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Dio c'è
di Giorgio Maggi
Pubblicato su PB4


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La ragazza, tette e culo modello California, sorrideva maliziosa. Un ciuffo di capelli dorati, modello praterie del Kentucky, le scendeva lungo il viso nascondendo uno dei due occhi blu cobalto. Lo stava invitando spudoratamente nuda, titillandosi i capezzoli, a montarla lì, in quel momento sul cofano dell'enorme pick - up. Teneva le cosce tornite aperte a compasso, la fessura rosa e umida del Paradiso pronta ad accoglierlo.
Alfio si strinse il cappio di lenzuolo ruvido attorno al collo, carta vetrata. Dopo un anno di galera non era ancora riuscito ad abituarsi a quel massaggio da fachiro. Salì sullo sgabello a mezzo metro dalla fine. Respirò a fondo l'aria rancida di sudore e scoregge, si guardò attorno. Le pareti scalcinate, rattoppate alla meglio da quelle troie di carta, i letti a castello che occupavano tutta la cella con in mezzo solo un piccolo tavolo, per giocarsi a poker sigarette e quel poco che mandavano da casa, nell'angolo un lavandino rugginoso che esalava miasmi da fogna, giorno e notte, ancor più della tazza che stava accanto. Ancora tre anni in quel claustrofobico vuoto zeppo di miseria, spalla a spalla con uomini che nella sua vita non avrebbe mai immaginato. Sentì le loro voci inseguire il pallone giù in cortile, girare in tondo tra quelle mura che non riuscivano a sfondare. Diede uno strappo all'altro capo del lenzuolo, legato alle sbarre della finestra, per provarne la resistenza. Non voleva più tornarci in quel buco mai più.


La sua festa di laurea sarebbe stata ricordata negli anni a venire. Doveva essere uno di quei giorni che segnano l'esistenza, che quando ci ripensi vedi ben chiaro il confine: da lì in poi solo il declino. Il punto più alto della vita, la sua e degli invitati. Il gruppo storico innanzitutto, cinque fratelli di sangue, coglioni fin dalla culla e rimasti tali fino ad allora. Quello sarebbe stato il premio per la loro coerenza. Poi tutti gli altri, muffe universitarie, abbarbicati come lui da almeno dieci anni negli androni delle aule. Oltre a loro, sfigati fino alla consunzione, aveva pensato di invitare qualche faccia pulita, di buon nome, con tanto di cravatta e panciotto, disprezzati fino alla morte ma indispensabili per attirare le solite zoccole da ateneo che altrimenti non sarebbero mai venute. Alfio si era sputtanato tutta la sua miseria per quella festa, ma era la celebrazione di un decennio, una decade, dieci anni per una laurea in ingegneria. Un sogno che avevano sognato i suoi e che alla fine non era riuscito ad evitare. Aveva affittato un casolare in profonda campagna, tre scorze per una sola notte, ma lo spazio e l'isolamento erano indispensabili per il grande sabba. Un'altra testa era andata per cento bottiglie di birra scaduta che aveva raccattato in giro per i bar di tutta la città, e un'altra ancora per 40 litri di vino di DENOMINAZIONE DI ORIGINE PREOCCUPANTE. L'impianto stereo era frutto di un esproprio proletario ai danni di sua sorella Sara. Sara era la sua coscienza critica, più vecchia di lui di tre anni e più saggia di trenta. Nutriva per lei un complesso edipico deviato, uccidere il padre e scoparsi sua sorella. Ne era innamorato da quando ancora imberbe, l'aveva sorpresa, lei adolescente in calore, a trapanarsi con una zucchina e invece di scacciarlo s'era lasciata osservare a scopo educativo. Più esplicativa di qualsiasi testo di educazione sessuale. Il fatto che quindici anni dopo, ormai sposata e mamma, lui desiderasse ancora far l'amore con lei, era un effetto collaterale non previsto e che non immaginava. I compact erano già piazzati in ordine di alterazione della coscienza. La discoteca partiva dal '68 per arrivare ai primi '80, la colonna sonora degli anni di piombo. Per aprire la serata i Genesis con la loro melodica sobrietà, quando le teste erano ancora lucide. I Led Zeppelin avrebbero stappato le prime bottiglie con il loro blues sporco di hard, e poi a schiacciare l'acceleratore Hendrix, Doors, Deep Purple, dritti fino alla mistica da sballo sulle note acide dei Pink Floyd e Jefferson Airplane. Fece ancora un ultimo giro. La stanza da orgasmo aspettava con il pavimento interamente coperto da materassi. Sperava di riuscire anche lui a farci una puntata. Il cesso era ripulito di fresco, fino a quando il primo pivello che non reggeva l'alcol, avrebbe provveduto ad intasarlo con i resti della cena. Per ultimo entrò nella saletta privata. Il lampadario a candele era stato dipinto di viola funerale, dei cuscini indiani erano stati piazzati come grossi nidi ai quattro angoli, e al centro troneggiava un narghilè con ai piedi, schierati in buon ordine, una mezza dozzina di chilom pronti per essere caricati.

Alfio stava contemplando soddisfatto il risultato dei suoi sforzi, quando il merlo gli arrivò alle spalle silenzioso come un puma.
"Hai fatto un buon lavoro fratello" disse
Alfio schizzò come una pisciata per lo spavento.
"Cazzo Merlo, vuoi farmi crepare proprio oggi?"
"Ti farò rinascere invece"
Sorrise srotolando dal domopak un panetto marrone scuro.
Il Merlo, al secolo Guido Fonti, era membro costituente del Gruppo Storico con il ruolo di fornitore di cannabis e suoi derivati. Il padre aveva militato nell'arma e grazie alle sue conoscenze il figlio intrecciava storie con tutti gli spacciatori della zona.
"Non sarà albanese, lo sai che ci pisciano dentro" Alfio lo annusò.
Il Merlo lo guardò piccato, offeso nella sua professionalità.
"Questi sono cento grammi di Purple Haze, volati in businnes class direttamente da Amsterdam"
"A quanto?"
"Per te dieci Euro , lo puoi rivendere a venti e l'affare è fatto"
Tolti trenta grammi per lui e quelli del gruppo, con il resto poteva ripagarsi il sabba.
"Grazie Merlo sei un amico, stasera ci divertiremo" sorrise Alfio intascandosi il ciocco.


Alle cinque del mattino, il grosso del gregge se n'era tornato all'ovile. Qualche caduto sul campo ronfava inerte sul pavimento in un sonno drogato e senza sogni. La commemorazione era stata celebrata con tutti i crismi dovuti. La crisalide del vecchio studente fuori corso, peso impunito per la società, si era schiusa per dar luce ad una farfalla di ingegnere, pronta ad impollinare i fiori di un radioso futuro borghese. Alfio era all'ultimo atto della sua metamorfosi. Nella camera imbottita di tappeti e cuscini insieme ai superstiti del gruppo, stava tirando profonde boccate da un chilom caricato come una vecchia spingarda. Ad ogni inalazione, un senso di pace profonda gli si espandeva a livello sinaptico. La semplicità di quel gesto antico di secoli sembrava aver fermato il tempo. Sentiva lo scorrere della storia accomunarlo a uomini e civiltà scomparse sotto la sabbia dei deserti. Si guardò intorno con occhi cremisi. Stavano distesi in un silenzio mistico, cullati dal crepitio discreto dell'hashisc che bruciava nelle pipe. Erano la reincarnazione di saggi dervishi, credette addirittura di sentire il lontano richiamo alla preghiera di quegli antichi sacerdoti. La pedata schiantò la porta con la stessa facilità con cui troncò il suo futuro. Gli uomini della Digos entrarono a pistole spianate, un esercito al completo. Ci mise un po' a capire. All'inizio credette che fosse un effetto collaterale del fumo avariato, finchè un appuntato non lo afferrò per i capelli e gli sbattè la faccia contro il muro. Violenza chiama violenza. Fu un istinto primordiale a far scattare il suo gomito verso la faccia dell'uomo. Sentì gli incisivi della legge spezzarsi prima che una manganellata gli sfondasse la nuca.


"MAMMA"
Fu la prima parola che riuscì a dire, non appena riprese conoscenza all'ospedale. Un richiamo biologico, l'impulso di ritornare al sicuro nel suo ventre. Quando riaprì gli occhi pesti, l'unica mamma a disposizione aveva la faccia di un carabiniere di piantone alla sua stanza. Cercò di sollevare la testa. Un chiodo nero di dolore gliela piantò sul cuscino. L'avevano pestato in ogni angolo del corpo con una dedizione da miniatore benedettino.
"Sei nella merda delinquente" disse il carabiniere.
Doveva avere la sua età, anche se con la divisa e il pizzetto d'ordinanza sembrava almeno di dieci anni più vecchio, e molto più stronzo. Ricordò di aver spaccato la faccia ad un suo compare. Picchiarne uno era come picchiare l'intera arma, scopare la moglie di uno era come portarsi a letto tutta la benemerita, un corpo unico ed indivisibile, e quel tizio che lo stava fissando sbavava come un lupo per la voglia di fargliela pagare. Quando la sera successiva sua madre varcò la porta della camera, scortata da due agenti, si pentì di averla invocata. La faccia scavata dal dolore, gli occhi arrossati di pianto, erano le immagini ancestrali della sofferenza di tutte le madri del mondo. Il senso di colpa che gli lasciò dentro sarebbe stato sufficiente ad annientare un plotone d'esecuzione. Suo padre dietro di lei non disse nulla, come aveva sempre fatto del resto, lo ringraziò. Solo Sara sembrava felice di vederlo. Lei riusciva a trovare il meglio anche nel peggio. Sarebbe stata in grado di scovare una pallina di caviale in un fiume di merda.
"Che scemo" gli sussurrò baciandolo sulle labbra.
Passò una settimana.

Dopo averlo rattoppato alla meglio, un giorno, lo portarono via in un cellulare blu con tanto di sirena ululante. Tre carabinieri di scorta gli stettero appiccicati tutto il tempo. Cominciò a pensare di essere un pericoloso tagliagole, forse c'era un mostro in lui e non se ne era mai accorto.
Fu nell'ufficio matricola, quando lo fotografarono e un dottore gli infilò un dito tra le chiappe, che capì che era tutto dolorosamente vero. Fuori il sole stava tramontando. Di solito a quell'ora era in centro a far lo struscio, a voltarsi dietro i culi delle ragazze che passavano, a rompersi le palle per quella vita sempre uguale. Libertà, dignità, non aveva mai pensato che un giorno si sarebbe trovato a far i conti con loro. Non si era mai accorto di averle, e adesso, tra le mura e lungo i corridoi del sesto raggio la loro assenza gli pesava come una pietra tombale. In un mese i giudici lo incarcerarono per tre anni, perché una sera di un passato che non riusciva più ad immaginare, aveva deciso di farsi uno spinello invece di un whisky.


Lo sgabello traballava sotto i suoi piedi. Doveva farlo prima che gli altri tornassero dall'ora d'aria.
"Mi chiamo Alfio" pensò, come a portarsi dietro quella memoria. Guardò di nuovo la ragazza sul muro. Sorrideva con le cosce spalancate, sorrideva sempre lei.
"Sto per morire stronza"
Diede un calcio allo sgabello e si impiccò. Il collo non si spezzò subito. Lui non poteva saperlo ma l'impiccagione era una scienza esatta. Esigeva un occhio attento in grado di valutare il peso, lo spessore dei muscoli del collo, l'altezza di caduta e la resistenza della corda. Il cappio si strinse attorno alla trachea. La lingua gli uscì di bocca torcendosi come un verme e le orecchie incominciarono a sanguinare, poi ebbe la sensazione di precipitare da qualche parte, giù con tutto il mondo che lo seguiva.


I telegiornali diedero la notizia in edizione straordinaria. Un terremoto, almeno un settimo grado della scala Richter aveva devastato mezza Italia, centinaia le vittime e interi paesi rasi al suolo. L'epicentro fu individuato ai piedi delle Alpi, dove nasceva il Po. Qualcuno pensò ad un attentato secessionista, ma la Lega smentì. Il Vaticano dichiarò che Dio lassù si era incazzato ed esortò la gente ad andare a messa, a smettere di usare gli anticoncezionali e a destinare l'otto per mille per la ricostruzione delle chiese. Da qualche altra parte, qualcun altro iniziò a fare i conti. Erano passati vent'anni dall' Irpinia e le borse ormai piangevano. Il paese era frastornato, il governo pure, ma in nome del popolo sovrano avrebbe tirato avanti con un "Ghè pense mì", e tutto si sarebbe sistemato.


Alfio tossì. La polvere gli riempiva la bocca. Provò a muoversi, ma un dolore acuto gli partì dalle unghie dei piedi e fece capolinea alla radice dei capelli.
Buio.
Tossì di nuovo.
Se quella era la morte, era peggiore di quanto avesse mai immaginato. Sentiva un male atroce dappertutto. Dov'era il nulla? Fu l'ululato di una sirena a risolverlo da quei dubbi. Sbirri anche all'inferno? Impossibile. Provò di nuovo a muovere le braccia. Riuscì a sentire con le dita dei pezzi di muro, e qualcosa che sembrava una trave. Non era morto ma sepolto sotto l'intera prigione. Cosa ci faceva lì? Ricordava soltanto che stava penzolando col lenzuolo attorno al collo. Diede una spinta con le gambe alle macerie che lo bloccavano. Una pioggia di calcinacci gli cadde addosso. Fece lo stesso con le mani e un raggio di luce filtrò nel buio. Prese a scavare come una talpa ignorando il dolore e in pochi minuti si trovò fuori. La prigione non c'era più. Le mura di cemento con sopra il filo spinato, scomparse. Solo rovine tutto intorno. Alcuni pompieri stavano già scavando. Carabinieri e soldati giravano come fantasmi in cerca di un segno di vita. Si accucciò.
"Sono libero" pensò esultante "libero".
Rotolò fra quel che restava del sesto raggio strisciando fino ad un fosso. Non c'era un centimetro del suo corpo che non fosse massacrato, ma si reggeva in piedi. Mosse i primi passi lentamente. Le gambe sembravano indecise all'inizio poi si convinsero che dovevano correre. Lo fecero per quasi due ore senza mai smettere, tra i campi arati di fresco, fossi e pantani. Era quasi notte quando si fermò sotto un cavalcavia. Crollò sul pilastro di cemento, senza fiato, trovandolo incredibilmente morbido.
"Non ce la farò mai" disse a se stesso.
Non sapeva dove andare e da chi, ma quando alzò gli occhi davanti a sé, gli apparve. Evidente, violenta, la verità.
DIO C'E'.
La scritta di vernice rossa brillava sul grigio del cemento. Ne aveva viste tante in giro, dipinte sui cartelli, sui muri di vecchie case cantoniere, sotto le gallerie, sempre ridendone, ma questa suonava diversa. Giustizia Divina, certo. Solo Dio poteva giudicarlo rettamente, ridargli la libertà e aveva rimediato all'errore degli uomini radendo al suolo mezza Italia.
"Cazzo se c'è" borbottò.
Si fece il segno della croce, per la prima volta dopo tanti anni, si alzò e ricominciò a correre.

© Giorgio Maggi





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