dei quali Aldo veniva invitato a dileguarsi, cosa che egli non poteva d’altronde esimersi dal fare, pur avendo ad onor del vero provato a tenere la posizione, come un prode militare. Per questo, quando il suo vicino di posto in Consiglio Comunale, l’ineffabile Cometti, gli fece l’occhiolino, vedendo quella succulenta parola scritta in verde nel visore del cellulare, ad Aldo sfuggì un sorriso malinconico: se i colleghi di partito avessero saputo! Ma non sapevano, per fortuna. Quel che contava, allora, era che Cantòria finalmente avrebbe avuto una piazza come si deve, e Aldo pensò: “Vedrai Silvana come sarà contenta!”.
Invece Silvana non era contenta affatto: in realtà le cose andavano male da tempo tra i due. Sua moglie non era ambiziosa, cioè aveva superato da molto tempo quello stadio, ora voleva i soldi, e basta: “L’ambizione “ diceva “è roba da vecchi”. Il vero mestiere di Aldo, che fingeva di essere assessore (cioè era stato eletto, ma andava in Consiglio solo nelle pause tra un presunto polpettone ed una sedicente salsiccia) era costruttore.
Sapete i costruttori, no? Quelli tutti impegnati nelle loro varianti al Piano Regolatore: palazzo invece di giardino, stazione di servizio invece di giardino, strada invece di giardino, supermercato invece di giardino, chiesa invece di giardino, discarica invece di giardino. Ecco, adesso c’erano versioni più sofisticate di questa filosofia anni ’60, roba da via Gluck. Adesso si parlava di parcheggi di scambio, compensazione, lottizzazione marginale, blocco usouffici, ma ad Aldo brillavano ancora gli occhi a queste parole, come quando da bambino faceva i grattacieli di Manhattan con le Plastic City, le sorelle grosse dei Lego, quelle che davano più soddisfazione.
Dieci anni di governo turchese non avevano prodotto finora a Cantòria che strade e spiazzi, non una vera piazza moderna, perché per le imprese edili tutto quello che s’incontra ad angolo retto significa più soldi, si sposta la gru da qua a là e il gioco è fatto. Ma ora non c'era dubbio che la piazza di rappresentanza, dedicata, come nei voti di tutti, alla mamma del Fondatore, stesse nascendo. C'erano voluti anni di discussione, coi giornali dell'opposizione che avevano dapprima fatto la voce grossa, poi progressivamente sempre più piccola, date le loro declinanti fortune (e tirature); quando però il Fondatore aveva chiarito in un discorso immortale che la piazza si doveva fare, la volontà indomabile del Partito si mosse. Fu deciso allora per acclamazione l'esproprio di una collinetta abbastanza centrale, finora sfuggita alle attenzioni delle ruspe. L'idea segreta di molti, con Aldo in prima fila, era che, trovando il sotterfugio giusto, si sarebbe potuto lottizzare una buona metà della collina, sottraendola alla piazza, ma risuscitandola agli affari, resi ad altissimo valore aggiunto dall'incrollabile desiderio del Fondatore, proteso sulla piazza come un monito ed uno stimolo per i seguaci più tiepidi. E quell’idea della quinta arborea, poco spazio e molto guadagno, capitava proprio, come si dice, a fagiolo (altro succedaneo, peraltro).
Ma Silvana non aveva voglia di aspettare. Glielo disse alzandosi dal letto, dopo un momento d’alta densità erotica, che Aldo aveva concluso, per colpa di alcuni molli ossobuchi di miglio e farro, con una fuga igienica più ignominiosa del solito. Era difficile che una donne esigente come Silvana accettasse questi compromessi di bassa lega, specie dopo aver fatto una spesa eccessiva in biancheria intima, allo scopo di risollevare le sorti periclitanti del loro rapporto nell’unico posto dove sembravano poter avere qualcosa in comune. Non era per assistere a quegli spettacoli che l’aveva sposato. Inoltre, il conto in banca era praticamente asciutto, per quanto la riguardava. Così Silvana disse: “Se non cambia qualcosa subito, me ne vado!”. Lo disse e lo fece, ed il suo sguardo turchese svanì all’orizzonte.
Cosa doveva cambiare, era logico. La macchina, la pelliccia, il parrucchiere, la colf, oltre che il telefonino, le vacanze, i mobili di casa, e if anything else fails, il marito. Aldo sarebbe stato anche più accondiscendente, ma gli effetti dirompenti dei succedanei, dal polpettone alle salsicce, passando per gli ossobuchi e la fiorentina, furono tante gocce che fecero traboccare Silvana. Anche lo scandalo dilagò, e siccome nel partito turchese, beh, diciamo nel Partito, perché dai e dai, non é che ce ne fossero rimasti altri, non si tolleravano divorzi (adultèri sì, anzi erano fortemente raccomandati...), poche ore dopo che Silvana era andata dall’avvocato, Aldo fu convocato dal Fondatore al videotelefono d’urgenza, alla presenza del super partes, l’anziano del partito, il senatore Fiorentini.
Fiorentini era un vecchio malinconico, con una faccia lunga e sottile come una strisciolina di stagnola, per giunta anche dello stesso colore. Non era persona da preamboli, e nemmeno da post-fazioni: Fiorentini tendeva sempre al dunque, e il dunque gli veniva docilmente incontro; così anche quella volta.
“Quindi Silvana ti lascia!”
“Le notizie corrono, a quanto pare”
“Beh, lasciami dire che sono costernato. Cosa farai adesso?”
“Mah, figli non ne abbiamo, i beni sono separati, il divorzio sarà una formalità, a parte la richiesta di alimenti...”
“Sì, ma scusa, non penseresti opportuno...”
“Che cosa?”
“Voglio dire, tu sei ancora giovane, un po’ ingrassato negli ultimi tempi, ma credo che complessivamente avresti diritto ad un’amante...O no?”
Bell’immorale, quel Fiorentini: dava consigli, lui. Ma Aldo scosse la testa: “E dove la pesco una come Silvana? A parte la bellezza, è lo spirito che c’è in lei che non troverei in nessun’altra...” Voleva dire quella specie di smodato desiderio di potere che Silvana aveva nello sguardo e che era quanto di meno spirituale potesse darsi, ma che rimava col suo interesse. Poi, c’era l’aspetto del letto, ma su quello Aldo tacque, per non avere improvvidi ricordi.
Fiorentini venne alla questione che gli stava a cuore: “Sai bene, Aldo, che dopo la tua trovata della quinta arborea, che ci permette di creare, o meglio fingere, una specie di giardino nel rigoroso, e dico rigoroso, rispetto del piano regolatore, mentre possiamo fare i nostri comodi in una serie di aree limitrofe, sei sulla bocca di tutti, à la une de la presse, come si dice. Ed un membro del Partito che è sulla bocca di tutti non può divorziare dalla moglie se non ha un’amante giovane e disponibile. Ho qui esattamente alcune attrici della Cinimpest che farebbero al caso tuo, cioè nostro, per te si tratta solo di scegliere...”
Per qualche istante Aldo temette che Fiorentini tirasse fuori un catalogo; invece estrasse la sua rubrica turchese, e commentò: “Ci sarebbe anche il vantaggio che potremmo far rientrare il fatto specifico di divenire la tua amante nel discorso più generale di essere a contratto con la Cinimpest...”
Aldo ebbe un’espressione incerta, che Fiorentini si peritò di interpretare: “Non ti mando mica con donne di malaffare, sai?...A parte che non te la daranno davvero, non t’illudere, a meno che non impazziscano, e quelle, te lo dico io, non sono donne da fare follie. Basterà fare qualche foto, in punti strategici, qualche night club, ed annunziare il tuo fidanzamento con un’attrice di partito...”
“E Silvana? Se la prenderà a male, lo so...”
“Che vuoi che faccia Silvana? A parte che non crederà mai che tu stia con una Gioia Spavento o con una Chiara Framezzo, insomma con una di queste attrici che fanno gli scemeggiati a puntate... E poi è lei che ti ha lasciato... O no?”
“Ma potrebbe pentirsene, Silvana è una passionale...”
“Senti, Aldo, per dirtela tutta, io non ho mai capito come una gnocca come lei stesse con uno come te, ma pazienza, sono le cose della vita, non si smette mai di imparare e così via... Però adesso che vi siete lasciati, è meglio che tu la dimentichi. Anche perché lei lo ha già fatto”
E se Fiorentini lo diceva, doveva essere vero (o meglio: dovevano averglielo riferito).
Così, qualche giorno dopo, Aldo vestito in modo impeccabile attendeva l’arrivo di Chiara Framezzo davanti all’entrata del Gambero Zebrato, noto night frequentato da quelli che contavano a Cantòria.
Chiara aveva recitato in “Malìa di un sogno”, uno scemeggiato dove l’unico afflato di poesia era il titolo, per il resto era tutto un seguito di tradimenti, violenza e finto sesso da prima serata. Bellissima, una dea. Sembrava la copia di un’attrice spagnola, che ad Aldo aveva sempre fatto salire la pressione a livelli insostenibili per un ultra-quarantenne. Le mancava solo una caratteristica dell’altra, e vedendola da vicino l’assenza si notava particolarmente: l’allegria con cui la spagnola sembrava rivestire ogni cosa come una seconda pelle. Chiara era in abito da sera nero, vertiginosamente scollato, tesa, un po’ nervosa, sforzata, ed in ultima analisi ambiziosa, il che le dava un colorino verdastro da dea un po’ decentrata rispetto all’Empireo. Inoltre, non gliel’avrebbe data, era lì per lavoro, e forse anche perché gliel’aveva chiesto il Fondatore, e questo era abbastanza logico, perché non la si dà a comando... Ma dato che era lì, poteva almeno fingere di esser contenta: ad Aldo, dopo la recente batosta, sarebbe bastato.
Ci furono gli scatti previsti dei paparazzi, poi perse di vista Chiara Framezzo, che infilatasi un grosso soprabito con l’aria di dire “non penserete mica che vada davvero in giro così?”, disparve. L’avrebbe rivista, un po’ ritoccata, tra sette giorni in tutti i settimanali per il popolo bue.

Quella settimana trascorse rapida, tra progetti di nuove costruzioni sempre più alte: era riuscito ad avere il permesso per alzare due piani in più su tutta una strada di nuova urbanizzazione, col trucco della doppia mansarda terrazzata. Inoltre aveva fatto sparire una cascina in una notte, grazie ad un’efficientissima ditta consociata. Era la notte che passavano in TV il discorso del Fondatore, seguito da un lungamente atteso programma di puro intrattenimento, con vecchie e nuove celebrità, e le strade erano deserte, come devono essere dopo il tramonto in un paese ben organizzato e liberista.
Sette giorni dopo rivide anche Silvana, come Fiorentini non aveva previsto, e questo, dopo aver ricevuto uno schiaffo che accolse come una liberazione, gli fece in fondo piacere. Le parole che seguirono lo schiaffo erano quanto di più banale un’ex moglie potesse dire, quindi forse non vale la pena di riportarle. Dobbiamo soltanto menzionare il fatto che, citando un sapido reportage di uno di quei settimanali di alta cultura, Silvana osservò: “Quasi sembra tu ci sia andato a letto con quella lì: venti centimetri di più e vent’anni di meno...e naturalmente, immagino, non avrai avuto gli, ehm, problemini che avevi quando stavi con me”
“E’ perché sono tornato alla dieta mediterranea, amore”
Sapeva che dire amore a Silvana poteva scatenare due possibili reazioni: che gli si offrisse tipo una ninfomane, oppure che gli sbattesse la porta in faccia. Date le premesse, era chiaro quale delle due avrebbe prevalso, anche per la velata citazione dei succedanei, ma valeva la pena di correre il rischio: Silvana era pur sempre una bella donna, e sicuramente meno asettica e distaccata della protagonista di “Malia di un sogno”. Solo quando i cardini della porta smisero di oscillare vorticosamente, nel loro moto facendo atterrare dolcemente sul pavimento il poster dell’attrice spagnola, che come un ragazzino aveva attaccato in camera, Aldo si convinse che era proprio finita.

Finalmente arrivò l’inaugurazione della quinta arborea che, pur consentendo di creare una piazza con una passeggiata, avrebbe permesso di sbancare l’altro lato della collina ed infilarci, di sbieco, ma con molta eleganza e due palme al pianoterra, un paio di palazzine signorili ed un centro commerciale. Qui Aldo ritrovò la sua verve di sempre: c’era anche il professor Golemi che lo presentò come “il creatore e l’ispiratore d’ogni opera di pubblica utilità che permette alla nostra città di rifiorire, come nei voti del nostro Fondatore”, Fondatore il cui ritratto ombreggiava il palco degli oratori.
Serviva una partenza in sordina, vacillante, incerta, per poi prendere lentamente piede nel discorso, pian piano affabulando gli ascoltatori, inchiodandoli, legandoli alla sedia quasi fisicamente. Aldo si avvicinò quindi al microfono con molta degnazione e rispetto, come temendo lo strumento che l’avrebbe messo in contatto con la folla.
“Credo che voi vi aspettiate da me delle parole vibranti, forti, quasi esaltate su questa nuova opera che viene ad arricchire il già ricco carnet de travaux della nostra illuminata amministrazione... Invece sono qui con le mie dimesse parole, per dirvi che sì, credo in questo progetto, credo in questa nuova piazza che illumina tutta la nostra beneamata città, ma mi chiedo anche: l’amerete forse, ci passeggerete, vi soffermerete a pensare...”
Un mormorio sommesso corse per l’uditorio, e si sentì una voce di donna affermare decisa: “Pensare non serve...”.
“Il pensiero che sbianca la nostra mente, e le permette di assurgere alle più alte vette. Ecco, mi piacerebbe che questa piazza aiutasse a pensare...”
“Speriamo di no!” gridò la voce irata, che Aldo riconobbe, ed ebbe quasi un mancamento.
“Nelle vette dell’arte c’è sempre il pensiero...” disse un po’ affannosamente Aldo.
Fu allora che quella voce di donna venne allo scoperto: non priva di fascino ed elegante, aveva un tailleur turchese che ben si accordava coi suoi occhi. Aldo rimase basito: va bene che doveva essere tutta una recita, una sceneggiata interamente recitata da copione, il finto attacco della sconosciuta all’oratore, cosa che in epoca di consenso assoluto e totale avrebbe scosso gli animi o quel che ne restava, ma Fiorentini aveva esagerato. Perché scritturare Silvana? Con tutte le attrici che la Cinimpest manovrava, cioè stipendiava... A parte che Silvana, per il suo stato d’animo in quel momento, poteva anche averlo fatto gratis... Come da copione, il tailleur con gli occhi intonati disse: “Bando alle esitazioni, al pensiero, alle incertezze! Questa piazza è nostra, l’abbiamo voluta per lungo tempo, e sarà la nostra vita futura. E se l’oratore esita, noi invece possiamo appropriarcene subito, appena finito questo discorso, già troppo lungo!”
A quel segnale, Silvana salì quasi correndo sul palco, mentre tutti i notabili del partito turchese uscivano anch’essi allo scoperto dal Bar degli Specchi dove si erano acquattati, a ricevere l’ovazione che partì immediatamente: al primo placarsi dell’interminabile applauso Silvana, afferrato il microfono da Aldo attaccò l’inno del Partito e della nazione, “Nell’immancabile futuro”. Poi, mentre la piazza si scioglieva nel canto, non vista, con la sua mano prensile, lo pizzicò dove non avrebbe dovuto. Fuori copione. Tra gli spasmi del dolore, Aldo volse il suo sguardo in lontananza, verso la zona ancora verde che sarebbe stata sbancata in poche settimane, ed ebbe uno sguardo appannato di consolazione.

A casa, la stanchezza ed una certa sommessa vergogna prevalsero: l’attrice spagnola era sempre a terra, ed Aldo crollò sul divano.
Le ore che seguirono furono tempestose, anche se dal suo corpo semi-immobile non avreste potuto dirlo. Per quanto avesse il cervello imbavagliato, Aldo non era riuscito ancora a mettere alla striglia i sogni, e far dire loro quel che desiderava. Partì dalla constatazione, osservando il poster adagiato sul marmo del salotto, che l’attrice spagnola era riccia, riccia in un modo indicibile, come non si dovrebbe riuscire ad essere nemmeno per scherzo, mentre Chiara Framezzo, per dirne una, i ricci se li faceva stirare. E lui adorava i ricci... Si assopì sul divano rosa, scomodamente, perché quel maledetto divano l’aveva scelto Silvana per strani motivi legati al prestigio, alla storia, alla sua famiglia e non sapeva bene cos’altro. Pretendere di dormire su quell’affare panciuto come una caffettiera anteguerra era come stare in equilibrio su uno stuzzicadenti. Ma Aldo aveva sonno, e sognò, per via dei ricci, di fare l’amore. Non come faceva Silvana, che era cinematografica anche in questo, rotolarsi e rotolarsi e rotolarsi e graffiarsi e mordersi, tanto che alla fine non sapeva se fosse più il dolore od il piacere. E poi fare in fretta, che i negozi stavano per chiudere! Per lui, fare l’amore doveva essere come volare, volare in un giorno un po’ ventoso, per via del divano, ma sicuramente salire di quota. E fondersi dolcemente, ma non in un letto sfatto, invece in un prato, a conciarsi d’erba appena tagliata, a sentirne l’odore sotto le unghie. In quel prato sentiva una voce di ragazza chiamarlo, poi si figurò la scena, una scena lunghissima, eterna, come una carrellata interminabile. Lei era paffutella, riccia, aveva le guance arrossate, ma non si era truccata: era così, non aveva quel colorito candeggiato senza rimmel e mascara e piripì e piripò... Era anche accaldata, sì sudata, faceva caldo e sudava... “Sudava, capite?” pensava di dire, concionando la folla da un immaginario palco. Da lungo tempo, nessuno ammetteva più di sudare. Ed ovviamente c’era il suo corpo, la sua pelle liscia come seta, certo che c’era, però era naturale, spontaneo, nessuna finzione, nessuna messinscena. D’un tratto riaprì gli occhi, pentito che il sogno non continuasse, dato che era così promettente...
Ma il sogno non continuava, invece c’era la specchiera antichizzata, tutto quel sentore di ruggine che chiudeva il suo salotto in modo tanto borghese ed affettato. A lui quella corrosione elegante e fintamente storica dava il voltastomaco; se, per fare un esempio, Silvana si spogliava davanti alla specchiera, la maledetta non rifletteva una sola Silvana, ma mille Silvane, delle quali mille non ce n’era una, ma manco una, che fosse, nemmeno parzialmente, nuda. Glielo aveva anche detto a Silvana una volta, a letto, e lei gli aveva riso sgangheratamente in faccia, poi si era voltata dall’altra parte. “Se dormo guardandoti” gli aveva detto “mi manca l’aria”.
Era ben sveglio ora, anche se restava in equilibrio precario sul divano. Si ricordava una lezione di fisica: “L’equilibrio indifferente non si recupera più... non si recupera più...” Prima di cadere in terra accanto alla spagnola, ripescò dal fondo un nome: Sara. Il batuffoletto che si conciava con lui d’erba e di calore estivo si chiamava così. L’aveva vista una sera per la strada, quando ancora la strada serviva per camminare ognuno al proprio passo, e lei gli aveva detto, come se lo conoscesse da sempre: “Mi stavo chiedendo quante notti mancano prima che arrivi un domani...”. Una che ragionava così non poteva che essere unica: infatti non ce n’erano altre, come lei, e questo piaceva molto ad Aldo; già allora tutti avevano iniziato a somigliarsi. Poche ore dopo, si erano abbracciati sotto la luna, in uno dei pochi posti di Cantòria che non era ancora sorvegliato dal Partito, sul parapetto della fontana delle ninfee, davanti alla biblioteca. Qualche anno dopo, tutto era sparito, la fontana smontata per farci un parcheggio, la biblioteca gratuita del Comune, che tanto ormai solo le matte come Sara usavano (per gli altri c'era la TV e Internet), fu trasformata in una sala giochi.
‘Certo’ pensava Aldo ‘non ero proprio nessuno, allora’. Sara viveva da sola, studiava lingue strane all’università, faceva traduzioni che non sempre le pagavano, così spesso il frigo era talmente vuoto che pareva ci si fosse dimenticata accesa la luce, ma la testa di Sara era sempre piena d’idee.
Nei momenti più imprevisti, Aldo arrivava dal supermercato con quattro o cinque sacchi pieni di roba presa un po’ a casaccio, come fanno gli uomini correndo per le scansie, ma a Sara piaceva tutto, o forse lo diceva perché Aldo non si dispiacesse. Ogni sera avevano un momento tutto per loro, Sara non aveva nemmeno la televisione, “perché atrofizza il cervello” diceva (che idee!), e così ogni sera bisognava trovare qualcosa da fare, leggere, studiare, fare l’amore, cucinare torte complicate, visitare qualche amico. Spesso andavano a trovare una signora siciliana, che era vedova e viveva sola, con la scusa che aveva la TV, ma in realtà quella scatola nemmeno la guardavano, è che Carmela raccontava storie contorte che risalivano ad un tempo lontano, e loro si divertivano moltissimo, come i bambini con le favole, ma non osavano confessarselo.
“Chi fa carriera” rifletté Aldo “non può stare con una ragazza come Sara”. Infatti tutto finì, ma senza malinconie. “Finì perché era logico che finisse”. Qualche mese dopo, Aldo ricevette una cartolina da Sara, da qualche posto poco di moda e nemmeno turistico, che portava scritta una sola frase: “Spero che resteremo amici. S.”, ma poi, in basso, intercalata a matita tra le lettere del nome del fotografo, recava questa piccola richiesta: “N...o...n d...i...m...e...n...t...i...c...a...r...m...i”. Non aveva più rivisto Sara, ma quel sogno dimostrava che inconsciamente la sua richiesta era stata esaudita.
Afferrò il telefono, e compose, dopo dieci anni, il numero a memoria. Risentì quella voce nella segreteria, sempre la stessa voce da bambina, confusa coi suoi andirivieni tonali, spettinata se vogliamo, ma senza piripì e piripò. Non lasciò nessun messaggio, sapeva che si sarebbe rovinato la reputazione se l’avessero visto con lei, magari adesso i ricci le si erano ingrigiti... E poi quella mania di non truccarsi...
Rimase fermo, basito, per qualcosa come mezz’ora, in bilico sul divano, poi ricevette una chiamata al citofono: i lavori dello sbancamento della collina potevano iniziare, nottetempo, come nelle migliori tradizioni cittadine. “Sto arrivando” mormorò con voce atona.
L’equilibrio indifferente non si recupera più...

© Carlo Santulli





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