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La finale ai rigori
di Alessandro Abate
Pubblicato su PBSE2007


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LA FINALE AI RIGORI



-Amir! Tiri tu adesso, vai! - Gaetano Licodia stava in piedi davanti alla panchina e aveva appena scelto il primo rigorista ad oltranza, incoraggiandolo con lo sguardo e con il tono della voce. I giocatori erano seduti vicino al cerchio di centrocampo e l’ordine dell’allenatore fu accolto con sorpresa dal capitano dell’Excelsior, che replicò: - No! Fallo tirare a Gianni, ce l’hanno troppo su con Amir, lo faranno innervosire e finirà per sbagliarlo…
-Proprio per quello: lo tira lui! Ce la farà. Dai, vai e mettila dentro, Amir! - Disse deciso e perentorio Licodia.
Amir si alzò in piedi e guardò il suo allenatore con aria interdetta. –Cosa aspetti? Dai, ce la fai, lo so, e anche tu lo sai! - Licodia riprese a incoraggiarlo a pugni chiusi, aveva sempre creduto in lui.
Quella finale tra i Padania’s warriors e l’Excelsior sembrava non volerne sapere di finire. I tempi regolamentari si erano conclusi sullo zero a zero, i supplementari non avevano sbloccato la situazione, e le due squadre, esaurita la serie dei cinque rigori, si trovavano sul quattro a quattro. Floriani, il portiere dell’Excelsior, aveva appena parato il primo rigore ad oltranza e la sua squadra aveva a disposizione il colpo del ko. Tutto dipendeva da Amir.
Il torneo “Speranze” si disputava tutti gli anni nel mese di maggio ed era seguito da osservatori e talent scout di molte squadre, anche delle serie maggiori. La partita era stata molto equilibrata. Tecnicamente l’Excelsior era superiore, giocava bene, divertiva e aveva delle individualità di spicco, come Badou, marocchino, l’uomo d’ordine a metà campo, Rigobert, fantasista, dal dribbling ubriacante, venuto dal Senegal, che faceva coppia in avanti con Amir, da cui ora dipendeva l’esito del match. Ma i Padania’s warriors erano una squadra scorbutica e coriacea, di quelle abituate a battagliare a testa bassa senza esclusione di colpi per poi andare a vincere con una giocata sporca su un rimpallo o con un gol di rapina in mischia. Dennis Boaron, il portiere, non altissimo ma comunque fisicamente molto robusto, dirigeva con piglio e autorità la squadra e si sentiva sempre sicuro di sé, spesso e volentieri troppo. In difesa Leone Curati, tarchiato e muscoloso, era una sorta di baluardo insuperabile, giocava di posizione e si occupava di curare, tenendo fede al suo cognome, l’uomo più pericoloso degli avversari. I due giocavano insieme da anni, avevano militato nella squadra della parrocchia e non era la prima volta che incontravano Amir. Veniva dalla ex Jugoslavia Amir, aveva sedici anni; era di due anni più giovane della coppia dei warriors. Era stato maltrattato e randellato per tutta la partita ed era stato bravo ad ascoltare le urla di Licodia, che a più riprese gli aveva intimato di non reagire. Curati lo infastidiva continuamente con falli che non si vedono ma si sentono eccome sulle caviglie. Ma non si faceva sentire solo con i falli, Curati. “Ti rompo, sporco zingaraccio”, gli aveva detto a busto eretto e alitandogli sul naso mentre lo cinturava in area prima della battuta di un corner. Quando poi Amir non aveva agganciato un pallone, Curati aveva spazzato via la palla vigorosamente andando volontariamente a urtare con i tacchetti sul ginocchio di Amir: “Torna sotto le bombe, slavo di merda” l’aveva apostrofato in quella circostanza. Amir non reagiva e non rispondeva; del resto non parlava quasi mai, nemmeno a scuola, dove i compagni lo isolavano e si guardavano bene dal coinvolgerlo in attività comuni o dall’invitarlo alle feste. I rampolli dell’alta borghesia clericale, e in classe sua ce n’erano, lo snobbavano impietosamente: erano stati i loro genitori a raccomandare loro di tenersi alla larga da zingari e criminali di guerra. I più scafati e sboccati lo sbeffeggiavano e lo aspettavano fuori da scuola per minacciarlo e spintonarlo contro il muro. Amir rimaneva silenzioso. Stentava a parlare anche quando veniva interrogato e più di una volta aveva fatto scena muta. Nemmeno in squadra parlava. Andava agli allenamenti ma parlava il minimo indispensabile. Riusciva ad andare oltre i saluti solo con gli altri due extracomunitari dell’Excelsior, Rigobert e Badou. E con Licodia. Lui lo capiva. In fondo era straniero anche lui. Non era stato facile arrivare in un paese della Padania dal profondo Sud per insegnare in un istituto tecnico popolato da ragazzetti aggressivi, volgari e ribelli, specie nei confronti di un terrone che secondo loro non poteva permettersi di comandarli. Ma Licodia amava profondamente il calcio e ci si dedicava anima e corpo nel tempo libero. Aveva circa quarant’anni, in gioventù aveva giocato, sui campi privi di erba della Sicilia. Era leale e anche un po’ idealista. Credeva nel gioco, nei suoi uomini più che negli schemi. Sapeva valorizzare e motivare tutti i suoi giocatori. Riusciva sempre a trovare una parola di elogio o di conforto per ognuno. Gli piaceva fare l’allenatore. E aveva deciso di far tirare quello che poteva essere l’ultimo rigore ad Amir. Aveva fatto fare ai suoi ragazzi degli allenamenti specifici sui rigori, considerando la possibilità che nel corso del torneo capitasse di doversela giocare dagli undici metri. Nel girone l’Excelsior aveva ottenuto due vittorie e un pareggio, nelle tre partite ad eliminazione diretta aveva vinto sempre nei tempi regolamentari, convincendo sul piano del gioco; i warriors invece andavano ai rigori per la seconda volta: in semifinale erano riusciti a passare solo dagli undici metri. E si sentivano sicuri di potercela fare di nuovo. Del resto giocavano in casa: quell’anno s’era deciso di disputare la finale proprio a Borgopiano, il paese da cui provenivano quasi tutti i warriors. Inoltre, la finale precedeva di una settimana le elezioni comunali, che quasi sicuramente sarebbero state vinte dalla Casa delle Libertà, il cui candidato numero uno era Marino Vaccaro, avvocato trentatreenne, iscritto nelle liste di Forza Italia nonché, a tempo più o meno perso, allenatore dei Padania’s warriors. Suo padre, Bruno Vaccaro, era il padrone dell’Agricop, la più grossa azienda agricola della provincia ed era considerato un autentico boss che incuteva timore e rispetto. Aveva finanziato con ingenti mezzi la campagna elettorale della coalizione di centro-destra e l’Agricop era anche lo sponsor dei warriors. Sentendosi sicuro della vittoria elettorale, Marino aveva caricato i suoi giocatori infondendo voglia di vincere e un’aggressività crescente mano a mano che il torneo si avvicinava alla fase cruciale e la squadra andava avanti, benché con colpi di fortuna e senza convincere troppo. “Ragazzi, l’importante è metterla dentro, dobbiamo arrivare in finale e vincere, non importa come. Abbiamo già vinto l’anno scorso, conta chi si porta a casa la coppa, non chi fa le giocate di fino che non servono a un cazzo! Se qui c’è qualcuno che la pensa come quel terrone di merda di Licodia, è meglio che si tolga dai coglioni subito.” Così catechizzava i suoi Marino Vaccaro prima di ogni allenamento. Ci teneva a ottenere il massimo dai suoi, a modo suo. “Michele, tu ti prendi Rigobert, lascialo correre per tutto il campo che dopo un tempo si spompa, aspettalo al limite dell’area e vedrai che arrivato ai sedici metri si dribbla da solo. Leone, tu sai già tutto. Ma questa volta ti chiedo di più: quello slavo di merda lo voglio vedere morto, chiaro?” si fermò guardando severo tutta la squadra. “Comincia da subito a fargli qualche fallo dei tuoi a metà campo.-proseguì con fare più discorsivo. “Tu- si rivolse nuovamente a Curati, guardandolo negli occhi perentorio- “sei uno che in questi casi ci sa fare, ti lascio carta bianca per fermarlo, non ha un fisico che gli permette di reggere il confronto a lungo, se lo randelli bene può anche non finire la partita. Leone, curalo tu! E quando si va su, giocate su Rino, che sa bene come è fatto un gol, vero?” l’ultima parola la pronunciò alzando la voce con tono quasi intimidatorio all’indirizzo del suo uomo di punta, un uomo d’area assai opportunista che aveva risolto più di un match in bilico. Così si espresse Marino Vaccaro negli spogliatoi prima della finale. E mentre le squadre facevano l’ingresso in campo Marino si avvicinò a Dennis Boaron sussurrandogli: “Se ti fai valere e lasci il segno sulla vittoria ti faccio entrare nell’Agricop, ti metto a dirigere i braccianti negri” e gli dette una pacca sulle natiche lasciandolo proseguire verso il centro del campo. Quel ruolo lo ricopriva proprio Marino, sia pure ad interim e molto saltuariamente. Aveva abbandonato gli studi, Dennis: alla terza bocciatura in seconda ragioneria aveva deciso di mettersi a lavorare ed era diventato un manovale senza arte né parte, provando a volte invidia nei confronti del fratello carabiniere. Una promessa simile chiaramente lo lusingava e il pensiero di quell’offerta di lavoro lo caricava, prima del fischio di inizio e quando saltellava sulla linea di porta cercando di capire chi si sarebbe incaricato di quello che poteva essere l’ultimo rigore. Quando vide che si alzò Amir si sentì ancora più sicuro: cazzo, glielo paro, ma alla grande, dove crede di andare quel profugo? Pensava Dennis con il petto in fuori e le spalle alte. Si ricordò di una partita giocata in parrocchia in cui era uscito due volte a valanga proprio su Amir, esaltandosi e salvando la sua porta. Non riuscirà mai a farmi gol! Diceva tra sé assumendo un aspetto sempre più spavaldo e squadrando Amir che lentamente iniziava ad avviarsi verso il dischetto del rigore. Amir incrociò Leone Curati che tornava a testa bassa verso il cerchio di centrocampo. Non si guardarono nemmeno in faccia. Leone aveva appena sbagliato il suo rigore, il secondo di quella finale, aveva tirato una botta violenta ma molto centrale, e Floriani era rimasto fermo ed era riuscito a respingere il tiro. Comunque Vaccaro gli aveva promesso che l’avrebbe nominato contabile dell’Agricop, comunque fosse finito l’anno scolastico (Curati stava finendo l’ultimo anno di ragioneria e di lì a poco avrebbe dovuto sostenere l’esame di maturità).
Luca Rossetti, l’arbitro dell’incontro, attendeva con il pallone in mano di fianco al dischetto del rigore l’arrivo del rigorista prescelto. Proprio lui avrebbe liberato il posto a favore di Curati: una volta eletto, Marino l’avrebbe nominato assessore allo sport; così finalmente Rossetti avrebbe potuto coronare il sogno che inseguiva da tempo e arrivarci poco dopo i trent’anni non era affatto male.
“Mi conviene agevolarli” si disse più volte Rossetti teso in volto negli istanti immediatamente precedenti il calcio d’inizio. In effetti certe decisioni nel corso della partita erano parse quantomeno dubbie. Rossetti aveva sorvolato su un fallo da rigore di Curati su Amir, apparso ai più netto e da ammonizione, l’arbitro invece aveva estratto il giallo nei confronti di Amir, colpevole a suo modo di vedere di simulazione; successivamente Curati aveva steso Amir con una brutta entrata, dritta sulle gambe, meritevole del giallo. Rossetti aveva solo fischiato la punizione, tra le proteste di quelli dell’Excelsior. Aveva ammonito nella circostanza il loro capitano, reo di aver protestato troppo vivacemente. Ma l’episodio più grave era avvenuto a metà del secondo tempo supplementare quando il contabile aspirante assessore aveva fischiato senza esitazioni un rigore a favore dei warriors: Rino era stato contrato in tackle dal libero dell’Excelsior subito fuori l’area piccola, il pallone aveva cambiato direzione ed era finito in corner: l’attaccante dei warriors si era lasciato cadere cacciando un urlo e buttandosi a peso morto sulle gambe del difensore avversario, cadendo di conseguenza. Tutta la squadra dei warriors aveva reclamato la massima punizione ed era stata accontentata all’istante, Rossetti aveva fischiato indicando il dischetto del rigore. L’ Excelsior era insorto in massa.
“Inutile protestare, il fallo c’era tutto, l’hai messo giù, ho fischiato” aveva sentenziato Rossetti indicando il fischietto. “Ma se si è buttato, arbitro, per favore, sia serio!” aveva allargato le braccia Floriani, congiungendo poi le mani e agitandole avanti e indietro. “Se parli ancora ti butto fuori, chiaro?” si era inalberato l’arbitro, divenendo autoritariamente rigido e inflessibile. Si era incaricato del tiro Leone Curati: un siluro dritto sul portiere, quasi a volerlo abbattere. Floriani era riuscito a respingere il tiro. Si era levato un boato sulla panchina dell’Excelsior, lo stesso Licodia s’era lasciato andare a un urlo di gioia incontenibile. La palla nel frattempo era uscita in fallo laterale. Tutta la squadra aveva sommerso d’abbracci Floriani, con le mani ancora doloranti per l’eroica respinta; era come aver segnato un gol per i ragazzi dell’Excelsior, che nel corso del match avevano mancato un paio di occasioni importanti per portarsi in vantaggio. Poco dopo l’arbitro aveva fischiato la fine. Rigori.
Amir stava per entrare in area e ricevere il pallone dall’arbitro. Il pubblico, che gremiva il piccolo stadio comunale, era pressoché tutto a favore dei warriors, i supporters dell’Excelsior erano piuttosto pochi e disseminati qua e là. Tra questi in tribuna c’era Nenad, il padre di Amir. Era quasi coetaneo di Licodia e anche lui aveva giocato, in Jugoslavia, quando ancora si chiamava così. Erano ormai quattro anni che viveva in Val Padana: la famiglia Sikanovic era fuggita durante i bombardamenti della Nato. Avevano perso tutto, a cominciare dalla casa. Non era stato per nulla facile l’inserimento in Italia. Nenad guardava Amir che si apprestava a collocare il pallone sul dischetto; era in preda all’emozione ma si controllava; aveva dovuto imparare a farlo, in Italia. Gli balenò un ricordo: gli venne in mente una partita giocata sotto la neve in Kosovo, si ricordò di quando salvò sulla linea un gol fatto a due minuti dalla fine, dopo che la sua squadra aveva appena raggiunto il pareggio. Si augurava che ora fosse suo figlio a compiere un’impresa simile, trasformando quel rigore. Aveva messo da parte le umiliazioni e le frustrazioni subite in quegli ultimi anni. Si era momentaneamente dimenticato delle difficoltà di arrivare alla fine del mese, del fatto che lui, laureato in medicina nella sua terra e con un lavoro sicuro, fino a quei bombardamenti, avesse dovuto rassegnarsi a fare il barista in discoteca prima e l’addetto alle pulizie poi, dopo che la discoteca l’aveva gentilmente scaricato, da un giorno all’altro. Anche Ljubica, sua moglie, che in Jugoslavia faceva l’insegnante, aveva subito frustranti rifiuti lavorativi e si arrangiava come poteva tra un bar e una pizzeria. E quel sabato pomeriggio le negarono il permesso e non poté andare a vedere la finale. Ma in quel momento Nenad era concentrato solo su Amir e su quegli undici metri che lo separavano dalla vittoria finale. Si sforzava di essere ottimista, nella sua mente. Ma c’era una persona che non poteva assolutamente dimenticare, nemmeno in quel momento di estrema concentrazione sul tiro dagli undici metri: Dušan, il suo secondogenito. Avrebbe tanto voluto che fosse lì al suo fianco a vedere la partita. Ma da un anno non c’era più.
“Arrestarlo, metterlo subito in carcere, ha sparato per ammazzare!” parole che Nenad aveva pronunciato davanti a quelle che definiva le autorità e che non avrebbe mai dimenticato. Circa un anno prima Dušan era un ragazzino di undici anni che amava correre e divertirsi all’aperto. Un pomeriggio stava andando con un amichetto al campo di calcio. I due correvano, i loro amici li aspettavano e loro erano in ritardo. Negli immediati paraggi una signora aveva telefonato ai carabinieri per segnalare un furto d’appartamento: era riuscita a vedere due bambini zingari fuggire dopo aver scavalcato il cancello dell’abitazione. Il caso volle che i carabinieri arrivassero sul posto proprio nel momento in cui Dušan e il suo amico correvano verso il loro campo da calcio: la descrizione della donna li indusse a ritenere che gli autori del misfatto fossero loro e si precipitarono all’inseguimento intimando loro di fermarsi. Istintivamente, si misero a correre anche loro ma la fuga non durò a lungo in quanto i due carabinieri li raggiunsero e, minacciandoli con la pistola, li costrinsero a fermarsi. Li afferrarono per immobilizzarli. Dušan cominciò a gridare disperato. Cominciò a graffiare il carabiniere, che passò a minacce serie, tenendolo fermo con il braccio sinistro avvinghiato al collo e puntandogli la pistola sulla fronte con la mano destra. Dušan urlò ancora di più. Il carabiniere era molto giovane, sentiva che la situazione stava sfuggendogli di mano. Dušan aprì la bocca e addentò con tutta la forza che aveva tre dita della mano sinistra del gendarme: fu l’ultimo sforzo compiuto dal figlio di Nenad, perché il carabiniere lasciò partire un colpo dalla sua pistola d’ordinanza, lo sparo perforò il cervello di Dušan.
“Il colpo è partito accidentalmente; mordere la gente è da selvaggi, ma come ha educato suo figlio? Forse dalle vostre parti si fa così…” Non poteva permettersi un avvocato, Nenad.
“E ringrazia che non vi buttiamo fuori dall’Italia…” queste furono le risposte che ottenne Nenad quando andò alla ricerca di giustizia. Una settimana dopo il triste evento Ljubica era stata licenziata dal bar dove lavorava: il padrone del bar aveva giustificato la decisione dicendole che avevano i conti in rosso e non potevano permettersi di tenerla, neanche in nero. In realtà il locale non andava male, e nel giro di quindici giorni Ljubica era stata sostituita da un’avvenente polacca. E anche Nenad perse il lavoro poco dopo: addio discoteca. E quando sentì il vicino di casa dire biecamente alla moglie dietro la porta di casa socchiusa: - beh, così avrà meno problemi a far quadrare i conti a fine mese, già fa fatica a pagare il telefono, due figli a scuola erano proprio troppi…- si sentì molto combattuto oltre che tremendamente ferito: da un lato ebbe voglia di mollare tutto e scappare chissà dove e dall’altro di prendere un’arma e giustiziare quel biecaccio del vicino. Alla fine si chiuse nel suo dolore. Non fu facile trovare un nuovo lavoro. Passò mesi di stenti e di sacrifici. Ne soffrirono tutti e tre. I soldi non bastavano. Arrivò anche qualche sporadico gesto di solidarietà. Un’insegnante di ginnastica che lavorava al centro sportivo cittadino si interessò per trovargli un impiego e fu così che iniziò a fare le pulizie tra la palestra e i campi di pallavolo. Nenad compiva il tragitto tutti i giorni in autobus, si recava dalla casa in paese al sobborgo della città in cui si trovava il centro sportivo. E ogni volta partiva con largo anticipo per fermarsi nel parco lungo il fiume. Lì si sedeva su una panchina, osservava la gente che faceva footing, i tigli in fiore e l’acqua che scorreva vorticosa. Si ricordava di quando d’estate faceva il bagno nel Danubio, assieme ai suoi amici, aveva pressappoco l’età di Dušan. Rimaneva per parecchi minuti fermo immobile, con la bocca semiaperta e lo sguardo perso nel vuoto. Non riusciva a concentrarsi su nulla in particolare. Davanti agli occhi gli balenava l’immagine di lui che correva in tuta con Dušan. Poi piangeva, in silenzio.
“Stava facendo il suo dovere, il colpo è partito accidentalmente.” A nulla servì la testimonianza dell’amico di Dušan, che riferì le ripetute ingiurie razziste che il carabiniere aveva rivolto a Dušan:
“Vuoi un colpo in testa, sporco zingaro di merda?”; “Le merde come te non dovrebbero neanche esistere”. E la pistola gliel’aveva puntata sulla fronte molto prima che Dušan cominciasse a graffiare. Ma Eros Boaron era innocente. E in ogni caso poteva contare su un avvocato d’eccezione, molto giovane ma già spregiudicato e bieco, un certo Marino Vaccaro.
“Amir, suo fratello ha ammazzato Dušan!” gridò mentalmente Nenad a suo figlio che ormai aveva deposto il pallone sul dischetto e stava per prendere la rincorsa. Dennis l’aveva aspettato a busto eretto e piedi sul dischetto: l’aveva guardato con aria sprezzante, non si mosse da lì finché l’arbitro non gli disse di andare in porta. Amir non lo guardava, pensava solo a tirare il rigore, come gli aveva urlato Licodia nel momento in cui prese in mano il pallone. “Non lo badare, pensa solo a metterla dentro, sai come fare!”
Per circa un minuto Dennis lo fissò facendogli sorrisetti ironici, poi gli disse sottovoce con un tono quanto mai arrogante: -E tu vorresti farmi gol?-
Poi, avviandosi verso la porta, si rivolse a Rossetti: -Arbitro, non so se riesce a tirare il bimbo, è troppo agitato-.
-Questo lo decido io, Boaron, rispettiamo i ruoli, grazie- rispose freddo e professionale l’arbitro.
Dennis prese a saltellare sulla linea di porta, ad agitare le braccia e ad espirare a scatti. Poi si sputò sui guantoni e batté ripetutamente le mani. Era sicuro di parare il rigore.
Amir prese la rincorsa e guardò l’arbitro, che si era messo il fischietto in bocca. Tutti gli spettatori del piccolo stadio avevano gli occhi puntati su Amir, Dennis e il pallone. I giocatori delle due squadre vivevano quegli attimi intensi e tesi nei modi più vari: chi non osava guardare, chi passeggiava nervosamente su e giù per il campo, chi incrociava le dita quasi pregando. Marino Vaccaro guardava tranquillo il suo portiere seduto sulla panchina. Licodia era in piedi con le mani congiunte a mo’ di preghiera davanti alla bocca e al mento.
“Vai Amir!” gridò Floriani dal limite dell’area, che aveva appena compiuto il miracolo parando il rigore a Curati, che ora si era seduto in panchina dopo aver tirato un calcione alla stessa, sparando una sequela di bestemmie. “Ma lo sbaglia quello gnomo del cazzo, son sicuro, vinciamo lo stesso!”
Amir guardava fisso la porta, poi rivolse fugacemente lo sguardo di nuovo verso l’arbitro. Da qualche minuto Amir non pensava a nulla che non fosse il rigore da trasformare. Quando Licodia l’aveva incaricato del tiro si era sentito un brivido alla schiena, aveva avuto paura, voleva dire che non si sentiva di prendersi una simile responsabilità, ma non disse nulla. Risolse tutto interiormente: dopo qualche istante di titubanza, manifestato dai passi incerti e dallo sguardo desideroso di chiarimenti, si disse che quella era la sua occasione e non poteva tirarsi indietro. Del resto, mica doveva parlare in pubblico, anzi, doveva stare in silenzio. Fu la prima cosa che si disse per farsi coraggio. Ma era agitato. Non a causa di quel gradasso di Boaron, ma perché sentiva che il momento era importante e ci teneva a dare una soddisfazione a chi tanto aveva creduto in lui. “Se lo fa tirare a me in una circostanza simile vuol dire che mi considera bravo” si disse Amir riportando lo sguardo verso la porta. Rossetti fischiò.
Nenad sorrise per cercare di alleviare la tensione e guardò il cielo. Amir non li vedeva, ma i suoi compagni formavano una catena umana al centro del campo, tutti uniti gomito a gomito guardavano con trepidante speranza verso la porta. Licodia aveva abbassato le mani dalla bocca e sfoderò un sorriso rivolto al preparatore atletico. –Ce la farà, è troppo forte!-
-Ma, non lo so, l’ho visto piuttosto agitato- scosse il capo dubbioso il preparatore atletico.
Marino Vaccaro si mise a braccia conserte e scalciò l’erba, un filo di agitazione colpiva anche lui, ma subito pensò alle elezioni e annuì con fare convinto.
Dennis continuava a muovere le braccia e a guardare con occhi cattivi Amir, che cercava di ignorarlo ma tradiva una certa preoccupazione.
Amir ruppe ogni indugio, partì, arrivò con passi rapidi e decisi sul pallone, lo colpì di piatto destro indirizzandolo verso destra. Boaron si buttò sulla sua sinistra, intuendo la direzione del tiro, sicuro di intercettarlo.
Amir osservò la palla trattenendo il respiro. Boaron s’allungò più che poté, arrivò a sfiorare la sfera. La palla proseguì la sua traiettoria rasoterra, rapida. Concluse la sua corsa, andando a insaccarsi a pochi centimetri dal palo.
L’urlo di tutti i giocatori dell’Excelsior si udì chiaramente, nel silenzio generale dello stadio e tra i mormorii di incredulità e di frustrazione degli spettatori. Anche Nenad urlò, scese i gradini della tribuna fino ad arrivare alla ringhiera che separava dal terreno di gioco: si aggrappò ad essa e con i pugni chiusi e le braccia al cielo non finiva di gridare –Gooool-. Al pari di Amir, che non appena vide la palla insaccarsi prese a correre per il campo scaricando in quelle tre lettere scandite a squarciagola angherie e frustrazioni subite troppo a lungo. Non riuscì a correre a lungo per il campo, ma per la stanchezza, anzi, l’euforia della vittoria non gli faceva più sentire la fatica, avrebbe potuto correre per altre due ore: fu semplicemente sommerso dai compagni, come in una mischia di rugby. “Amir, sei diventato grande, ora sei grande davvero!” gli disse Licodia abbracciandolo. “Grazie, tutti insieme mi avete aiutato tanto!” disse Amir alla fine del giro d’onore con la coppa “Speranze” alzata al cielo. Amir andò ad abbracciare Floriani: “Senza i tuoi miracoli non avrei mai tirato il rigore, sei grande!”. I warriors avevano lasciato il campo compunti, con sguardi da divinità offese.

Aveva avuto ragione Licodia a scommettere su Amir e sulla sua voglia di riscatto. Quel rigore era stato importantissimo per tante cose, non solo per la vittoria dell’Excelsior nel torneo “Speranze”. Con quel gol Amir aveva fatto felice la sua famiglia. Ma era anche diventato famoso. Sì, perché nel giro di pochi giorni ricevette un’offerta da una squadra di serie B. Un talent scout parlò prima di persona con Licodia e poi con Nenad per telefono: non credeva alle sue orecchie, Nenad, lui che aveva solo sognato di giocare nel calcio professionistico, in Jugoslavia, e si era dovuto rassegnare a calpestare l’erba di campi di periferia con rare soddisfazioni. Credeva di sognare ancora, sentendo la notizia relativa a suo figlio. “Dico la verità, mister, non è vero! Come fa Amir a partire, lasciarci soli e giocare al calcio vero? Ma dai, è uno scherzo, o forse ho sognato?” pianse di gioia Nenad al telefono con Licodia. “Nessuno gli ha regalato nulla, parte e lo merita, mi creda!” lo rassicurò il mister.
Organizzarono una grande festa con tutto l’Excelsior. Anzi, due: una per festeggiare la vittoria e l’altra per l’addio di Amir. “Rimani sempre te stesso, come hai fatto finora. Troverai gente che si monta la testa, giocatori più cattivi di Curati. E gireranno molti soldi. Pensa solo a giocare come sai. Vai, sei grande ora, ricordatelo. E soprattutto: usa sempre la tua testa, come hai fatto nella finale.” Furono le parole che gli rivolse Licodia. “Grazie di tutto, mister, mi mancherete.” L’abbraccio che seguì tra Amir e Licodia fu molto più intenso ed eloquente di tante parole retoriche.
La portata di quel rigore fu veramente sensazionale. Andò oltre il terreno di gioco. Nei giorni che seguirono il trionfo dell’Excelsior a Borgopiano accadde un fatto storico. Dei senegalesi che lavoravano all’Agricop, con le prodezze del loro connazionale Rigobert ancora sotto gli occhi, presero coraggio e andarono alla Polizia per sporgere una denuncia: “Venite a vedere come lavoriamo all’Agricop”. La squadra mobile fece irruzione in un capannone dell’azienda agricola. C’erano più trenta africani, ammassati uno sull’altro in pochi metri quadrati, dormivano per terra, dopo giornate di più di dodici ore di lavoro, pagati seicento euro al mese rigorosamente in nero. E venne anche trovato il frustino da cavallo con cui Marino picchiava chi osava riposarsi. L’arresto per Marino scattò immediato.
“Lavoro duro a testa bassa, piedi per terra, taglio dei costi e risultati in saccoccia”: la frase tanto amata da Bruno Vaccaro imprenditore e politico. Ma al momento dell’arresto non trovò niente di meglio da dire che la banale frase: ”Le accuse sono totalmente false, parlerò solo in presenza del mio avvocato.” La foto dei Vaccaro in manette andò su tutti i giornali, locali e non. Ne parlarono anche al telegiornale nazionale. Alla vigilia delle elezioni.

© Alessandro Abate





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