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La ragazza dal vestito rosso
di Gordiano Lupi
Pubblicato su PBSE2007


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Ero un bambino che frequentava la scuola elementare quando mio nonno mi raccontava una storia accaduta a Piombino parecchi anni fa, una strana avventura che sembrava un sogno e che io ho sempre immaginato come una leggenda metropolitana. E adesso bisogna che ve la racconti, per esorcizzare le mie paure di ragazzino e per fare un tuffo nel passato. Bene o male è pur sempre una leggenda.

È una notte di pioggia nel quartiere vicino al mare della città industriale, l’unico posto dove il sabato sera si può andare a ballare perché c’è un locale frequentato dai giovani. La serata è appena terminata e Lucia deve tornare alla città vecchia, se ne sta seduta sotto una pensilina e attende la corriera, si è inzuppata da capo a piedi per arrivare sin là, vestita con l’abito rosso dei giorni di festa. Ripensa alla serata insieme agli amici, alle danze, ai ragazzi che ha conosciuto, sorride tra sé, pure se la pioggia la infastidisce. Purtroppo è sola. Nessuno poteva accompagnarla a casa. Neppure quel ragazzo che le piaceva tanto. Ci ha ballato stretta tutta la sera ma alla fine ha dovuto salutarlo. Che peccato…
“Pazienza… A casa c’è mia madre che attende” sospira.
Il padre di Lucia è morto da qualche anno e non ha avuto il tempo di vederla diventare donna. Adesso lei ha quindici anni e i giovanotti si girano a guardarla passare per strada, anche se non è molto alta, possiede lunghi capelli biondi che scendono lungo le spalle, occhi verdi penetranti e il suo corpo sta maturando in fretta.
La pioggia continua a cadere.
“Che serata maledetta! Il mio vestito nuovo è da gettare… Chi la sente la mamma quando arrivo a casa!” pensa Lucia, bagnata e infreddolita.
In quel momento un auto con a bordo quattro ragazzi si ferma davanti alla pensilina della corriera. Il conducente abbassa il finestrino.
“Cosa ci fa una bella ragazza come te in questo posto?” chiede.
“Non hai paura di fare brutti incontri?” dice il ragazzo accanto.
“Forse il brutto incontro siamo noi…” aggiunge un altro.
I tre ragazzi tornano da una serata di baldoria, sono ubriachi, i loro occhi riflettono una strana luce. Lucia ha paura. È sola e in quella notte di pioggia non c’è nessuno che può aiutarla. Non serve a niente neppure gridare.
“Facci vedere cosa c’è sotto quel vestito!” grida il ragazzo che guida l’auto, quello che sembra il capo del gruppo, il più pericoloso.
“Buona idea” fa un altro.
I ragazzi escono dall’auto minacciosi e si avvicinano a Lucia. Lei li osserva impaurita e quei volti restano impressi nella sua mente. L’autista è un tipo tarchiato con una cicatrice sul viso che ne deturpa i lineamenti. Il ragazzo che siede accanto è un biondo con i capelli corti e lo sguardo inquietante. Il terzo invece è un tipo ben vestito dal cranio completamente rasato. Il quarto, che non ha ancora parlato, pare diverso dal resto del gruppo, ha uno sguardo dolce e non sembra un tipo da rissa o un frequentatore di locali malfamati.
L’autista afferra Lucia, la stringe forte a sé e tenta di baciarla. Lei sente il suo alito fetido e quella puzza di alcol la fa quasi vomitare.
“Lasciami…” supplica.
“Altrimenti che cosa mi fai?” provoca beffardo l’aggressore.
Lucia sa che non può fare niente. È in balia di quei balordi.
Per fortuna il ragazzo che fino a quel momento è rimasto in silenzio interviene in sua difesa.
“Gianni, lasciala stare. Non metterti nei guai. Può vederci qualcuno”.
“Ci siamo solo noi. Non fare il fifone, Paolo. Dobbiamo divertirci”.
Lucia guarda il ragazzo con occhi imploranti.
Solo lui può fare qualcosa.
Gianni trascina Lucia verso l’auto. Paolo capisce che deve agire. Non resta altro da fare. Non può essere complice di una violenza carnale. Senza pensarci troppo si getta su Gianni e lo afferra per le spalle, lui è meravigliato, non sa che cosa fare. Lucia si divincola dalla presa e cade a terra sotto la pioggia. Paolo agisce di nuovo e colpisce Gianni con un pugno al volto. Non vuole finire in galera insieme a tre balordi compagni d’una notte brava. Gianni cade al suolo colpito dal pugno e finisce nell’acqua stagnante d’una pozzanghera. Gli altri due osservano la scena allibiti e immobili come statue di sale, sono incapaci di dire soltanto una parola.
Per fortuna che in quel momento arriva la corriera, l’ultima corsa prima del nuovo giorno, quella che porta verso la città vecchia i ritardatari della notte. Paolo aiuta Lucia ad alzarsi da terra, si toglie il cappotto e copre il suo vestito rosso intriso di pioggia.
“Ti accompagno a casa” le fa.
Paolo stringe forte la mano di Lucia e insieme a lei sale sulla corriera.
Quando l’autobus si muove si lascia alle spalle una scena comica.
Gianni si alza da terra bagnato e indolenzito, manda al diavolo i suoi compari e grida frasi di vendetta verso Paolo.
Una notte di burrasca accompagna il breve tragitto della corriera e i due ragazzi hanno il tempo di scambiare solo poche parole.
“Non so come ringraziarti” dice Lucia in prossimità della fermata. Sorride e si toglie il cappotto. Lo porge a Paolo.
“Questo è tuo” conclude.
Un sorriso di Paolo è la risposta più bella. Almeno per lei. Almeno in questo momento. Non lo cambierebbe per niente al mondo.
“Puoi tenerlo. Vuol dire che così avrò un motivo per rivederti”.
“Quella è la mia casa” fa Lucia.
Paolo vede una piccola casa in muratura, le persiane divelte, il tetto malandato, intorno c’è un giardino incolto. In lontananza si scorge il piccolo porto della città vecchia, gabbiani che volano, barche attraccate alla piccola rada dei pescatori. Il fascino della borgata di mare racchiude i misteri del passato. Lucia si allontana nella notte. Una porta si chiude alle sue spalle. Paolo sa solo che deve rivederla.

Il giorno dopo Paolo prende la sua auto e torna nella città vecchia che i piombinesi chiamano Trastevere. Ricorda dove abita Lucia, la sua casa malandata la riconoscerebbe tra mille, affacciata sulla Marina in un luogo stupendo che scopre le isole del canale e i tramonti rosso fuoco sull’Isola d’Elba. Bussa alla porta. Davanti a lui si presenta una vecchia signora ricurva con i capelli bianchi e increspati.
“Vorrei parlare con Lucia. Sono un amico” dice Paolo.
La vecchia lo fissa a lungo, esterrefatta.
“Lucia?” chiede.
Paolo non comprende il motivo di tanta meraviglia. Ha chiesto di vedere una ragazza che forse è sua figlia. Non gli sembra di aver detto niente di così strano. La vecchia continua a guardare Paolo negli occhi, poi lo invita a entrare in casa e gli offre un caffè. Il ragazzo siede su un vecchio divano polveroso e stringe forte la sua tazza di caffè nero fatto con la moka, un caffè da povera gente, come profuma di povertà ogni angolo di quella casa. Sorseggia piano e vede intorno la decadenza d’un misero ambiente dove la donna sembra vivere sola.
“Caro ragazzo, quella è Lucia…” dice la donna. E indica una vecchia foto affissa alla parete. Lacrime di pianto rigano il suo volto rugoso.
Paolo alza gli occhi meravigliato. La donna del quadro è proprio Lucia, indossa il vestito rosso della sera precedente, ha la stessa pettinatura, capelli biondi e occhi verdi, profondi e penetranti.
“Lucia era mia figlia, la mia unica figlia. Morì a quindici anni, la sera del suo compleanno. Tornava da una festa quando venne aggredita da tre ragazzi ubriachi che la violentarono e la uccisero. Quando me la fecero vedere all’obitorio avrei voluto morire anch’io. Non la riconoscevo più, povera bambina. Di lei mi resta solo quella foto e la sua tomba che ho fatto costruire dietro la casa”. La donna piange. Ricordare le fa male. Rinnova un dolore troppo grande. Incancellabile.
Paolo non comprende. Non può credere a ciò che la vecchia sta dicendo. Quella ragazza che ha conosciuto e salvato la sera prima era morta trent’anni fa in un episodio simile a quello del loro incontro.
“Venga in giardino con me, giovanotto” dice la vecchia.
Paolo la segue sul retro della povera casa. Pensa che chiamare giardino quel cortile polveroso pieno di sterpi ed erbaccia è davvero eccessivo, però la prima cosa che vede è quella tomba interrata con sopra una croce di legno. Una tomba fuori dal cimitero è una cosa proibita dalla legge, forse la salma della ragazza è stata trafugata da qualcuno e consegnata alla madre che ha pagato per avere vicina la sua bambina, per poterla vedere ogni giorno. Paolo si avvicina alla lapide e il suo cuore pulsa con insistenza mentre non crede a quello che vede. Pure la madre di Lucia sembra sorpresa. C’è qualcosa di insolito sopra la tomba, su quel lembo di terra che copre il corpo della figlia. Lucia sorride dalla foto e indossa il vestito rosso dei suoi quindici anni, ma in terra, appoggiato ai piedi della croce, c’è un cappotto che copre i fiori di campo e l’erbaccia che nasce intorno.
Paolo incrocia lo sguardo della madre. Indica il cappotto.
“Ero venuto per riprendere quello” dice.
La vecchia non comprende. Lei non sa niente di quello che è accaduto la sera prima. Sa solo che quel cappotto non è di sua figlia.
“Penso che lo lascerò qui. Forse a lei può ancora servire” conclude.
Paolo fa un rapido segno di croce, mormora qualche preghiera, saluta la vecchia e si tuffa nel gelido mattino d’inverno con la testa colma di pensieri. Il mare in lontananza è il freddo ritrovo di vecchi gabbiani e paranze di pescatori dai volti scolpiti dal salmastro. Paolo non prova neppure a spiegarsi ciò che gli è capitato, sa solo che deve affogare il ricordo di Lucia nel vino rosso delle bettole di Marina. Ce ne sono tante nella città vecchia e mai come quella mattina ne sente il bisogno. Un giorno Paolo racconterà questa storia come un sogno, uno stupido vecchio sogno dopo una notte di sbronza passata con gli amici.

Ogni tanto capita che ci penso a questa storia e mi chiedo quanto ci sia di vero. Mio nonno la raccontava proprio come un sogno e io ho sempre sospettato che Paolo fosse lui, che Lucia fosse un suo ricordo di gioventù. Si commuoveva troppo quando descriveva il suo vestito, lo stupore della nonna, la tomba nel giardino. E poi chissà perché ma mio nonno non ha mai voluto indossare un cappotto. “L’inverno è mite in riva al mare” diceva. A lui bastava una giacchetta. Quando passavamo per la Marina andava a bere acqua fresca ai Canali e ogni tanto scompariva. Io lo sapevo che andava a cercare per i vicoli della città vecchia un giardino dissestato e una piccola casa in muratura con le persiane cadenti. Non l’ha mai trovata. Adesso il segreto se l’è portato via con sé, povero nonno. Ma la sua voglia di raccontare storie è rimasta qui con me. Sono io che gliel’ho rubata catturando un sorriso dal suo letto di morte.

© Gordiano Lupi





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