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Il manoscritto
di Paola Dallardi
Pubblicato su PBSE4


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La luce del sole non c’era. Il cielo nemmeno. La terra fertile aveva ceduto il posto al cemento grigio. L’acqua “viveva” rinchiusa nelle bottiglie di plastica, ma né la voce della pioggia, né il rumore del mare filtrava attraverso quei muri screpolati che trasudavano soltanto dolore e umidità.
Ivan, sdraiato ad occhi aperti sul lettino, lasciò vagare lo sguardo in quella stanza due metri per due. Scrutò con intensità ogni centimetro delle pareti che imprigionavano il suo corpo, ma non il suo spirito. Trovò, inaspettatamente, una piccola crepa che si allungava sottile e irregolare verso il soffitto. Non l’aveva notata, prima d’allora. Sembrava un lungo ramo spoglio che si protendeva coraggioso verso l’esterno. Verso l’aria libera.
S’immaginò di attraversarla. Di penetrare in quel piccolo spiraglio di vita diventando impalpabile e leggero. E ci riuscì. Allora, si sollevò come un palloncino e oltrepassò la stretta fessura. Arrivò, d’incanto, nel cielo terso d’agosto, e finalmente libero, volò oltre il carcere, oltre la recinzione, vagando sospeso in quell’aria surreale. Corse sopra la pianura e lungo la linea blu del mare, sopra i campi coltivati, i tetti delle cascine, e le strade asfaltate arrivando fino alla sua città. S’infilò agile e veloce tra le vie, e le percorse tutte, dalla periferia al centro. Incontrò i suoi amici, i negozi che aveva sempre frequentato, il bar dell’angolo con gli ombrelloni e i tavolini colorati disposti come tanti fiori sul prato. Alla fine, arrivò ansante davanti al portone della sua casa. Non osò aprirlo, anche se stringeva tra le mani il mazzo di chiavi come un naufrago si aggrappava alla terraferma. Lo guardò a lungo. Un desiderio lancinante e travolgente gli comandava di spalancarlo, di salire le scale tutte d’ un fiato, di entrare nel suo appartamento e tuffarsi nella sua vecchia vita. Quella che aveva perduto. Che non gli apparteneva più. Ma non lo fece. Rimase sospeso, nel suo sogno ad occhi aperti, senza riuscire a farlo. La mano gli tremava. Per l’emozione e per il desiderio. Avvertiva il freddo metallo delle chiavi come se fossero davvero lì, tra le sue mani, che gli bruciavano la pelle come tizzoni ardenti spronandolo a fare l’unica cosa che desiderava: riappropriarsi della sua esistenza. Del suo mondo che aveva dovuto lasciare chiuso in quelle stanze. E che senza di lui, era un mondo finito.
Ma non ne ebbe il coraggio. Non ne fu capace. Sarebbe stato troppo doloroso rivedersi tra quei libri, tra quei fogli sparsi un po’ ovunque. Come petali di rose caduti alla fine della bella stagione. Sarebbe stato come piantarsi una lama nel costato.
E quel dolore quasi tangibile gli ricordò, all’improvviso, di avere ancora un corpo che, risvegliato dalla mente e da quella sofferenza, lo risucchiò impietoso nel suo incubo quotidiano scaraventandolo nella realtà. Come se una grande mano, potente e spietata, gli avesse afferrato l’anima rigettandola nella sua carne ancora rinchiusa tra quelle pareti di sbarre e cemento.
Ma il suo respiro era libero. Così come la sua anima. Non aveva voluto perderla. Ecco perché lui si trovava chiuso lì dentro. Nessuno aveva potuto portargliela via, nemmeno Sergio.
Un sorriso amaro gli distorse le labbra e gli incupì lo sguardo al ricordo del suo amico e della loro amicizia.


Lui e Sergio erano nati nello stesso quartiere della medesima città, col mare all’orizzonte e la pianura alle spalle. A poche centinaia di metri l’uno dall’altro.
Le loro madri li avevano partoriti nello stesso giorno e nello stesso ospedale. E da quel momento i loro destini si erano saldati. Indissolubilmente.
Erano cresciuti insieme, ed insieme avevano frequentato le medesime scuole. Ma erano sempre stati profondamente diversi.
Ivan fremeva alla luce della luna, amava le ombre e la tranquillità. L’oscurità lo affascinava. S’inebriava del vento e delle tempeste. Si tuffava con i pensieri nelle nuvole grigie e cariche di pioggia. S’immergeva nella solitudine e si beava del silenzio. Adorava scrivere, isolandosi dal mondo, nella quiete della sua camera rivolta verso il mare.
Sergio, invece, vibrava di sole e di vitalità. S’ubriacava di spiagge, di mare, di belle ragazze flessuose e provocanti. Di vino, di “canne”, d’emozioni all’ennesima potenza. Di battiti accelerati, d’adrenalina pura. Sempre spinto oltre il limite. Sempre alla ricerca di forti sensazioni delle quali non sembrava mai sazio.
Ma come la calura del giorno sfumava lentamente nella notte fresca, così anche il loro rapporto riusciva a trovare il punto d’incontro. Il più delle volte senza irrompere nello spazio vitale reciproco. Cercando di comprendersi e di sopportare le rispettive mancanze e le inevitabili incrinature.
Arrivarono insieme alla licenza liceale e, sempre insieme, ne superarono le difficoltà. Poi, la scuola terminò. Per entrambi.
“E adesso cosa pensi di fare?” Sergio, la sigaretta accesa tra le labbra carnose, scrutò con aspettativa il viso affilato e pallido dell’amico.
Dopo aver letto i risultati positivi dei loro esami di maturità, si erano seduti sulla panchina del viale alberato del centro, e protetti dall’ombra di quelle piante secolari, avevano lanciato uno sguardo al loro futuro.
Il mare in lontananza disegnava una lunga linea blu sull’orizzonte. Sembrava dipinta dalla mano ferma di un pittore sapiente.
Ivan, gli occhi bassi, pensierosi, le sopracciglia aggrottate, perso nei suoi jeans di due taglie più grandi, si strinse nelle spalle. Con indifferenza. Quasi con rassegnazione.
“Che cosa vuoi che ti dica? Sarei voluto andare all’università, ma con quello che è capitato a mio padre, con quel dannato infarto che l’ha obbligato a chiudere momentaneamente il suo negozio, come posso fare? Tutti si aspettano che gli dia una mano…Almeno per qualche tempo…Intanto, però, continuerò a scrivere. Questo piacere nessuno me lo può togliere, stai certo.”.
“Già, è vero! Tu e le tue scartoffie…Non hai mai voluto farle leggere a nessuno, però…Chissà poi perché?” Sergio lo guardò per ricevere una risposta, ma Ivan rimase a capo chino fissando un punto indefinito delle sue scarpe da ginnastica.
“ Ma, scusa?” Sergio non si lasciò smontare dall’apparente indifferenza dell’amico, e continuò indefesso a seguire il filo travolgente dei propri pensieri.
“ Falle esaminare da qualcuno di competente! Non si sa mai che ti pubblichino qualcosa! Eddai, su! ” Sergio gli diede una manata affettuosa sulla spalla magra. Spronandolo a lanciarsi in quell’iniziativa che gli era balenata nella mente con la potenza e la velocità di un fulmine.
“Ma sei impazzito?! Sono cose che scrivo così, tanto per scrivere! Che butto giù in alcuni momenti…Non è nemmeno certo che siano scritte in italiano corretto!”.
Ivan si schernì con veemenza. Non avrebbe voluto iniziare quel discorso perché era geloso della sua intima passione per la scrittura. Ma si era lasciato sfuggire dalle labbra quella riflessione, ed ora gli toccava mettere un freno deciso all’impetuosità dell’amico che rischiava di travolgere la sua voluta omertà al riguardo.
“Sempre il solito modesto eh, Ivan? Ci scommetto che farebbero impallidire anche Hemingway! Non sarà che ti vergogni...?
“Che stronzo! Se ti assicuro che sono soltanto cavolate! Che in fondo non mi appartengono, Che nascono così, dal nulla. Dimmi che senso avrebbe cercare di pubblicarle?”. Ivan guardò l’amico. Gli occhiali scuri gli nascondevano lo sguardo esasperato, ma Sergio lo sentì ugualmente arrivargli addosso come una pugnalata. Allora cambiò discorso, e tutto finì lì. Conosceva fin troppo bene le chiusure di Ivan.
Ivan sospirò sollevato per la tregua apparente, anche se aveva esperienza della tenacia di Sergio, e sapeva che prima o poi sarebbe tornato all’attacco, come un cane famelico che non mollava la presa. L’amico era mosso da buoni sentimenti, ma a volte, quella sua intensa ed assoluta capacità di amare il prossimo si trasformava, nei suoi confronti,in invadenza irritante e fastidiosa.

Un suono penetrante e continuato.
Ivan stava ancora dormendo. Si risvegliò di soprassalto, e comprese che quel rumore che gli stava torturando il cervello e i timpani era il campanello del portone giù all’entrata. L’orologio appeso alla parete di fronte segnava le otto e trenta.
Ivan si alzò dal letto, fradicio di sudore, camminando come un automa fino al citofono. Non aveva mai sopportato il caldo umido e appiccicoso di luglio. Senza nemmeno chiedere chi fosse, spinse il pulsante di apertura del portone d’ingresso, e si ributtò stremato dall’afa sul letto ancora sfatto e intriso del calore del suo corpo.
Rimase in apatica attesa qualche minuto. I suoi risvegli erano sempre stati piuttosto lenti e faticosi: rientrare nel mondo reale, dopo essersi smarrito dolcemente nel limbo notturno, era sempre stato per lui uno sforzo indicibile.
Sentì distintamente la porta d’ingresso, che non chiudeva mai a chiave nemmeno quando era solo in casa, come in quei giorni, aprirsi per poi richiudersi con un tonfo che fece vibrare i vetri delle finestre. Poi, passi affrettati ed energici. Appartenevano a Sergio, non c’era dubbio alcuno.
Infatti, di lì a qualche istante , il suo miglior amico si stagliò nel riquadro della porta della sua camera. Sembrava eccitato. Anche più del solito.
“Datti una svegliata! Ho una gran notizia per te!”. Gli si avvicinò e lo scosse energicamente dal suo torpore mattutino.
“Ma che caspita hai da urlare e d’agitarti tanto, si può sapere? Tu e la tua solita fretta…!”
Ivan lo guardò contrariato scuotendo il capo, anche se il buon umore e la vitalità di Sergio stavano contagiando anche lui.
“Spara, dai…Che non ne vedi l’ora!” Concluse sorridendo.
Quindi, si alzò a fatica dal letto e si avvicinò alla finestra aperta. Guardò fuori e inspirò l’aria salmastra mista al profumo di ammorbidente dei panni stesi ad asciugare. Si passò le mani nei capelli arruffati. E si accese una sigaretta. Quindi, rinfrescato dalla dolce carezza del vento e finalmente del tutto sveglio, si voltò verso Sergio e gli fece cenno di proseguire.
“Ti ricordi l’altro giorno, no? Si parlava dei tuoi lavori scritti, di eventuali pubblicazioni…Ebbene: ne ho parlato con un amico di mio padre che fa l’editore e che abita qui, nella nostra città…Non ha famiglia, non ha legami. E’ uno di quelli che vive solo per il proprio lavoro… Gli ho detto che sei sempre stato un “secchione” in italiano. Che ti droghi con tutti i libri di letteratura che riesci a trovare, e che riempi fogli e fogli con la tua calligrafia armoniosa ed elegante, senza però aver mai avuto il coraggio di farli leggere a qualcuno…” Sergio fece una pausa ad effetto, poi proseguì.
“Così gli ho proposto di dare un’occhiata a quello che scrivi…Cosa ne pensi?”
Ivan ascoltò quella raffica di parole senza afferrarne in pieno il significato. Rimase interdetto per qualche istante, con la sigaretta che mandava volute di fumo stretta tra le dita. Come se avesse ricevuto uno schiaffo d’acqua gelida in pieno viso. Poi, quando capì cosa era accaduto, si riscosse e reagì con rabbia. Stavolta Sergio aveva oltrepassato il segno.
“Ma chi cazzo ti ha dato il permesso di farlo, scusa?! Ti ho forse detto che ero d’accordo? Che ero interessato?! Cazzo! Lo sapevo che non avresti mollato. Lo sapevo! Non sai mai qual è il tuo limite, questo è il guaio!“
Ivan si lasciò cadere sulla poltrona di fianco al letto afflosciandosi nel morbido pellame con lo sguardo accusatorio puntato verso l’amico. Sergio non si scompose per la sua sfuriata. Una nuvola, poi passava. N’era certo.
“Dai, Ivan! Non esagerare! Non ti ho mica proposto di andare a farti fucilare, scusa?! Ti ripeto che è un amico di famiglia, mal che vada ti riprendi i tuoi amati fogli e vai avanti a fare quello che volevi, o no?! Eppoi, scusa, mi va di darti una mano, va bene ?!”
“No! Per Dio! Non riuscirai a convincermi! Se avessi voluto farlo, l’avrei già fatto, ti sembra? Non voglio pubblicare niente! Quello che scrivo è niente! Viene dal niente e nel niente deve restare! Lo capisci, questo?!’”
No, Sergio non voleva capire. Sergio insisteva. Sergio spingeva. S’impuntava. Da lì non si sarebbe mosso fino a che Ivan non gli avesse consegnato almeno uno dei suoi manoscritti.
Allora, stremato, confuso, irritato da quella discussione senza fine, Ivan si avvicinò inquieto alla scrivania, aprì un cassetto, ne estrasse un blocco di fogli il cui titolo, “La mia estate”, spiccava in stampatello nel centro della prima pagina, e lo piazzò nelle mani di Sergio che sorrise. Trionfante. Vincitore indiscusso di uno dei “match” più combattuti e sofferti ai quali, da quando si conoscevano, avessero mai dato vita.
“Prenditi questo stramaledettissimo manoscritto e vai farti fottere!…Ma non voglio che tu dica che è un mio lavoro, siamo intesi? Dì all’editore che è roba tua. Che anche tu scrivi qualcosa ogni tanto, e che il tuo amico non ha voluto darti niente da far analizzare al suo “microscopio”, ok?!
“Ma scusa?! Sei scemo?! Cosa c’entro io con questa roba?! Sergio sventolò sotto gli occhi di Ivan il malloppo cartaceo.
“E se poi lo pubblicano, io che cazzo gli racconto, scusa?”
Ivan non gli rispose. Rimase beffardo e indifferente, con le mani intrecciate dietro il capo e la nuca appoggiata allo schienale fissando un punto indefinito del soffitto.
Dopo qualche minuto di silenzio imbarazzante, e visto l’ostinato mutismo di Ivan, Sergio prese la sua decisione. Insistendo ulteriormente, non ne avrebbe cavato un ragno dal buco in ogni caso. Ne era perfettamente consapevole.
“D’accordo, d’accordo” Continuò con un sospiro di paziente rassegnazione
” Facciamo come hai detto tu: gli dirò che è roba mia. Non credo ci sia nulla di male, in fondo… Se poi volesse pubblicarlo, ci metteremo d’accordo, ok? …Anch’io sono un po’ a corto di soldi, magari mi darai una percentuale, almeno per il mio impegno presente e futuro, se non per le mie effettive capacità…” Concluse con una risatina complice e una pacca energica sulla spalla magra di Ivan.
Poco dopo Sergio uscì dall’appartamento con il manoscritto sotto il braccio. Risoluto, determinato: aveva uno scopo ben preciso in mente. Non si sarebbe fatto fermare da nulla e da nessuno.
Ivan, invece, se la prese con se stesso: ogni volta cedeva e si arrendeva davanti alle insistenze di Sergio. Ogni volta, con la sua capacità di persuasione, riusciva ad incastrarlo per bene. Chissà che balle avrebbe raccontato al povero editore pur di arrivare dove desiderava! Prima però, avrebbe dovuto leggersi tutto il manoscritto per poter essere all’altezza della situazione grottesca nella quale voleva infilarsi. E questa, dopotutto, poteva essere la giusta punizione per la sua affettuosa, ma irritante prepotenza. Ivan sorrise sornione pensando all’inguaribile insofferenza di Sergio nei confronti della lettura…

Fu in quel momento che si ricordò del suo racconto. L’aveva scritto l’estate precedente. Non era esattamente autobiografico, però l’aveva iniziato e concluso subito dopo che la sua storia con Laura era terminata.
In quel periodo era di umore tetro, il cuore gli sanguinava in petto, e non sopportava nemmeno di esporsi alla luce del sole. Si era chiuso in casa per una settimana, e aveva iniziato a sfogare la sua frustrazione sui fogli. Riempiendoli con una trama intrecciata e sofferta, che non assomigliava alla storia che lui e Laura avevano vissuto, ma che era comunque nata da quel dolore. Scaturita da quel patimento profondo.
…Laura dagli occhi di brace… Laura dalla pelle di seta… Laura dal seno procace… Laura dal sorriso infantile…
L’aveva amata molto. Tra le ombre e la luna. Tra la sabbia e il sale. Ma quell’amore se n’era andato per sempre. Si era sciolto nelle onde perdendosi nelle profondità del mare. Così come una parte della sua vita.
“La mia estate” era rimasto nel cassetto della sua scrivania fino a quel momento. Non era ancora stato baciato dal calore del sole. Non aveva ancora respirato vento e salsedine. Nessuno, oltre lui, ne aveva ancora sfogliato le pagine. Gli era sembrato naturale lasciarlo lì, nel buio, protetto da quelle pareti di legno. E non l’aveva più riletto.
Ora invece, guardando il cassetto ancora aperto e vuoto, gli sembrò un grande mano defraudata della propria essenza che si protendeva tristemente nel nulla. E si rese conto che il suo manoscritto se n’era andato, nelle mani incaute e sprovvedute di Sergio, verso chissà quale destino.
“Ma chi se ne frega.” Pensò.”Tanto sono solo un mucchio di fogli scritti con sopra nulla. Con dentro nulla..."Cercando di convincersi con fredda razionalità.
E allora, perché si sentiva così male? Perché avvertiva un senso di distacco, di abbandono? Come se avesse perso qualcuno o qualcosa d’importante? Perché?
Quello strano malessere gli si diffuse per tutto il corpo. Tormentandogli la mente e lo spirito nei giorni e nelle notti che seguirono. Non riusciva a darsi pace. E tra un’altalena di sentimenti contrastanti e contradditori, continuava a pensare a quei fogli nelle mani di Sergio e dell’editore. A quei fogli che non erano più suoi. A quelle righe scritte con la sua calligrafia che erano “frugate” da occhi estranei. Infamate da sguardi inopportuni. Calpestate da una sgradita analisi tecnica.
Si sentiva come se gli avessero strappato dal petto un pezzo della sua anima. Era una sensazione strana. Sconvolgente. Era sempre stato convinto che ciò che scriveva non rappresentava nulla di sé. Ma che fosse soltanto la dimostrazione delle sue capacità, di ciò che aveva acquisito leggendo e studiando. Al più, una prova d’immaginazione.
Capì solo in quei drammatici momenti che non era così. Che anche quell’immaginazione, apparentemente lontana ed astratta alla quale voleva dare la responsabilità di quanto scaturiva dalla sua penna, era parte integrante del suo vissuto. Del suo modo di sentire. Del suo modo d’essere. E, poco alla volta, si rese conto di sentirsi come menomato. Gli sembrava di aver perso un figlio, negando la sua paternità al riguardo. Di averlo ripudiato.
Si diede del bastardo. Del mascalzone. E in quei pensieri rabbiosi e disperati, lentamente, ogni particolare al riguardo assunse dei contorni grotteschi e assurdi. Divenne gradualmente una cocente ossessione: se li vedeva davanti agli occhi, “quei due”. Ridevano, gli sfrontati! Scrutando, spiando, rubando la sua anima che trapelava leggera dalle righe del racconto. Da quelle parole accorate, sofferte. Se la spassavano leggendo il suo manoscritto. Lo violentavano. Violentavano il suo amore per Laura. Il suo tormento.
Un odio feroce gli pervase la mente. Gli alterò lo sguardo. Gli deformò i lineamenti delicati.
In qualche modo doveva farli smettere. Non sarebbe riuscito a sopportarlo oltre. Doveva arginare quel fiume in piena che rischiava di trascinarlo nelle sue acque devastatrici.
E fu nella voragine oscura di quella convinzione che Ivan maturò il suo castigo, la sua punizione nei loro confronti. Annullando nella sua mente ogni raziocinio, ogni pensiero critico al riguardo.
Compose allora il numero del cellulare di Sergio con gesti rabbiosi.
“Sergio? E il mio manoscritto?” La voce di Ivan arrivò all’amico, irriconoscibile. Dura, spietata.
“Sei tu, Ivan? Ma che cavolo di voce hai oggi?!” Sergio sembrava sconcertato, ma riprese la conversazione col suo solito buon umore.
“…Stavo giusto per chiamarti: ho letto il tuo racconto. (Certo che sei davvero un romantico, eh?)” Sghignazzò ironico.
“ …E’ già da qualche giorno che l’ho consegnato all’editore…Ha detto che mi farà sapere…”
Ivan interruppe la comunicazione. Sentiva freddo nelle ossa. Il sangue raggelato.
Era arrivato troppo tardi. Aveva sperato fino all’ultimo che né Sergio né l’editore avessero potuto leggerlo, invece “quei due” avevano già profanato la sua intimità, avevano fatto a pezzi la sua anima. L’avevano spiata, esaminata, analizzata. Sentiva di non appartenersi più. Come se la parte più nascosta e preziosa di sé fosse diventata di pubblica proprietà.
Non poteva permettere che “la catena” si allungasse. Che il suo manoscritto fosse letto da altre persone. Doveva intervenire. In qualche modo doveva interrompere la sua personale devastazione.
Fu a quel punto che prese la sua decisione. Definitiva. Inappellabile. Una folle tranquillità lo invase. E si sentì finalmente sollevato e confortato da quella spaventosa soluzione. Ricompose il numero di Sergio. Cercò di mantenersi calmo, rilassato. Come sempre.
“…Scusa per prima: è che sono un po’ nervoso ….Volevo chiederti: hai il numero di telefono dell’editore? Sai, ci ho ripensato: giunti a questo punto, forse è meglio che sia io a portare avanti la faccenda, che ne dici? Ti spiace?“ Sergio era d’accordo: a lui non interessava sfondare nel mondo letterario.
Ivan fremette d’eccitazione sentendosi già vincitore di quell’ infame partita giocata allo scuro degli altri due giocatori. La febbre malsana e deviante scaturita da quegli assurdi pensieri lo stava divorando. Esaltato e sconvolto, pregustava già la vittoria.


Erano le ventidue e quaranta.
Con gesti freddi e distaccati, Ivan si alzò dalla sua poltrona nella quale era rimasto in apatica attesa fino a quel momento. Si avvicinò al mobile in soggiorno, lo aprì, ed estrasse la calibro ventidue del padre. Controllò che fosse carica. Inserì la sicura. Poi, la infilò nella tasca dei pantaloni.
Uscì da casa intrufolandosi come un ladro in quella sera di luglio. Le stelle trionfavano serene nel cielo, e le strade stranamente silenziose e deserte lo accompagnavano sotto una luna che riposava tranquilla, chiusa nel suo globo di luce. La voce del mare era solo un timido sussurro lontano. Sembrava che tutto, anche lo sguardo del mondo, si fosse fermato ad osservarlo portare a termine il suo aberrante progetto.
Camminò veloce, protetto dalle ombre e pervaso da una bramosia crescente, verso la casa dell’editore. Gli aveva telefonato, dopo che si era sentito con Sergio, e avevano fissato un incontro per quella sera. Durante quel breve colloquio telefonico aveva saputo che l’editore aveva ultimato la lettura del suo manoscritto, e che, ignorando le inevitabili implicazioni che quell’affermazione gli avrebbe comportato, lo attendeva a casa sua alle ventitré per discuterne insieme.
Arrivò puntuale alla villetta dell’editore situata in un quartiere tranquillo e immerso nel verde. Suonò il campanello. L’editore aprì dall’interno il cancello di recinzione poi l’attese sulla porta di casa. Ivan percorse i pochi metri del vialetto d’accesso come sospeso in un’altra dimensione. Quasi galleggiando. Gli sembrava che tutti i suoi movimenti fossero rallentati, distorti. Le immagini sfuocate e alterate. I battiti del cuore, ad ogni pulsazione, gli sussurravano che di lì a poco sarebbe finita.
Il sorriso di circostanza dell’editore incrociò il suo sguardo agitato, stravolto. Le pupille dilatate come se fosse stato sotto l’effetto di una droga. L’uomo non ebbe nemmeno il tempo di sorprendersi. Di interrogarsi. Fu l’ultima cosa che vide. Prima dello sparo che gli squarciò il petto.
Ivan lo osservò stupito cadere al suolo. Senza un gemito né un lamento. Lordo del proprio sangue.
Sorrise beffardo guardando quel corpo accartocciato su se stesso: era morto, finalmente. E con la sua morte moriva anche la sua profanazione. Si guardò intorno: nessuno aveva visto la scena. Poteva andarsene impunito, e completare il suo folle disegno.
Si diresse come un automa ormai programmato al massacro, verso il viale alberato nel centro della città. La mente ottenebrata. Lo sguardo incupito dal rancore.
Sergio lo stava aspettando seduto sulla panchina. Dove tutto era iniziato. E dove tutto sarebbe finito.
Ivan lo aveva chiamato subito dopo il suo “incontro” con l’editore. E si erano dati appuntamento lì, come tante altre sere. Si avvicinò all’amico rallentando l’andatura. La pistola che ad ogni passo si appoggiava potente sulla sua coscia, gridava vendetta. Sergio gli voltava le spalle. Non lo aveva ancora notato.
Ivan si sentì onnipotente, pervaso da un gusto estremo e distorto di giustizia arbitraria. Di lì a qualche istante la sua anima sarebbe stata vendicata. Liberata per sempre dall’usurpatore. Non gli importava che quello fosse il suo migliore amico. Anzi, proprio per questa ragione, il torto subito gli sembrava ancora più grave. L’onta patita gli aveva soffocato il respiro fino a quel momento. Doveva liberarsi da quel peso che gli schiacciava l’esistenza. Doveva riappropriarsi della propria anima.
Due spari devastanti, ravvicinati, colpirono Sergio alla schiena. E ridiedero ad Ivan la sua anima perduta.


Ivan si riscosse dai ricordi brucianti, disteso ad occhi chiusi sul letto della sua cella.
Aveva già trascorso in carcere due anni e venti giorni da quella sera di sangue e vendetta. Ne doveva scontare ancora vent'otto: l’avevano condannato col rito abbreviato a trent’anni di reclusione, perché si era dichiarato, al momento dell’arresto, colpevole di quegli omicidi. Senza tremare. Senza combattere. Consapevole di dovere pagare per ciò che aveva commesso, ma senza voler mai confessare il vero movente del suo folle gesto.
Tuttavia, pur accettando il verdetto inflittogli, non passava giorno in cui non riandasse alla vita che aveva lasciato, fuori, nella sua città. Nel mondo esterno. Non passava ora in cui non pensasse a quelle due persone che aveva così brutalmente”eliminato”: scomodi testimoni di “quel qualcosa” che era soltanto suo per diritto divino. Ma, nonostante tutto, nonostante quel gesto estremo a causa del quale si trovava inchiodato tra quelle quattro mura, nessun rimpianto lacerava la sua coscienza: era stato necessario farlo. Per la sua salvezza. E per la salvezza della propria anima che, ora, gli pulsava nel petto completamente integra. Intoccabile.

Scrutò ancora quelle pareti e cercò, avidamente, la lunga fessura nel muro. Unico spiraglio verso l’aria aperta. L’aria libera.
Il suo spirito si sollevò leggero fino ad essa, e l’attraversò di nuovo, smanioso di ripercorrere tutto il “viaggio in sogno” di poco prima. Di rivedere, come se fossero state reali, la pianura, il mare, le strade, la sua città. La sua casa.
Ma non ascoltò più l’emozione intensa e dolorosa che gli attanagliò le viscere alla vista di quel portone tanto amato. Quella volta, lo spalancò con coraggio: una ventata di sentori perduti e d’immagini smarrite l’avvolse. Inebriandolo. Non si lasciò turbare. Salì i gradini a due a due, sospeso in un’altra dimensione, e raggiunse il secondo piano della palazzina. Spalancò l’uscio del suo appartamento. “Corse” nella sua camera. Nelle mani, il suo manoscritto. Non si guardò attorno. Ma puntò deciso verso la scrivania posta sotto la finestra rivolta al mare. Aprì il cassetto: sembrava ancora in attesa. Si sentì fremere, tremare di pura felicità.
Lentamente, lo ripose al suo interno. Lo guardò un’ultima volta. Sembrava dormisse in pace. Sfiorò le pagine, carezzandole. Teneramente.
Poi, richiuse il cassetto. Girò la chiavetta nella serratura, la tolse, e stringendola forte tra le mani, finalmente sereno, lasciò la sua casa.

© Paola Dallardi





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