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Smoke - Rosso di Serbia
di Peter Patti
Pubblicato su PB8


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«Fermo!» urlai.
Una fitta nube di uccelli oscurò per un attimo l'azzurro sporco sopra Schifanoja. Mentre zigzagavo nella calca, notai che non si trattava di comuni volatili, ma di cam-birds. Uno di essi, attratto dall'azione che stava svolgendosi nella fetida stradina, si distaccò dallo stormo, planò sugli edifici fatiscenti e andò a piantarsi su un muro.
Decisi di continuare l'inseguimento. «Fermo!» intimai per l'ennesima volta, con il revolver sempre sguainato. Il mio urlo si aprì la strada tra la folla come un razzo tracciante.
Il rastafariano aveva gambe lunghe. Saltava come una cavalletta, ma io non mollavo, anche se era difficile stargli alle calcagna facendo la gimkana in mezzo ai corpi che intasavano la strettoia tra due file di bancarelle. Dopo un'altra trentina di metri, il ragazzo risolse che gli conveniva arrendersi. Si immobilizzò, sollevando le mani. Lo spinsi contro un muro, vicino a un banchetto di pesce e uno di stracci vecchi e, premendogli sulla schiena la mia calibro 45, cominciai a perquisirlo. Intanto l'uccello-spia era venuto a piazzarsi su di noi, tra una grondaia a pezzi e alcune persiane sbiadite; il suo unico occhio riprendeva la scena per trasmetterla alla centrale di polizia attraverso l'antenna camuffata da coda.
«E questa cos'è?» dissi, tirando fuori diverse bustine da una tasca del giubotto del rastafariano. Una bustina conteneva dell'XTS. «Merda», commentai, gettandola nel tombino. Il resto lo intascai.
Alcuni laidi figuri si fecero più vicini. Bestie della giungla, come in un dipinto di Rousseau il Doganiere. Allucinante. Tre o quattro di essi si inginocchiarono sul buco fognario che aveva inghiottito l'XTS e io, agitando la colt, ordinai loro: «Lasciate stare quella roba». Poi mi girai verso il cam-bird e sollevai il distintivo dell'ESP. L'obiettivo dell'uccello-spia (ma lì, abbarbicato con i suoi lunghi artigli a quel muro sbilenco, più che a un uccello faceva pensare a un ragno) registrò i miei dati. Dopo un minuto che sembrò interminabile, il cam-bird riprese il volo.
A quel punto mi rilassai. Dissi al rastafariano: «Tu puoi andare».
«Come? Niente manette?» chiese lui, disorientato.
Si era girato con prudente lentezza e diede un bel sobbalzo quando mi tolsi gli occhialini scuri. Evidentemente non si era aspettato di trovarsi di fronte un tipo con un occhio blu e l'altro - quello sinistro - verde smorto. Quest'ultimo era naturalmente un implantat. Sfiorando il regolo che avevo alla tempia, accesi la cybercamera dell' "occhio magico". La faccia del rastafariano fu fotografata e trasmessa al chip innestato nella mia nuca. La banca dati conteneva l'identikit e/o le foto segnaletiche dei soggetti più pericolosi in circolazione; come mi ero aspettato, il giamaicano - o presunto tale - non era compreso in quella parata di brutti ceffi. Aveva proprio l'aspetto di un bravo ragazzo. Bravo ma sfortunato. Per maggiore sicurezza, volli comunque scannare le sue impronte digitali. Afferratagli una mano, la tenni davanti al mio volto. Chiusi l'occhio, mentre sotto la palpebra mi scorrevano le informazioni che lo riguardavano. Una succinta lettura della cartelletta mi confermò che avevo preso un pesce piccolo: era uno junkie di poco conto.
«Puoi andare», ribadii, rimettendomi gli occhialini. E, poiché lui esitava, aggiunsi: «Arrestarti? Una nullità come te? No, amigo. Oggi è la tua giornata fortunata. Mi sei simpatico. Perciò: smamma».
Non se lo fece ripetere due volte. Spingendo un paio di spettatori come fossero birilli, svanì nella bolgia.
Rimisi il mortaio nella fondina e mi aprii il passo tra i numerosi perdigiorno, incamminandomi nella direzione opposta alla sua. Svoltato il primo angolo, mi fermai per esaminare il bottino: alcuni tranquillizer, kurayamina, ghiaccio (metanfetamina allo stato puro), il famigerato crack, un po' di coca, cranck e una decina di grammi di afgano. Annusai quest'ultima sostanza: era genuina. Dopo essermi accertato che non ci fosse nessun cam-bird nei paraggi, mi confezionai un joint.
Aaah. Aspirando avide boccate, mi indirizzai al mio ufficio percorrendo piano le strade della Old City, quelle meno affollate - e un po' meno luride - che si snodavano intorno alla casba.
Chi vive o ha vissuto a Schifanoja non può stupirsi più di nulla. Schifanoja offre emozioni a iosa. Qui le avventure ti vengono letteralmente incontro, mentre in metropoli come New York o RomAmor bisogna spesso andarsele a cercare. Schifanoja è la mia città e non l'ho mai ripudiata. Certo però che questa immondizia... Immondizia dappertutto: dentro e fuori i cassonetti. Davvero deprecabile.
Tutte le volte che mi soffermo a riflettere su Schifanoja, mi chiedo che cosa possa spingere la gente ad abitarci. E che cosa abbia spinto me a farvi ritorno, dopo dieci anni di felice vagabondaggio per il mondo. Forse ha a che fare con il clima. O con qualche elemento chimico presente nell'aria. È possibile diventare smog-dipendenti? Devo ricordarmi di chiederlo a Gippì...
Superata la statua raffigurante Mister Bellino, il re dei media, che reggeva in una mano un'antenna satellitare (quel monumento era il landmark della città; ormai degenerato a orinatoio pubblico), arrivai all'entrata accanto a cui era infissa la targhetta:

Minardi & Bellotta - Agenzia Investigativa.

Per me l'attività di detective privato è una copertura di comodo. È anche la mia principale fonte di guadagni. Ma il mio motore non è (o non solo) il vile Mammone. Già: in un mondo che pullula di disoccupati, io mi ritrovo a svolgere un doppio lavoro. Tengo molto alla mia appartenenza all'ESP, la polizia europea. In virtù di tale impiego ho sempre carta bianca; sono, insomma, quel che può definirsi un agente "con licenza di respirare".
Salii al primo piano. G.P. Bellotta, il mio socio, si occupa dell'amministrazione, dei vagoni di scartoffie, delle lunghe e spesso tediose ricerche d'archivio.
Lui sta sempre in ufficio: per forza di cose. Ha il corpo di un granchio. Un difetto di nascita. I piedi e le mani di Gippì sono direttamente attaccati al tronco. È un "figlio della diossina". Riesce a muoversi solo grazie a una complicata protesi esoscheletrica. Tuttavia, possiede il fascino e l'affabilità di un Lord inglese.
Entrato, lo trovai impegnato in una conversazione con una nuova cliente.
«Hallo», salutai.
La ragazza si volse a guardarmi con palese interesse. Era esile, di statura modesta, ma con le curve al posto giusto. Un'avvenente bambolina.
Gippì mi introdusse: «Smoke. Ehm... Prospero Minardi, il mio socio. E questa è...»
«Falloppia», si presentò lei. E, con un sorriso: «Jo Ann».
Non aveva smesso un solo istante di osservarmi.
Con la mia consueta flemma, andai ad appoggiarmi sulla scrivania. Così almeno evitavo che le venisse un torcicollo. G.P. Bellotta era visibilmente agitato. In presenza di una pupa come quella, anche un Lord può accusare forti emozioni. Lui poi ha un cuore veramente frenetico - un caso per i cardiologhi.
«Si tratta di questo», cominciò a dirmi. «La signorina qui lavora al Campo Sociale...»
«Faccio volontariato», specificò la "signorina". «Ho una laurea in sociologia», ci tenne ad aggiungere, come se ciò spiegasse ogni cosa; o come se volesse togliermi eventuali dubbi sul livello del suo Q.I.
«Negli ultimi tre giorni la signorina ha notato l'assenza di uno degli ospiti del Campo...»
«Un serbo», puntualizzò lei. «Drago Blasevic.»
«Eravate amici?» domandai.
La piccola annuì. «Drago aveva idee un po' pericolose, ma era... è... molto simpatico.»
«Idee pericolose? In che senso?»
«Poi ti racconto», interferì Gippì. E, rivolto alla ragazza: «Firmi qua».
Mentre lei si chinava sul foglio, mi toccai la tempia regolando l'implantat ottico sulla funzione 'raggi X'. L'apparenza non ingannava: sotto i vestiti, Jo Ann Falloppia vantava una figura mozzafiato.
Raddrizzandosi sul busto, tornò a guardarmi. «Allora, a presto», mi lanciò contro, con aria soave e insolente insieme.
«See you», le promisi.



«Tatuaggi?» chiese il commissario, burbero.
«Nessuno.»
«Orecchini? Piercing?»
«Niente.»
«Cicatrici?»
«Macchè», disse il Prof. «Pulita come il culetto di un bambino.»
Delusione, quasi rabbia, si disegnò sul volto del commissario. Era un omone dalla testa di ferro e le spalle larghe quanto un armadio. In quell'occasione appariva quasi ridicolo, inguainato com'era nel camice di taglia troppo piccola che gli avevano consegnato all'ingresso dell'obitorio.
Emise un lungo: «Mmm». Negli ultimi tempi non si erano registrate molte denunce su persone scomparse. Dunque il ritrovamento di quei due anonimi cadaveri - una ragazza e un giovanotto - prometteva di diventare una seccatura colossale.
Lui e il Prof si girarono verso il secondo morto ammazzato. Il Prof - era docente di Medicina Legale - sollevò un lembo del lenzuolo. Immediatamente la sua espressione si rallegrò.
«Allora?» grugnì il commissario.
«Bingo.»
«Prego?»
«Una Stalingrado.»
«Una che?»
«Tatuaggi sull'avambraccio, sulla coscia sinistra, sulle natiche. Orecchino da pirata, spilli vari. Ha segni praticamente dappertutto. Una devastazione.»
Il commissario si sporse per guardare anche lui. «Infatti», constatò, parzialmente rappacificato. Indicò la scritta che la vittima aveva impressa sull'avambraccio sinistro:

Ljudskih prava

e chiese, si chiese: «Chissà in che lingua è».
«Una lingua slava, direi.»
Le due parole spiccavano ai lati della spada - o pugnale che fosse - che ornava il bicipite del Senzanome.
«Potrebbe essere un nomade?» illazionò il commissario. «E», aggiunse, «c'è un nesso tra i due omicidi?» Infine, strofinandosi le mani come un Pilato, decise: «Mbeh, comunque, visto che è straniero, il caso è di competenza dell'Interpol. Se la sbrighino loro».
Alcuni minuti dopo informava il procuratore capo, il quale a sua volta, via telefono, mise al corrente un dirigente dell'Interpol di Milano. Questi chiamò la sede dell'ESP di New Frankfurt. E là, vagliati i pochi dati a disposizione, si stabilì di affidare le indagini a "il nostro agente a Schifanoja".



Il messaggio mi raggiunse mentre Jo Ann Falloppia, dopo aver firmato il nostro contratto standard e aver consegnato a Gippì un assegno per tre giorni, era in procinto di congedarsi. Azionato il lettore, mi vidi comparire sotto la palpebra questo wavefax, pieno di segni all'apparenza incomprensibili:

___‚___ƒ___„___…___†___‡___ˆ___‰___Š___‹___Œ________˜___™___š___›___œ______ž___Ÿ___ ___¡___¢___£___¤___¥___¦___§___¨___©___ª___«___¬___­___®___¯___°___±___²___³___´___µ___¶___·___¸___¹___º___»___¼___½___¾___¿___À___Á___Â___Ã___Ä___Å___Æ___Ç___È___É___Ê___Ë___Ì___Í___Î___Ï___Ð___Ñ___Ò___Ó___Ô___Õ___Ö___×___Ø___æ___ç___è___é___ê___ë______ï___ð___ñ___ò___ó___ô___õ___ö___÷___ø___ü___þÿÿÿþÿÿÿýÿÿÿý___þ___ÿ_______.........


Una toccatina al regolo ed ecco già pronto il decifratore. La comunicazione di servizio mi ordinava di far luce su due omicidi. Uno dei morti era quasi sicuramente serbo-croato. Forse un profugo o un Illeg. Seguivano scarsi particolari.
Jo Ann stava già per varcare la soglia quando io la fermai. «Un momento. Quel suo amico...»
«Sì?»
«Ha un orecchino?» Fu per delicatezza che parlai al presente: «ha», non «aveva».
«Sì...»
«E un tatuaggio all'avambraccio?»
La ragazza parve annegare in una paura liquida. «Perché? Lo hanno trovato?»
«Me lo descriva.»
Lo fece, in preda a un'ansia crescente. Il tatuaggio - affermò - consisteva in una spada e in una scritta a caratteri di fuoco.
Annuii: la descrizione corrispondeva.
«Lo hanno trovato?» insisté.
«Venga con me», tagliai corto. E mi recai con lei all'obitorio.



Solitamente affronto il traffico cittadino a cavallo della mia fida Vespa, ma Jo Ann era troppo nervosa e non me la sentivo di averla sul sellino in quello stato: rischiavo di perderla per strada. Per questo, e anche perché non c'erano tassì in vista, andammo a piedi.
Erano le tre del pomeriggio e la circolazione era perlomeno caotica. Non soltanto al Livello Zero: anche sulle rotostrade che si avvolgevano a spirale intorno ai grattacieli scorreva un fiume ininterrotto di veicoli. Molte e frequenti le sirene. Uu-uà ui-uà uu-uà. A un angolo, un cane randagio si stava concedendo una cagata al cadmio.
La ragazza procedeva al mio fianco emanando una nuvola di aromi piacevoli. "E una pupa del genere", pensai, "si occupa di comportamento deviante e prevenzione della criminalità! In un lager per profughi!" La sbirciai: era chiaramente scossa. Dacché sapevo che non c'è verso di conversare con un corazón espinado, durante il tragitto analizzai le poche informazioni in mio possesso. Automaticamente, il mio cerebro-interfaccia trovò un link per i termini "serbo" e "Serbia", collegandoli all'attuale ricerca su vasta scala di uno dei "Macellai dei Balcani". Vojislav Jankovic il suo nome. Condannato in contumacia dal tribunale internazionale.
Questo Jankovic aveva una lenzuolata di precedenti, ma la sua biografia criminale si era arricchita notevolmente quando era assurto a triste fama quale caposcagnozzo di Milosevic. Era improbabile che un assassino della sua levatura avesse qualcosa a che spartire con l'omicidio di un tipo insignificante come Drago; d'altronde, in quel momento il Macellaio Jankovic poteva trovarsi in qualsiasi parte del mondo - in America o nello Yemen, per quel che mi riguardava. Ma si sa: nella nostra branca bisogna saper combinare, e mai escludere a priori la pur minima possibilità.
Nel momento in cui varcammo la soglia dell'obitorio, ebbi l'impressione che il viso di Jo Ann si tingesse dello stesso verde stucchevole delle pareti.
«Coraggio», la sollecitai. «Forse non è Drago...»
Invece era lui. Jo Ann lo identificò senza ombra di dubbio. Mentre la ragazza si copriva il viso con le mani, il Prof mi illustrò:
«È stato picchiato a morte. Fratture interne, fegato spappolato, reni idem. E nessuna contusione visibile all'esterno. Un lavoro da professionisti».
Tornai a volgermi a Jo Ann. «Se la sente di dare un'occhiata a un altro cadavere?»
«Un altro...?»
«È questione di secondi.»
Il secondo cadavere era quello di una "lei". A giudicare dal fisico, doveva essere stata una gran bella figliola. Il volto però era irriconoscibile, la testa ridotta a pappa per piccioni. Dopo averla colpita ripetutamente sul cranio, l'omicida l'aveva strangolata; infine aveva pensato a cavarle gli occhi.
Jo Ann barcollò. Poi scosse il capo.
«Mai vista?»
Sostenne di no.
Il Prof dedicò un'occhiata assorta alla defunta e soffiò aria dal naso, prima di far ricadere il sudario. (La sua vita doveva essere un unico cimitero di sospiri.) Quindi consegnò a Jo Ann due moduli da firmare.
Attraverso le lacrime, lei fissò i fogli come se fossero pieni di geroglifici. Dovetti aiutarla io a reggere la penna.
Quando uscimmo dall'obitorio, le dissi: «Bisognerà che mi racconti qualcosa di preciso circa Drago Blasevic. Chi erano le persone che frequentava e quali le sue... idee».
Ma la piccola sembrava a diecimila parsec di distanza. Levò gli occhi al cielo, un enorme buco d'ozono.
Allora le offrii alcune pasticche di cranck. «No, no...», rifiutò lei, assumendo il tipico atteggiamento di chi non ha esperienze con le droghe. Ma subito dopo mi chiese, curiosa: «Che cos'è?»
«Oh, una specie di medicina. Aiuta la circolazione», dissi, ringraziando in cuor mio il rastafariano a cui l'avevo sottratta.
Inghiottì una pasticca: lei stessa sentiva di averne bisogno. Il reset di coscienza avvenne dopo una manciata di secondi. Le lacrime le si rasciugarono sulle gote e un sorriso si fece strada nella sua maschera di dolore.
Mi accorsi che stava osservando il mio parka.
«L'ho ereditato da mio padre», le spiegai.
«Oh. Suo padre è...?»
«Morto? No-o. È vecchiotto ma sta bene. Solo che non va più tanto in giro. Lui è il ragazzo della via Gluck. Rimasto ancorato ai miti dei suoi tempi: anni Sessanta-Settanta.»
Jo Ann mi guardò divertita. Studiò le Clarcks ai miei piedi. Studiò la mia capigliatura lunga e i miei occhialini da sole. «I suoi tempi, eh?»
«Posso accompagnarla a casa?» mi offrii.
Il suo sorriso si allargò. Aveva denti regolarissimi, bianchi e compatti.
Camminò accanto a me con andatura baldanzosa, i piccoli seni a fare da spartivento nella folla. La babele schifanojca pareva non infonderle terrore. Al suo passaggio la canaglia pezzente si scostava rispettosamente. Puttane di tutt'e tre i sessi piantonavano i vicoli della rifiutopoli. Un giorno di augurio e di allegria.
"Dio c'è", asseriva una scritta. Certo che c'è. Ed è infognato nella volgarità di Schifanoja.
Jo Ann, bella e strana come una chimera metropolitana, mi condusse oltre l'abbagliante dispersività del quartiere dei piaceri, fino agli strepiti della centralissima Via Libertà. Abitava in un ghetto esclusivo per impiegati singles. Dietro la cancellata si elevavano diversi blocchi di miniappartamenti, ognuno con il suo giardinetto giapponese e il suo rachitico alberello davanti all'ingresso.
Era giunto il momento di accomiatarmi.
«Le ricerche si sono concluse anzitempo», osservai. «Ora non avrà più bisogno di noi. Voglio dire: della nostra agenzia investigativa.»
Inarcò le sottili sopracciglia, così che i suoi occhi divennero ancora più grandi. Notai il lieve tremolio delle sue labbra: l'effetto del cranck stava passando.
«È sicura di stare bene?»
«Eh?» fece lei, per un istante confusa, giacché non sapeva più chi fosse né con chi stesse parlando.
La accompagnai su, alla sua ristretta abitazione. Dopo che fummo entrati, crollò in poltrona e rimase per un pezzo a fissare la parete. Aveva il cervello in stand-by. Ma il risveglio sarebbe arrivato fin troppo presto. Povera ragazza. Una volta sola con il suo dolore, per lei il mondo non sarebbe stato più mondo, ma il suo simulacro.


FINE PRIMA PARTE


Il tenente Ics era alto (molto), pallido (troppo) e di una magrezza singolare. Qualora lo avessero licenziato dalla polizia, avrebbe sempre potuto optare per la professione di becchino.
«Il problema maggiore», dichiarò, «è che i due omicidi non sembrano essere collegati tra di loro, anche se i corpi sono stati rinvenuti relativamente vicini.»
«Quanto vicini?» volli sapere.
«Cinquecento metri circa. Quello dell'uomo era legato a uno dei paracarri della circonvallazione, con la faccia girata verso la fabbrica poco distante. È come se l'assassino desiderasse che gli operai, andando in fabbrica o uscendone, notassero il morto. Chissà, magari è un monito.»
«Già, ma un monito a chi? Non certo agli operai!»
«Il tipo era serbo, no? E molti di quelli che sgobbano alla ChemioPlast provengono dall'ex Jugoslavia.»
«Ah. Dunque la fabbrica in questione è la ChemioPlast?» Misi a mente quest'informazione. «E l'altra vittima? La ragazza?»
«Il suo cadavere giaceva alle spalle dello stabilimento.»
«Alle spalle della ChemioPlast?»
«Sì. A un centinaio di metri, su un campo brullo. Più precisamente, ai bordi di una stradina. Anzi, un sentiero. Il sentiero può servire da scorciatoia per raggiungere la città. E difatti molti degli operai, quelli sprovvisti di macchina, lo percorrono spesso, a piedi o in bici. Lei era conciata proprio male...»
«Già», confermai. «L'ho vista. Allucinante.» Scossi il capo. «E ancora si ignorano le sue generalità?»
Il tenente si strinse nelle spalle. «Le indagini sono state assunte dall'ESP, no? Tocca a voi piedipiatti "europei" scoprire chi fosse.»
«È vero, tocca a noi», dissi, assecondandolo. «Ancora una cosa, da piedipiatti a piedipiatti: come mai lei presume che i due omicidi possano essere non collegati?»
«Per una questione puramente tecnica. Vede, il giovanotto è stato ucciso in maniera rapida, pulita, efficiente. Vero? Vero. L'altro omicidio invece è stato compiuto in modo a dir poco barbaro. Oltracciò, anche se l'autopsia ha stabilito che i due decessi risalgono alla stessa ora, cioè attorno alle dieci di sera, è accertato che nel caso della ragazza la morte è sopravvenuta là dove ne hanno rinvenuto il cadavere, mentre il serbo, sempre secondo il rapporto dei nostri periti, è stato fatto fuori in qualche altro posto e il suo corpo trasportato alla circonvallazione solo più tardi.»
«Trasportato alla circonvallazione e legato a un paracarro... Uhm. Grazie, tenente Ics. Lei mi è stato di grande aiuto.»
Mi astenni dallo stringergli la mano: per timore di staccargliela dal polso.



La ChemioPlast sorgeva a nordovest della città, a un tiro di schioppo dalla scorrimento veloce - la nota "circonvallazione". Ci ero passato davanti tante volte e non mi ero mai chiesto che cosa producesse. La solita merda industriale, a giudicare dal brutto nome.
L'impiegato dell'Ufficio Personale aveva un contegno franco e gioviale. Forse troppo. Il sorriso che sfoggiava era una collana di perle appesa alle orecchie. Doveva essere tornato dalle vacanze da poco, oppure era un assiduo frequentore di solarium, perché aveva la faccia abbronzata come uno sherpa.
«È vero, signor Minardi: nel nostro stabilimento lavorano molti cittadini dell'ex Jugoslavia. Ovviamente gli stranieri sono tutti nei reparti di produzione.»
«Ovviamente.»
«...Anche se in ufficio abbiamo una segretaria originaria della Polonia.»
«Straordinario. E mi sa dire», dissi, «se negli ultimi tempi si sono aggirati degli zingari nei paraggi della fabbrica?»
«Zingari?»
«Oppure Illeg, o altre persone dall'aspetto... che so... alieno?»
«Alieni?»
Gli mostrai una foto di Drago Blasevic, pensando: "Non si sa mai". Ma lo sherpa ridente affermò di non averlo mai visto.
«Lei sa», ripresi, «che nelle imminenti vicinanze sono stati trovati due cadaveri...»
«Certo. E la sua visita è dovuta a questo, vero?»
Un mostro d'intelligenza. «Uno dei cadaveri era quello di una ragazza. Ebbene, non è improbabile che la ragazza lavorasse qui...»
«Qui? Alla ChemioPlast?... Forse», disse il colletto bianco, sempre sorridendo idiotamente.
«Può per favore controllare se tra il personale femminile si registrano assenze ingiustificate?»
«Posso. In qualsiasi momento», ragliò, con un lampo di felicità negli occhi.
«Dunque?»
«Cosa?»
Stavo cominciando a spazientirmi. «Lo faccia», dissi.
«Controllare? Ah, sicuro!» Consultò il suo computer. «Ecco, ci sarebbe... No, questa è in vacanza-maternità e dunque giustificata... Quest'altra è assente per malattia... Vediamo. Qui! Mara Lavarrini. Manca da tre giorni. Motivo: ignoto.»
«Mara Lavarrini», ripetei.
«Sì. È un'operaia del settore imballaggio.»
«Nessun'altra?»
«L'unica assente ingiustificata è lei.» A questo punto la collana di perle si dileguò. «Lei pensa che...? Potrebbe...?»
Ecco, bravo: aveva capito. Ora avrei dovuto premiarlo con lo zuccherino. Ma avevo già raggiunto la porta, e non mi presi nemmeno la briga di rispondere al suo «Arrivederci».



Penetrare nei reparti di produzione della ChemioPlast era praticamente impossibile, in quanto tutte le porte si aprivano elettronicamente, tramite una speciale tessera magnetica. Avrei voluto attendere fuori, accanto al cancello, allo scopo di avvicinare un paio degli operai e interrogarli sulla loro collega assassinata; ma il portiere mi informò che il prossimo cambio di turno sarebbe stato alle ventuno. Adesso erano le sedici. Risolsi perciò di fare una scappata da Jo Ann.
Al telefono Gippì mi aveva riferito quanto lei gli aveva detto: in Serbia, durante il regime di Milosevic, Drago si era fatto notare come dissidente accanito, dando talmente fastidio da essere obbligato a rifugiarsi all'estero. Ma anche lontano dalla patria il giovanotto non aveva smesso di fare l'oppositore contro certi pezzi da novanta. E, dopo la rivolta popolare, si era persino prefisso di scovare qualcuno dei "Macellai" fuggiaschi.
Una mia breve visita al Campo Sociale (un centro di raccolta profughi sviluppatosi attorno a una chiesa sconsacrata) non recò risultati concreti. Sembrava che Drago conducesse la sua lotta strenua e generosa completamente da solo, senza l'ausilio dei connazionali. Parlando con alcuni di loro, capii che avevano una paura fottuta. Inoltre non tutti nutrivano idee di stampo democratico: al contrario. Questa gente era il classico esempio che la realtà non è quasi mai divisa in bianchi e neri, in buoni e cattivi, ma è un miscuglio intricato di tinte nel quale è difficile individuare verità assolute.
L'unica cosa che riuscii a scoprire era che Blasevic aveva avuto un'amica fissa: un'italiana. Mostrai perciò in giro una foto di Mara Lavarrini.
«Sì, sì», mi dissero, convinti. «È questa.»
Era questa.
Quindi un nesso tra i due omicidi c'era, in fin dei conti... Avevano ucciso Giulietta e Romeo.



«Oh, Smoke!» mi accolse Jo Ann. Ero andato a trovarla apparentemente just for fun. In realtà, avevo un paio di cosette da domandarle.
«Come va?»
«Bene... Ora bene. Penso proprio che non andrò più al Campo Sociale», esclamò con una risatina. Poi ridivenne seria, come se si fosse ricordata di qualcos'altro.
Il suo gusto in fatto di abbigliamento (per lo più tessuti in colori pastello) si accordava al suo gusto per l'arredamento: mobili bassi in legno di ciliegio, concepiti per uno scopo puramente pratico; pochi ninnoli ma molti effetti personali (soprattutto fotografie); cuscini rosa e gialli; tende celestine.
Ci eravamo dati appuntamento nel suo mini-monovano con la scusa di paragonare i nostri compact. Subito lei mise su "Adore" degli Smashing Pumpkins, seguito da "Wake Up" dei Rage Against The Machine. Io la mandai in sollucchero con "Very Superstitious" di Stevie Wonder e "The Circle Game" di Joni Mitchell. Ridendo, mi appellò "retrò". Le andai più vicino e le dimostrai che si sbagliava.
Più tardi, giocherellando con il piercing che aveva all'ombelico, le chiesi di che natura fossero i suoi rapporti con Drago Blasevic.
«E me lo chiedi in questo momento?»
«La vita è una maledetta necessità, ragazza. Allora?»
«Beh, se proprio lo vuoi sapere... eravamo amanti», mi spiegò in un singolare misto di contrizione e ribalderia. Si atteggiava a dea del bovarismo: una malattia comune a molte nostre donne.
«Hai mai conosciuto una certa Mara?»
Si volse a guardarmi, tacendo ottusamente.
«Mara Lavarrini», insistei.
«E chi sarebbe?» esplose. Qualcosa nel tono della sua voce mi suggerì che mentiva: sapeva molto bene di chi stavo parlando.
«Era la ragazza del "tuo" Drago», le dissi in modo esplicito.
«Ah, sì? Embè?» Tirò una lunga boccata dalla sigaretta di forma conica che io avevo preparato in precedenza e soggiunse: «Cosa vuoi che me ne importi?»
Continuava a giocare alla dissoluta, ma come attrice non era molto brava. Ormai capivo che tipo fosse: la sua indole instabile la faceva oscillare tra l'introverso e l'estroverso, tra depressione e aggressività. Al mondo c'erano milioni di squinzie simili...
Decisi di non tormentarla più del necessario. Alzatomi per andare in cucina, notai il proiettore sopra il letto. Lo accesi, e su di me galleggiò l'ologramma di dèmoni e donne strettamente avvinti nelle più pervertite forme di accoppiamento. Demonici erano anche i due oggetti ai lati del proiettore: la statua di un satiro luciferino e uno stiletto sulla cui impugnatura erano incisi rospi, serpenti e lucertole. A che cosa le servivano? Per i flash esoterici?
Non feci alcun commento. Jo Ann era solo un poco strange, ecco tutto. Cercai in cucina qualcosa da mangiare, ma il frigorifero non conteneva niente di edibile. Tipico anche questo.



«Dove sei stato?» mi investì Gippì.
«Indovina un po'», risposi.
«Ancora in giro per quel serbo morto?»
«I morti sono due, non uno. Ora sto ficcanasando per conto dell'ESP. Ma non soltanto.»
«Dobbiamo occuparci di tanti altri casi!» protestò lui, sventolando un fascio di fogli.
«Smettila di fare la piaga, Gippì! Jo Ann... ovvero la signorina Falloppia... ha pagato anticipatamente, e il minimo che possiamo fare è stanare l'assassino di quel suo amico.»
Ma Gippì non voleva sentire ragioni.
Era una scena che avevamo recitato più volte. Il mio socio sottolineava spesso la presunta incompatibilità dei miei due impieghi: «Senti, Prospero: o lavori per l'agenzia o ti dedichi interamente al Corpo Sbirri Europeo!»
«Non chiamarmi Prospero. Chiamami Smoke.»
«Così non va non va non va...»
Come al solito, lo lasciai sfogare. Eravamo uno Chaud e l'altro Froid.
Tra un intervallo e l'altro della sua sfuriata, buttai là: «Adesso so chi era la ragazza uccisa».
Si calmò all'improvviso, come se una mano gigantesca fosse calata dall'alto e avesse chiuso il rubinetto dell'acqua calda. «Aspett- aspett- aspetta», disse a mezza voce. «Raccontami ogni cosa.»
Così, feci di tutto per accontentare la sua vorace curiosità di amante dei gialli, di inguaribile cultore dei misteri.
Dopo avere ascoltato il mio resoconto, commentò: «Scommetto l'osso del collo che, contrariamente a quanto tu supponi, i due omicidi sono strettamente connessi».
«Non farlo, Gippì, non farlo. Potresti perderlo, l'osso...»



Una folla variopinta infestava la stazione. Era là che Chablisky aveva voluto incontrarmi. Chablisky: un operaio che avevo avvicinato davanti alla ChemioPlast e che aveva acconsentito a fornirmi dettagli sui retroscena della morte di Drago Blasevic. Previo pagamento, s'intende.
Guardandosi attorno con malcelato nervosismo, mi disse: «Drago aveva scoperto qualcosa di importante».
«Quanto importante?»
«Prima voglio i...» Strofinò eloquentemente pollice e indice.
Cavai dal portafoglio cinque banconote di grosso taglio e gliele consegnai. Chablisky se le infilò in tasca senza neppure esaminarle.
«Eravamo grandi amici», affermò. «Anche se io sono bosniaco e lui era serbo. Condividevamo gli stessi ideali...»
«Che cosa aveva scoperto?»
«Aveva scoperto dove si nasconde un certo criminale di guerra.»
«Qui, a Schifanoja?»
Fece di sì con la testa.
«Il nome.»
Tornò a occhieggiarsi tutt'attorno, prima di sussurrarmi all'orecchio: «Vojislav Jankovic».
«Ah. E anche tu conosci l'ubicazione del suo nascondiglio?»
«Vuole dire dove Jankovic si tiene nascosto? Sì, lo conosco.»
«Sei pronto a rivelarmelo?»
Si umettò le labbra. «Sì.»
«Come mai? Ti alletta l'idea che quell'uomo sia processato?»
«Non solo. Ad allettarmi è soprattutto il denaro.»
Capii l'antifona: gli diedi qualche altra banconota. «E ora fuori l'indirizzo della casa.»
«Non è una casa», fece lui. Mi spiattellò dov'era il nascondiglio, e io scossi la testa. Non perché non gli credessi, ma perché la rivelazione era tanto semplice quanto sensazionale.
«Rilassati, Chablisky», lo esortai a quel punto. «Nessuno può sapere che ci siamo dati appuntamento qui.»
«Ne è sicuro?» fece lui, detergendosi il sudore dalla faccia e studiando le persone che, chi con la valigia e chi senza, sfrecciavano in mille direzioni, simili a elettroni impazziti.
«Ci sono uomini onesti come Drago che combattono contro quegli assassini senza pretendere alcuna ricompensa, mentre tu...»
«E con quale risultato lo fanno?» rimbeccò Chablisky. «Si fanno ammazzare come cani! A parte tutto, a me i soldi servono. Servono davvero.»
«E perché?»
«Per tornare a casa il più presto possibile.» Di nuovo, si leccò le labbra. «Io sono un bravo lavoratore, ma alla ChemioPlast pagano poco. Troppo poco. Eppoi possono buttarmi fuori in qualsiasi momento. È una specie di mafia. I capireparto tengono sempre pronte le richieste di licenziamento di molti di noi: gli basta portarle in ufficio. E, se mi ritrovo disoccupato e senza soldi, capace che finisco nuovamente nel Campo Sociale.»
«Ci sei già stato?»
Annuì. «Tutti gli operai stranieri della ChemioPlast stavano lì, prima. Vengono reclutati al Campo, che cosa crede? Serbi, certo. Ma anche bosniaci, macedoni, albanesi.»
«Chi li recluta?»
«Quelli della "mafia". Noi la chiamiamo così: "la mafia della ChemioPlast". Una banda di ex jugoslavi che fa il bello e il cattivo tempo nei reparti di produzione. Chi non riga dritto, torna immediatamente al campo profughi.»
«E se anche fosse? Non sarebbe una tragedia.»
«Ah, davvero? È un incubo, invece! Quando vi ero internato, mi ero iscritto nella lista delle persone che desideravano rimpatriare. A casa nostra non c'è più la guerra, quindi perché non farvi ritorno? Ma la polizia ci mette un'eternità a esplicare le pratiche, e intanto sa che cosa fa la mafia? Se sei uno di quelli che hanno "tradito", se sei uno "contro", ti fanno fuori! E le autorità italiane mica ti proteggono!... Non è un Campo Sociale: è un campo di concentramento!»
Sorvolai sull'argomento. «Bene, ora dimmi qualcosa sugli uomini che collaborano con Jankovic.»
«Gli...?»
«Voglio sapere quanti sono, conoscere la loro identità e a quali operazioni hanno preso parte nei Balcani.»
Chablisky aggrottò la fronte. «Sono semplici mercenari. Jankovic si circonda di quattro o cinque tipi fidati, non di più. Ma sorvegliano il suo covo giorno e notte. Non mi chieda però che armi abbiano o quali siano i loro nomi, perché non lo sa nessuno.»
«Va bene», dissi. «Puoi andare.»
Strascicando i piedi, si tuffò nel tumulto, mimetizzandosi ben presto in quel paesaggio organico fatto di corpi più o meno umani. Un groviglio verminoso composto per lo più da individui della sua sorta, in grado di farti venire un prolasso testicolare.



Con le sue unghie adunche affondate nel prato nero, la fabbrica assomigliava a un gigantesco gatto. Faceva le fusa, anche, come un gatto. In lontananza si intravedevano le poco smaglianti luci della città. Alta sopra ogni cosa, Selene pareva l'occhio di una telecamera. Forse lo era.
Finanche a quell'ora i finestroni dello stabilimento erano illuminati: alla ChemioPlast si lavorava su tre turni.
Percorsi con la Vespa il primo tratto del viale in discesa, tra due filari di pini raggrinziti. Di notte la zona era più che mai spettrale. A metà del viale spensi il faro e nascosi la Vespa in mezzo ai cespugli. Poi, sebbene facesse freddo, mi tolsi il parka.
Il cancello principale era sbarrato, ma nella casupola del portiere brillava un lumicino.
Avanzai facendomi scudo con gli alberi. A un tratto qualcosa mi sfiorò il volto. D'istinto alzai le braccia, pensando a un pipistrello. Invece era un cam-bird.
Il cam-bird atterrò sul tronco più prossimo e la sua minuscola spia rossa si accese a intermittenza, segnalandomi: "danger". Agitai il pollice teso davanti al suo occhio vitreo, a voler significare: "O.K.". L'uccello recepì il messaggio e disinserì l'allarme.
Più su, all'inizio del viale, era venuta a fermarsi un'auto a cuscino d'aria. Un tassì. La vettura ripartì dopo qualche istante e io rimasi in attesa, acquattato tra i cespugli. Un minuto più tardi potei percepire, più che vedere, un tenue scintillio a qualche passo di distanza. Poi distinsi il balenare di un oggetto metallico. La superficie lucida dell'oggetto rifletté un raggio lunare, che mise in risalto una sagoma vaga; un ectoplasma. Aspettai qualche istante. Quindi, con un guizzo, fui addosso al fantasma.
«Ah! Bastard...»
Lo sconosciuto aveva una voce leggera come l'aria.
Rotolammo tra gli sterpi, prima che potessi colpirlo con una certa violenza. Soltanto allora compresi chi era.
«Tu?»
Jo Ann: più bella che mai, più fiore che mai, più bambina che mai. Jo Ann, luna e latte. Ma che ci faceva in giro nel colmo della notte? La risposta era ovvia: mi aveva seguito. In... tassì.
La sentii scoppiare in una risata sonora, gorgogliante. Un umore niente male per una che perde sangue dal naso. Sfortunatamente per lei, io non avevo nessuna voglia di ridere. Rialzatomi, cercai l'oggetto che avevo fatto volare via. Era stato scaraventato qualche metro più in là. Mi chinai a raccattarlo: si trattava dello stiletto che avevo visto a casa sua, con il manico adorno di figure di una fauna schifosa.
Improvvisamente si mise a singhiozzare e, tra i singhiozzi, borbottò: «Mi hai fatto male, accidenti a te!» E poi: «Hai ancora una di quelle pillole che rendono allegri?»
Jo Ann Falloppia aveva una pervicace tendenza a mischiare tutto: rabbia e gioia, odio e amore. Aveva voluto uccidermi, e per questo avrei dovuto farle il terzo grado; ma non c'era tempo per le chiacchiere. Con un pugno ben assestato la spedii nel mondo dei sogni.
Tornai a concentrarmi sul mio obiettivo. Raggiunto il reticolato, ne percorsi il perimetro piegato in due. Anche sul retro c'erano cartelli di divieto. Studiai l'ostacolo: non era insormontabile. Mi arrampicai e, riuscendo a non impigliarmi nel filo spinato attorcigliato in cima, mi lasciai cadere dall'altra parte. L'atterraggio fu attutito dall'erba alta.
Ora avevo davanti a me il ronzio della circonvallazione e, più vicino, quello ben più minaccioso della fabbrica. Nel parcheggio sonnecchiavano nove o dieci macchine. Avanzai con cautela verso il lato dell'edificio dove c'era la rampa per il carico-scarico delle merci.
Questo era un buon posto per tendere un agguato. Cataste di casse vuote sulla sinistra, alcuni veicoli da trasporto sulla destra. Nel frattempo la luna era scomparsa dietro una nube; la notte era diventata buia come il buco del culo di un elefante.
Sulla rampa c'era qualcuno. Un coso più largo che lungo, con il naso a becco di civetta e gli occhi molto piccoli. Sul capo portava un berretto di pelo di cane. Sembrava assorto in lugubre meditazione. Il bello è che io potevo vederlo, mentre lui non poteva vedere me.
«Psst», lo chiamai.
Si rizzò di scatto e impugnò il mitra, mentre scrutava nel nulla come un assatanato.
«Ehi, tranquillo, boss!» esclamai. «Hai da accendere?»
«Chi sei?» ribatté lui, indeciso se dare l'allarme o meno. Continuava a non vedermi; agitai una mano per facilitargli le cose.
«Sono quaggiù!» dissi. «Il lavoro mi stava annoiando e ho pensato: perché non farsi una fumatina?»
«Non dovresti essere qua. Torna dentro», abbaiò lui. Aveva un accento da poter tagliare con il coltello.
«Hai da accendere?» ripetei.
Vomitò una serie di bestemmie slaveggianti, ma nondimeno non volle rifiutarmi il favore. Traendo dai pantaloni un accendino, si piegò sulla rampa per permettermi di dar fuoco alla fantomatica sigaretta. Mi approssimai alla fiammella e tirai quel fesso per un braccio, facendolo rovinare a terra.
Riuscì a emettere un grido: breve e rauco. Ma, prima che potesse aggiungere qualcos'altro o correre via, lo colpii alla nuca con il taglio della mano. Lui palesò uno stupore comico, si genufletté come per dire una preghiera e crollò con il muso in avanti.
Meno uno.
Andai a raccogliere il mitra e balzai sulla rampa. C'erano due grandi porte di ferro, ambedue chiuse. Tentai di aprire la prima: nada. La seconda invece cedette sotto una leggera spallata.
Ero dentro il sistema.



Vi avrei trovato veramente Jankovic? Il miglior modo per scoprirlo era di verificare se le informazioni di Chablisky erano esatte. Mi aveva detto che l'unico modo di entrare senza far uso di una tessera magnetica e senza dare nell'occhio era di prendere la via dei magazzini.
L'ambiente era vasto e ingombro di scatoloni. Su tre pareti si aprivano altrettante porticine. Varcai quella in fondo a destra e proseguii lungo una corsia fiancheggiata da scaffalature di metallo: era il settore imballaggio, dove aveva lavorato Mara Lavarrini.
Anche qui c'erano alcune porte. Contai quelle sulla parete di fronte. Una, due, tre. La terza. La aprii (nessun segnale di allarme suonò) e, dopo aver dato un'occhiata all'interno, mi intrufolai.
Fui in un corridoio da navicella spaziale, con lunghi tubi di neon o argon che correvano in alto. Gli operai erano dietro una parete di vetro, in tuta bianca, guanti e mascherina verde. Alcuni stavano seduti davanti a un computer, altri armeggiavano con certi box contenenti dischi di silicio. Chiusi, sigillati nell'ambiente sterilizzato, si muovevano come se si trovassero in fondo al mare, e nessuno parlava. Solo i macchinari gorgogliavano, sibilavano, ronzavano.
L'impressione subacquea fu rovinata dall'arrivo di un tipaccio in un'uniforme militare; un'uniforme priva di mostrine e distintivi di grado. Rambo in carne e ossa.
«Ehi!» fece, puntandomi addosso un pistolone con il silenziatore.
«Ehi, ehi», echeggiai io, senza alzare le mani. Mi fingevo il re degli sprovveduti. «Non si può neppure fare due passi?»
«Sei un operaio? Di quale reparto?»
«Di quello.» Feci un gesto approssimativo, a indicare una delle pareti di vetro.
«Com'è che non hai la tuta da lavoro?»
«Permesso speciale del capo», inventai lì per lì, continuando a mantenere un contegno pacifico.
«Il tuo capo... chi?»
«Non so come si chiama. Sono nuovo in questa gabbia di matti.»
Gli fornii un silenzio sufficiente perché potesse meditare su quanto avevo appena detto. Mi osservò, notò la sacca rigonfia che avevo con me e le sue pupille si restrinsero, mentre rimaneva in attesa del resto.
«Guarda che posso controllare», fece poi.
«Si accomodi.»
Qualcosa continuava a insospettirlo, perché indietreggiò verso un videofono a muro con l'evidente intenzione di servirsene.
In quella deflagrò uno strillo: «Tu!»
Rambo fece una faccia stupita. E anch'io mi stupii, a dire il vero. Entrambi guardammo Jo Ann che, in tutina nera, reggeva una specie di giavellotto. Un lungo pezzo di ferro appuntito, che doveva aver raccattato fuori.
Rambo rise largo. «Infilatelo nell'orecchio, baby», ruggì.
Che uomo volgare! Indescrivibile l'espressione che assunse quando l'asta, scagliata dalle manine di Jo Ann, gli si infisse proprio al centro della 'O' ridanciana, con la punta che gli fuoriusciva dalla nuca.
«Brava!» lodai.
Lei, che aveva la mascella gonfia là dove le avevo mollato uno sganassone, mi urlò addosso: «Si può sapere che cosa succede?» E mi venne incontro con le dita piegate a rostro.
Le afferrai i polsi intimandole di star calma. Quindi le spiegai in tutta fretta la situazione.
Dopo avere ascoltato con frenetica impazienza, mi disse: «A mio avviso a te piace troppo giocare all'eroe».
«Faccio solo il mio mestiere, piccola.»
«E questo Jankovic? Sarà veramente qui? E come farai a riconoscerlo? Non avrà cambiato identità? E se ha una faccia nuova?»
«In effetti sappiamo poco su di lui. Ma, se si fosse sottoposto a un radicale trattamento estetico, per quale ragione dovrebbe nascondersi? Quanto al nome, uno vale l'altro. E il Macellaio ne avrà molti. Ora vieni.»
Mi seguì, sia pure tormentata dai dubbi.
Scavalcammo il fu Rambo. Il liquido in cui sembrava galleggiare non era sangue ma sostanza oleosa. Gasolina. Da dietro la lastra trasparente, uno degli operai ci guardò come un pesce sul punto di soffocare; ma noi non ci facemmo caso.
Anche il corridoio successivo era inondato di una luce bianca e fredda. Affidandomi allo schizzo di Chablisky (sembrava il disegnino di un alunno delle elementari), mi diressi verso un'ennesima porta e la spalancai. Da qui, una scala molto ripida si dipartiva verso il basso. Per contrasto, questo angolo del labirinto era troppo buio e troppo isolato. Scesi i gradini con cautela, ma non c'era nessuno pronto a saltarmi addosso. Dietro di me sentivo l'ansimare eccitato di Jo Ann.
Ci ritrovammo nello scantinato. Tubi e cavi di tutte le dimensioni uscivano dai muri e salivano verso il tetto, andando a finire nei macchinari di produzione. Poi un'altra porta di ferro, che dava su uno stretto passaggio. Dalle tubature gocciolava qualcosa: era come una pioggia rugginosa che non smette mai di cadere. L'ambiente era freddo, uggioso; mancava soltanto la nebbia.
Alcuni rumori dietro un angolo: un cigolio di cardini, passi smorzati, qualcuno che rideva, qualcun altro che diceva: «Pietr». Mi arrestai di colpo osservando l'ombra che si proiettava alla mia sinistra. Poi da destra spuntò il suddetto Pietr: un omone con una grande capigliatura crespa e i muscoli agli steroidi. Rambo Due.
«Ciao», gli dissi.
Un lampo di confusione gli attraversò gli occhi. Accennò a infilarsi una mano nella cintura e un urlo gli corse alla bocca: «Sbjázt...» Ma alla prima sillaba si fermò in tronco. Aveva visto la mia colt. Fu come se i muscoli del suo viso si fossero arresi tutti in una volta. Allora vomitò una sfilza di bestemmie, finché lo sparo non gli fece scoppiare il ventre. Volò all'indietro e, contorcendosi, si mise a piangere come un marmocchio.
Intanto, con il revolver fumante quale biglietto da visita, facevo già irruzione nel vano da cui Pietr era uscito. Cos'era? Un magazzino più piccolo? No: una specie di cisterna. C'era nell'aria un sentore terrigno, e una nudità freddolosa in tutto. Tenni di mira i quattro individui che vi si affollavano. Nell'afror di sigarette, tre di loro mi fissarono addosso un'occhiata livida. Il quarto, assiso al centro come un papa sconcio, volse appena il capo: uno sguardo ambiguo, misto di meraviglia e di sufficienza.
In nessun computer c'era uno schema vocale o retinico che potesse identificare Vojislav Jankovic. L'unica cosa che si aveva di lui era una fotografia, e neanche tanto recente. A ogni modo, capii che proprio di lui si trattava.
Un tipo decisamente scialbo, over 40. Ben pasciuto e con i capelli lucidi come il catrame. Durante la latitanza gli era cresciuta la barba. Aveva una faccia buona, come di presentatore di programmi per bambini. Ma non bisognava lasciarsi ingannare: era uno degli Eterni Ostinati, un capintesta della vecchia guardia che si opponeva stolidamente al picconamento delle ultime cortine.
Continuai a tenere di mira il gruppo. Per un lungo istante si sentì solo il berciare dell'apparecchio televisivo in un angolo. Il Macellaio sedeva su una vibropoltrona fumando un sigaro. Albergo di prima categoria, tutti i comforts. Uno dei gorilla aveva fatto in tempo ad allungare le mani su un Kalashnikov e sembrava non avere l'intenzione di mollarlo, perciò ordinai a Jankovic:
«Digli di metterlo via».
Il Macellaio sollevò la poderosa testa e con una voce acre, che pareva di raspa, disse qualcosa all'uomo. Questi fece le sue rimostranze in tono querulo. Si aggrappava al Kalashnikov come un naufrago a una tavola di legno.
Mi rivolsi direttamente a lui: «Mettilo via, amigo».
Mormorò qualcosa e, sudato come una bestia, strinse ancor di più le grinfie attorno all'arma. «Svi u napad!» gridò poi.
Fu Jo Ann a sparargli in bocca. Il pugno di piombo gli fece inghiottire le parole, piantandogliele nel cervelletto, che si sfracellò.
«Calma, calma!» dissi sia a lei che ai gangster rampanti, agitando la calibro 45. Jo Ann tradiva sempre più la capacità a una collera e a una violenza improvvise. Supposi che aveva sottratto l'arma all'agonizzante Pietr, là fuori. Arretrando verso di lei, la costrinsi a consegnarmela. Non volevo che spedisse anche il sottoscritto a tu per tu con il Portinaio Celeste.
Jankovic e i suoi sgherri, coperti dal sangue del loro accolito, avevano ora un'espressione rassegnata. Uno degli sgherri era addirittura tornato a sbirciare la tele. Stavano trasmettendo uno dei soliti giochi con tanto di pornovallette assortite.
«È andata buca, Janko», dissi. «Ready per la partenza?»
«Eh?» fece il Macellaio, mentre la vibropoltrona continuava a shakerargli le ghiandole.
«Ti attende una cella comoda almeno quanto questa. Il rifugio ti serviva come ponte geografico e temporale, vero? Da qui volevi spiccare il balzo per il tuo ritorno in patria: un rientro alla grande, da trionfatore.»
«Eh?» ripeté.
Aveva i pensieri in subbuglio. Ai bei vecchi tempi era stato una personalità militare che esercitava il controllo su un vasto apparatcnik. Non era abituato a rimanere da solo, né tantomeno a nascondersi sotto falsa identità. La rivoluzione pacifica (o presunta tale) che aveva fatto cadere il suo unico capo, Milosevic, gli aveva tolto il terreno da sotto i piedi. Aveva sempre deciso del destino di migliaia, forse di milioni di persone; adesso era quasi privo di potere, e ciò lo stava spingendo a chiudersi come un'ostrica, a rimbambirsi.
«Quante vite avete rovinato nel nome della vostra "strategia politica"? Mai provato rimorsi, Janko? Qui avresti potuto startene buono buono, e invece no. Hai voluto costruirti un piccolo regno persino in una città di merda come questa. Drago Blasevic lo hai fatto eliminare perché minacciava di spifferare l'ubicazione del tuo covo...» (sentii Jo Ann singhiozzare) «... e, dopo, hai ordinato ai tuoi sgherri di legarlo a uno dei paracarri della vicina strada, affinché gli operai lo vedessero: un avvertimento a chi decidesse di seguire il suo esempio.»
Jankovic gettò via il sigaro. Poi sorrise. Un sorriso mite, come quello di un vecchio che ha appena ricevuto un regalo dal nipotino. Accadde all'improvviso. Con un abile gesto da prestigiatore, fece materializzare un oggetto tra le proprie mani. Una pigna, o un ananas che fosse.
Sempre e ancora mi sono chiesto attraverso quale evento o quale intuizione un uomo si accorge che la sua esistenza è un dramma insensato cui dover apporre la parola "fine". Mentre Jankovic estraeva la linguetta della bomba a mano, mi buttai su Jo Ann, spingendola a terra e coprendo il suo corpo con il mio. Apocalisse. Now.
L'esplosione ci fece spiccare un volo. L'urto, violento e squassante, ci spiaccicò contro una parete. Calcinacci e frammenti di materiale organico mi spiovvero sulla schiena. Quando mi voltai, pareva che qualcuno avesse buttato nella stanza un secchio di vernice rossa. Vojislav Jankovic si era trascinato con sé all'inferno due dei suoi cani fedeli. Il terzo si rotolava sul pavimento con le budella di fuori.
L'estrema rodomontata del Macellaio. La chiusura di bilancio di una vita condotta all'insegna della follia.
Il rombo echeggiò a lungo tra i luridi muri del covo dei pirati. Nella conduttura si era aperta una falla e un gas liquido e incolore si riversava ora sul ventre squarciato del gangster superstite. Questi, dopo qualche altro spasmodico contorcimento, spirò in mezzo ad allegre nuvolette e nel puzzo quasi asfissiante di bruciato. Mi rialzai. Uno scompiglio allucinante. Ma se non altro la tivù era stata messa a tacere, finalmente.
«Veniamo a noi», dissi a Jo Ann.
«I am very well», mi rassicurò lei.
«Non è della salute che voglio discutere. Raccontami qualcosa di Mara Lavarrini.»
Orrore, odio, desiderio incontenibile le passarono sul viso. Boccheggiò, ma non riuscì a replicare nulla.
«Mara amava Drago. Per punirla di questa insolenza, o imprevidenza, tu l'hai uccisa. Una sera l'hai aspettata all'uscita della fabbrica. Sapevi che lei era solita prendere la via dei campi. L'hai colpita più volte alla testa con la famosa statuetta del satiro. Poi l'hai strangolata. E, non contenta...»
«Sì», ammise lei, con un sorrisetto estatico. «Sì. Stava là, immobile, immersa nel suo sangue. Ma ancora bella. Molto più bella di me. Le ho infilato le dita negli occhi. Una sensazione acquosa. Non ho provato raccapriccio, sai. Ho affondato ancora di più: è stato come rompere il rosso di un uovo.»
Oh, piccola Jo Ann! Come hai potuto smarrirti così? Ma d'altronde: com'è che si perdono tanti esseri umani? Le cronache sono strapiene di gesti inconsulti, corpi sventrati, cuori strappati e trafitti allo spiedo, facce rovesciate sulla nuca, stupri di ogni genere.
«Drago era attraente», proseguii. «Una personalità affascinante, un rivoluzionario della prima ora. Un idealista, figurarsi. E per di più un coniglio maschio. Bravo a letto e fuori. Non ti potevi capacitare che non fosse più disponibile per te. Così, hai eliminato la tua rivale in amore. Ma non ti è servito a niente, in quanto lui, l'uomo delle tue brame, era scomparso. Anche lui ucciso. E, per puro caso, ucciso nello stesso giorno e alla stessa ora in cui moriva Mara. Destino crudele, eh? Hai compiuto un omicidio per niente... Infine hai tentato di far fuori anche me. Con questo.» Le mostrai lo stiletto, che avevo estratto dalla sacca. «Prima la statua, dopo quest'altro strumento del diavolo. Le vie di Satana sono infinite.»
«Satana?» rimbrottò lei. «Non ho bisogno di intermediari, io.» E a un tratto si afflosciò. Sedette sul pavimento, semplicemente, lo sguardo velato.
Cominciai a rullarmi uno spino. Intanto, osservando tutto quel sangue, le dissi: «Adesso ti dovrò arrestare, lo sai?»
Nessuna reazione. Stava fissando il morto. Con quella testa sbilenca miracolosamente attaccata al tronco e gli occhi spalancati nel vuoto, Vojislav Jankovic sembrava un burattino rotto.
«Beh? Che si fa?» chiesi.
Jo Ann inspirò profondamente. Poi, avvicinandosi a me con movimenti sinuosi, disse:
«Fuck».

© Peter Patti





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(8) Il lungo viaggio di Chaetodon Vagabundus di Francesco Sciortino - Il Parere di PB
(9) L’Invasione dei Terrestri di Diego Rosato - Il Parere di PB
(10) Soldati, campi di grano e James Dean di Giorgio Piumatti - Il Parere di PB



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