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Sei Settembre 1997
di Mauro Daltin
Pubblicato su SITO


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Quella mattina Pietro si stava addormentando, rannicchiato sulla poltrona del salotto, ancora in pigiama nonostante l’ora.
Non era andato da Mario per i compiti, come succedeva ogni mattina in attesa dell’inizio della scuola perché, due giorni prima, si era svegliato con qualche linea di febbre, tosse e mal di gola ed era rimasto a casa.
Sua nonna Lucia era seduta sul divano.
Sua madre Sandra era in piedi, vicino alla porta, e stava stirando.
Nascose la testa sotto al plaid alla ricerca di quel calore, che sembra indispensabile quando si è ammalati. Si assopii per una buona mezz’ora.
“Pietro, svegliati. Devi andare a cambiarti. Non fare storie”. La voce di sua madre giunse da un altro mondo. Fece finta di dormire e di non aver sentito nulla. Andare a cambiarsi. Per andare dove? Dal dottore non ci sarebbe ritornato nemmeno morto. Cercò una risposta. L’unica cosa certa era che uscire da quella tana non gli andava proprio. Aveva raggiunto una temperatura ideale e i brividi di freddo si erano allontanati.
Il medico era stato chiaro riguardo alla sua malattia: completo riposo per alcuni giorni e due aspirine, una la mattina e una prima di andare a dormire. Lo aveva ascoltato bene e sua madre aveva annuito.
Sandra sembrò desistere, ma durò solo un attimo.
“Pietro ti ho lasciato i vestiti sul letto. Vai a cambiarti e poi torna qua. Non farmi alzare la voce”.
Il tono era di quelli che non lasciavano scampo.
Lui non riusciva a capire perché, se era a tutti gli effetti da considerare malato, dovesse rinunciare al sacrosanto diritto di stare sotto una coperta.
Sua madre prese il plaid, lo sfilò piano all’inizio e poi con uno strattone deciso. Pietro si ritrovò nudo, al freddo e alla luce. Una smorfia della faccia traduceva tutto il suo disgusto di fronte a quella sensazione di nudità e impotenza che lo invase. Si alzò. Non guardò né sua madre né sua nonna. Voleva che si sentissero in colpa, che capissero il loro sbaglio. Tossì forte. Cercò si smuovere il catarro nei polmoni e provocare più rumore possibile. Risultò uno sforzo inutile in quanto le due donne non sembravano prestare alcuna attenzione al loro figlio e nipote malato.
Salì piano le scale…quindici, sedici. Sospirò. Sedici gradini di marmo. Li contava sempre quando saliva. Ma non quando scendeva, quello non succedeva mai. Aveva rischiato di lasciarci un ginocchio più volte durante le spericolate discese. Diritto per i primi cinque, poi curva ad angolo retto per altri cinque e rettilineo finale con sei gradini che arrivavano a incrociare un corridoio con una tappeto persiano lungo e stretto. A volte cronometrava quei secondi di corsa folle. Una sera, un martedì sera, aveva bloccato il cronometro a tre secondi e sedici centesimi. Il record. Aveva segnato la data e il relativo primato sul calendario.
Le scale erano fiancheggiate da una ringhiera violacea che utilizzava per spingersi quando si apprestava ad affrontare la curva a gomito. Cadeva spesso, quasi mai con conseguenze importanti. Solo una domenica mattina di un anno prima, avevano dovuto cucirgli con due punti di sutura la guancia sinistra. Era stato tradito dalla ciabatta troppo scivolosa e dal tappeto che gli era sfuggito di colpo da sotto i piedi.
Da quella volta suo padre e Sandra gli proibirono di correre per le scale. Non che prima lo lasciassero scorazzare in libertà, ma non avevano fatto particolari storie. Qualche “Non correre” o “Guarda che un giorno o l’altro ti ammazzi” e finiva lì.
Da quella domenica, Pietro cercava di stabilire il nuovo record solo quando i suoi erano impegnati in qualche faccenda o quando si trovavano in giardino.
La salita al contrario la affrontava lentamente. Studiava gli appoggi, le angolature, i punti della ringhiera più vantaggiosi per la successiva discesa. Quel giorno, il sei settembre del 1997, non gli andava di preparare il nuovo record, era di cattivo umore, ed era costretto a vestirsi per andare chissà dove.
Arrivò al piano superiore, si soffiò il naso e aprì la porta della cameretta.
Sul letto, piegati perfettamente, vide appoggiati i vestiti: un paio di pantaloni neri, una camicia bianca, un paio di calzini neri e sottilissimi, una giacca blu scuro. Ai piedi del letto un paio di scarpe marrone scuro, lucide.
Si sfilò controvoglia il pigiama e rimase nudo, al freddo. Cominciò a tremare e gli scappò uno starnuto gigantesco.
“Datti anche una lavata” gridò sua madre dal fondo delle scale.
Andò in bagno, si sciacquò la faccia e le ascelle il più veloce possibile. Si riempì di deodorante e cominciò a vestirsi.
Sbirciò dalle tende.
C’era il sole.
Tanto sole.
Con una giornata così non ci si dovrebbe ammalare, pensò.
La vicina di casa stava ritirando la posta.
Finì di vestirsi e scese le scale piano, senza correre. Con quella roba addosso sembrava un damerino, non un ammalato come lui pretendeva di sembrare.
In salotto, sua madre aveva finito di stirare e si era seduta a fianco di sua nonna sul divano. Strizzò gli occhi.
Sandra era vestita in modo strano.
Aveva una gonna nera fino al ginocchio, una maglia girocollo, anche quella nera e una grossa collana d’oro al collo. Si era raccolta i capelli in una coda. La sua faccia era più spigolosa del solito, risaltavano gli zigomi e il mento. Gli occhi sembravano sospesi sul viso, come se fossero stati appiccicati in un momento successivo. Le occhiaie che di solito le circondavano gli occhi erano sparite e la fronte appariva liscia, senza increspature di preoccupazione e ansia. Era una gran bella donna. Era giovane, si vestiva bene, si sistemava perfettamente i capelli prima di uscire, anche solo per andare dal tabaccaio. Nemmeno a casa si lasciava andare. Pietro non l’aveva mai vista in tuta da ginnastica o con un vecchio maglione di lana.
Aveva preso tutto dal nonno di Pietro, o almeno così diceva sempre suo marito Giacomo.

Lucia aveva settantadue anni.
Era una donna di pochissime parole. Viveva nella casa adiacente, ma ogni giorno sostava per qualche ora nel loro salotto. Rispondeva male a sua figlia, con Giacomo non era mai andata d’accordo. Pietro, per lei, era come se non esistesse. Mai una carezza, un regalo, una mancia. Mai un gesto da nonna. Quando a Pietro capitava di fare degli incubi, lei era sempre la protagonista: l’autista di un camion che lo stava per investire, l’insegnante di matematica che alzava l’accetta sulla sua testa per decapitarlo dopo un brutto voto, il fantasma che da sotto il letto gli prendeva il braccio, lo stringeva e lo risucchiava nelle tenebre.
Adesso era seduta sul divano, con uno scialle blu scuro appoggiato sulle spalle. I capelli color oro erano ben pettinati all’indietro, aveva persino un lieve ombretto azzurro sugli occhi. Guardava la televisione. Il suo viso era buio, la pelle tirata, la fronte piena di rughe.
“Siediti, Pietro” disse Sandra.
Allora non usciamo. Allora rimango a casa. O forse prima di uscire vogliono vedere qualcosa in televisione, pensò. Cercò l’ipotesi più razionale.
Suonò il campanello. Sua madre si alzò e andò ad aprire.
Era Flavia, la loro vicina.
“Buongiorno signora Lucia, ciao Pietro” disse entrando in salotto.
Si accomodò nell’altra poltrona, quella di fronte a Pietro. Era un donnone alto e grosso. Aveva una voce da uomo e una palla di grasso sotto il mento che si muoveva ogni volta che apriva la bocca. Portava sempre vestiti molto larghi e colorati e si cotonava i capelli di rosso fuoco. Anche gli occhi erano grandi, come tutto il resto. Lei sapeva ogni segreto, conosceva i particolari più intimi delle famiglie che abitavano il quartiere, carpiva e ingigantiva ogni fatto con una naturalezza disarmante.
Eppure quel giorno, il sei settembre 1997, anche Flavia era scura in volto, vestita di nero, i capelli ordinati e meno rossi del solito. Si mise subito a fissare lo schermo senza fiatare.
L’orologio del videoregistratore segnava le undici in punto quando un commentatore della televisione cominciò a parlare. Venne inquadrata una massa di uomini e donne tristi.
Le tre donne non parlavano.
Le mani di Sandra e Lucia, sedute sul divano, si strinsero.
“Era una gran donna” sentenziò Lucia e le sue parole rimasero sospese nell’aria per molti secondi.
“Una vera signora” concordò Flavia.
Pietro aveva le palpebre pesanti, la testa gli girava come una giostra e un fastidioso prurito alla gola si trasformava in un forte bruciore quando deglutiva. Era arrabbiato con quelle tre donne. Non si curavano di lui, di lui che non stava bene, di lui che non era in grado di uscire di casa.
“Chi è quella donna?” chiese per ricordare a tutti la sua presenza.
Nessuna risposta.
Guardò sua madre, stava per chiederle di nuovo chi fosse quella donna, ma vide che le stavano scendendo lacrime bianche sulle guance.
Ascoltò con più attenzione le parole che uscivano dalla televisione. Parlavano di una principessa. Vedeva una donna che prendeva in braccio dei bambini neri, poi sorrideva a dei bambini biondi, poi andava a cavallo e alla fine con una buffa corona in testa si sposava in una chiesa gigantesca e piena di gente.
La madre si alzò di scatto.
“Il tè, quasi me ne dimenticavo”.
Scomparve in cucina per qualche minuto. Tornò con un vassoio d’argento. Sopra, ben ordinate, c’erano tre tazze fumanti. Al centro, una zuccheriera e alcuni biscotti. Appoggiò il vassoio sul tavolino e rimase come in attesa.
“Ma è un vassoio splendido” disse a voce alta Flavia, accarezzando con la mano il bordo dorato.
“Non l’ho mai visto prima” commentò Lucia e subito dopo si mise a fissare il soffitto. Tutti conoscevano il significato di quello sguardo in alto: qualcosa non le quadrava: un dubbio, un’insofferenza, un atteggiamento che non condivideva. Era come se dal soffitto, o da qualcuno sospeso in alto, aspettasse una conferma alle sue supposizioni. Una volta Pietro disse a sua madre che, secondo lui, la nonna riusciva a vedere il nonno che annuiva o scuoteva la testa, a seconda delle circostanze. La madre gli aveva accarezzato la testa.
“L’ho comprato ieri. Per l’occasione” disse fiera Sandra.
Ripiombò il silenzio.
Pietro non sapeva se poteva alzarsi, andare in cucina a bere un’aranciata o coprirsi o andare in camera. Non capiva perché sua madre lo costringeva a rimanere lì con loro a guardare la televisione. Ogni tanto lei gli lanciava delle occhiate che sembravano dire: “Non ti muovere”, “Stai attento a come ti comporti”. A volte la sua faccia era implorante, quasi rassegnata a una sicura mossa sbagliata del figlio che l’avrebbe fatta sfigurare davanti a tutti.
Passò lenta quasi un’ora.
Le tre donne rimasero quasi sempre in silenzio. Gli occhi fissi, qualche sospiro, pochissime parole.
In quel salotto, il sei settembre del 1997, si poteva respirare una strana fratellanza.
Pietro, invece, se ne stava da solo sulla poltrona, intorpidito.
“E’ Elton John” gridò ad un certo punto Flavia puntando il dito indice verso lo schermo.
Si era spostata sul divano subito dopo aver bevuto il tè. Era scivolata vicino alle altre due donne, senza che nessuno se ne accorgesse o sottolineasse la cosa. Ora erano abbracciate. Flavia, Sandra, Lucia.
Alle dodici e trenta il commentatore annunciava la fine del collegamento. Disse che il corpo della principessa, avvolto in un elegante abito da sera, sarebbe stato sepolto in un luogo inaccessibile, in un’isoletta irraggiungibile, una sorta di castello incantato.
“Come la bella addormentata” disse Sandra annuendo con forza.
“Come in una favola” disse Flavia.
“Così potrà starsene un po’ tranquilla, lontana da tutto e tutti” sentenziò Lucia.
Rimasero ferme tutte e tre per alcuni minuti.
Pietro tremava dal freddo. Si toccava le ghiandole che si erano ingrossate come palle. Aveva gli occhi lucidi che lacrimavano. Era intontito, la febbre era senz’altro salita.
Lucia e Flavia si alzarono. Erano ancora visibilmente scosse, le loro espressioni contrite e i movimenti impacciati. Se ne andarono e Pietro rimase in piedi in mezzo al salotto, vestito di tutto punto, ammalato e preoccupato. Quando sua madre ritornò disse: “Adesso puoi andare a cambiarti”.
“Non usciamo?” chiese lui, insospettito.
“No”.
Salì le scale lento. Ogni scalino rappresentava un momento di sofferenza. Le gambe erano pesanti, le ossa gli facevano male e la testa continuava a girare così forte da costringerlo a fermarsi più volte e appoggiarsi alla ringhiera per non finire a terra. Però era felice di non dover uscire, felice di sapere che fra pochi minuti si poteva rituffare di nuovo nella poltrona, sotto il plaid, con la testa immersa in un grande cuscino. E con i cartoni animati in sottofondo.
Si levò i vestiti da festa e indossò una tuta da ginnastica e dei grossi calzini di spugna ai piedi. Guardò fuori e vide Flavia e sua nonna parlare di fronte al cancello.
Pietro fissò il sole per un decimo di secondo. Poi gli occhi cominciarono a bruciare.
Prese l’orologio e si avvicinò alle scale. Sull’orlo del primo gradino azzerò il cronometro, si riempì i polmoni d’aria e si catapultò come un dannato giù per le scale.
Fermò il cronometro a tre secondi e novantasette. Un buon tempo per un malato, pensò. Si infilò, con il respiro affannato, sotto la coperta.
Dormì due ore di fila.
Quando si risvegliò, salì in camera, prese una penna, distese il calendario sulla scrivania e, accanto al sei settembre del 1997, segnò con la biro rossa i tre secondi e novantasette dell’ultima discesa.
A fianco, tra due parentesi, segnò la temperatura del suo corpo: trentotto gradi.

© Mauro Daltin





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