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La ballata del deserto
di Mario Laudonio
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Il primo ricordo che ho di quel viaggio è la cadillac. Nera, lucida nonostante tutta la sabbia rossa del deserto che il vento ci soffiava addosso.
Il deserto. Sì, il deserto. Questa è la seconda cosa che ricordo. Ma quel mare di sabbia che ci circondava era venuto ancora prima del viaggio. Il deserto era il nostro viaggio. Anzi, potrei giurare che il deserto prima non esisteva: siamo stati noi a crearlo.
Noi. La terza cosa siamo noi quattro. Chiusi nella cadillac con il tetto alzato a tenere fuori il deserto. O forse è meglio dire a tenerlo dentro. Io ero seduto di dietro, con la nuca appoggiata al finestrino, gli occhi socchiusi a frenare quella luce abbacinante. I sensi erano annebbiati. Sentivo a stento la bottiglia di tequila che avevo in mano. Una sigaretta contendeva l’ossigeno alla mia bocca riarsa.
Girai un poco la testa per controllare il paesaggio. Deserto. Apparve in un lampo ocra appena al lato della mia vista. Anche ora quando, a distanza di anni, io e lui ci guardiamo negli occhi, riesco a malapena a sentirne la grandezza. Poi mi guardo dentro e intuisco perché mi sfugga.
Strade senza fine venivano mangiate a fatica dalla macchina che procedeva stancamente, come in cerca di qualcosa appena dietro la collina successiva.
Staccai la sigaretta dalle mie labbra e presi un sorso di tequila. Sentii più fresco. Chiusi gli occhi. Accanto a me stava Jim, capelli neri lunghi e ricci che gli coprivano il viso mentre dormiva. Aveva poggiato le braccia in grembo con i palmi rivolti verso l’alto.
Quando ci eravamo conosciuti pochi mesi prima aveva un giubbotto di pelle nera e degli occhiali scuri. Era venuto, come me, in risposta ad un annuncio per formare un gruppo musicale. Suonammo insieme quella stessa sera sulle labbra del deserto per quattro ore filate. Col sudore che ci bagnava la fronte e i muscoli, partecipi, tesi fino allo spasmo. Cominciammo con un repertorio comune e poi passammo sempre più liberi verso canzoni che l’uno o l’altro ignorava. Finimmo a improvvisare tutti e due incontrandoci e allontanandoci, sfidandoci e alleandoci, unimmo i nostri sforzi e fummo sconfitti entrambi dalla nostra musica. Lo ammiravo.
Ma il gruppo, il nostro gruppo, non era nato solo per suonare. Ancora non lo sapevamo. Io e Jim almeno non lo sapevamo. Ma Robert e Janis…
Janis era bellissima. Aveva la pelle color della luna nuova. Era il colore di una promessa e quello di un mistero che è lontano centinaia di miglia da te. Era così anche la sua voce. Uno squarcio bianco nel velo blu della notte. Una voce ultraterrena, che sussurrava i fantasmi di cento vite, e il sangue e la carne di mille altre. Lei e Bob stavano insieme.
Bob era magro, alto e nero che pareva un’ombra al tramonto. Aveva degli occhi sempre socchiusi in cui nascevano le stelle lontane e fredde e in cui si spegnevano come mozziconi di sigaretta i tramonti. Erano un orizzonte in cui ti potevi perdere facilmente, proprio come era successo a Janis. Avrei detto che lei non era veramente innamorata di lui, ma piuttosto che avesse bisogno di ritrovare la strada per uscire dai suoi occhi.
Loro sapevano, o forse intuivano, a cosa era destinato questo gruppo di persone, riunito intorno all’armonia dei volatili suoni di una sera. Di sicuro Robert aveva qualcosa in mente quando fece quel volantino in cui invitava a formare una band. Nessun altro si presentò, a parte noi, e quando gli chiesi delle altre informazioni, lui si limitò a stringersi nelle spalle e a sorridermi.
Ingollai altra tequila per cercare di affogare un po’ di deserto dentro di me. Era da tanto che non incrociavamo macchine e da molto nessuno parlava. Buttai la sigaretta ormai consumata dal finestrino.
“Rischi di provocare un incendio in quella macchia di cactus laggiù, così.” ghignò stancamente Janis.
Abbozzai un sorriso. Almeno qualcosa aveva rotto il silenzio.
Cos’era stato a unirci tanto?
Non era stata solo la passione per la musica. Quello era stato solo l’inizio. Eravamo dei centri di gravità. Ognuno veniva attirato e respinto dall’altro. Nessuno, però, poteva più allontanarsi da quella morsa invisibile.
Janis sonnecchiava con i piedi stesi sul cruscotto mentre Robert guidava con il gomito poggiato sullo sportello e la mano sollevata a reggere la testa. Jim si rigirò sul sedile mormorando qualche parola appena udibile.
Sulla faccia di Bob si stirò un sorriso, lungo come un millepiedi bianco. Sembrava avesse appena sentito qualcosa di divertente.
Mi sistemai meglio e lo guardai.
“Cos’hai?” gli chiesi.
Lui invece di rispondere cominciò a canticchiare. Sommessamente, appena sopra il rumore dei copertoni che masticavano asfalto. Seguendo il ritmo lento della strada, del sole e del deserto.
“Solo, l’uomo camminava,
zoppicando tra spine e polvere.
Spine aveva mangiato, polvere aveva bevuto.
Solo, l’uomo camminava,
zoppicando inerme,
ostaggio dell’immenso deserto.
‘deserto, - disse l’uomo sedutosi
infine su un sasso –
deserto ti prego aiutami. Salvami, oggi.
Da tempo immemore vago
nel tuo ampio ventre vuoto,
ma non ho trovato quello che cercavo,
e ora sono stanco e so che morirò.
Chiedimi, dunque, quello che vuoi
e io te lo darò!’
Un vecchio si avvicinò.
Lui no, lui non zoppicava.
Occhi azzurri di cielo,
pelle rossa di terra aveva il vecchio.
‘Tu che chiedi al deserto aiuto
- disse lui -
sai cosa cercavi?’
L’uomo da troppo
vagava e da tempo
la domanda aveva dimenticato.
Chinò il capo e pianse.
‘Forse pensi ancora di avere qualcosa
che interessi al deserto?
Io ti aiuterò comunque. – disse il vecchio –
Oggi avrai la tua risposta.’
E si allontanò sorridendo,
rosso e azzurro contro l’orizzonte.”
Aspettammo un po’. Capimmo che Robert aveva smesso di cantare. Guardai verso l’orizzonte rosso, come sangue rappreso.
“E’ tua?” mormorò Jim. Si era svegliato.
Robert borbottò di sì. Era così con lui. Non si poteva veramente parlare. Raramente ti rispondeva. Capitava molto spesso, invece, che canticchiasse qualcosa a mezza voce. Qualcosa di misterioso, spesso criptico. Penso anche, certe volte, fuori luogo e privo di senso.
Ma quella cantilena, quella specie di nenia, quella per noi aveva senso. Al modo di Robert, ovviamente.
L’unico vero discorso che ci fece non fu molto lungo.
Ci frequentavamo con il gruppo da un po’ ormai. Avevamo raggiunto una profonda empatia, fatta più di silenzi e sussurri che di parole senza contenuto. Tutti noi sentivamo che il vuoto ci aveva circondato a lungo, nei gesti e nelle parole delle persone che avevamo conosciuto, ma questo, ora, era cambiato. Noi quattro, il gruppo, eravamo il centro caldo dell’universo.
Fu una sera dopo l’ennesima suonata, tra una canna e una sorsata di birra tiepida, che Bob parlò. Tutti eravamo stanchi e piacevolmente storditi. La sua voce entrò piano nell’universo delle nostre sensazioni, senza turbarle.
“Siamo nati qui. – disse – Nel Texas. In una cittadina che sembra un foruncolo sulle rughe del deserto. Abbiamo respirato polvere e avuto sete fin da quando siamo nati. Siamo stati male. Abbiamo lottato. Con i nostri genitori. Con i professori. Con la gente. Con noi stessi. Non ci sentiamo accettati dalla società almeno quanto noi non l’accettiamo. Ma ancora prima ci sentiamo respinti da questo ambiente. Dal deserto. La nostra unica casa. Un luogo in cui l’uomo non dovrebbe vivere. Abbiamo lottato per tenerlo fuori. La verità è che noi il deserto l’abbiamo sempre portato dentro. Per questo non riusciamo ad accettarci e ad accettare gli altri. Per questo fuggiamo da noi stessi. Ho scelto di non lottare più contro la polvere. Contro questa sete che mi brucia la gola. Contro questo caldo asfissiante. Partirò. Domani. Andrò verso il centro del deserto …”
Fece una lunga pausa. Come se fare questo discorso gli fosse costato molta fatica. Fece un lento tiro alla canna e allungò i suoi occhi immergendoli nelle stelle. Ormai da milioni di miglia ci giunse la sua voce.
“Verrete…”
Non capii mai se era una domanda o una specie di ordine. Avevo comunque accettato prima ancora che me lo chiedesse. In silenzio. Come gli altri.
Non gli avevo mai visto quella cadillac. Nera, lustra. Salii in macchina senza dire una parola. Lui guardava già verso l’orizzonte, battendo un bizzarro ritmo con le mani. C’era Janis sul sedile di dietro che sussurrava qualche canzone, muovendo appena le labbra. Jim salì dopo. Con la giacca di pelle e la sua chitarra.
Janis si era portata un violino. Poche volte gliel’avevo visto suonare, ma ne ero rimasto profondamente colpito. Sembrava che si vergognasse di possedere uno strumento del genere, ma quando lo usava era come se avesse una seconda voce e cantava altrettanto bene anche con quella.
Io mi portai la mia armonica.
All’inizio del viaggio parlavamo di più. Delle nostre sensazioni, della musica, del paesaggio. Dei campi di cactus , dei coyote che incrociavamo. Di come, allontanandosi dall’uomo diventava tutto sempre più bello e selvaggio, ma, a suo modo, più ordinato. Come se rispecchiasse un piano più alto.
Strisciavamo silenziosi per quelle strade brune. Ci fermavamo la sera sul limite di quell’ultimo pezzo di civiltà e suonavamo. All’inizio cantavamo anche. Ma poi, addentrandoci sempre di più, le nostre voci ci diedero fastidio, quasi paura. Cantammo sempre di meno fino a rimanere zitti, smettemmo pure di chiacchierare. Ormai anche gli strumenti sembravano fuori posto.
Una sera, mentre suonavamo al bordo della strada, come tante altre volte, li sentimmo dissonanti. Rozzi. Il loro suono non ci trasmetteva più né sicurezze, né allegria. Smettemmo insieme di suonare e lasciammo che il deserto si riconquistasse lo spazio che avevamo occupato, riempiendolo di silenzio. Solo dopo molto tempo ci addormentammo quella sera, senza dirci una parola. Il mattino successivo, quando ripartimmo, li lasciammo per terra. Dov’erano.
Guardare il deserto che ci circondava ci aiutava a ricostruire un pezzo di quello che ci portavamo dentro. Ma il nostro viaggio non seguiva un cammino lineare verso il centro. Era simile piuttosto al tragitto che compie una puntina su un vecchio disco di vinile, una lenta spirale, ogni giro un passo più vicino al centro. Ogni tanto facevamo un brusco salto in avanti, altre volte rimanevamo sospesi a lungo sullo stesso punto, come se il disco fosse bloccato.
Il tempo ci passava lento accanto, portando brandelli di strada e del nostro passato con sé.
Per un certo periodo, non avanzammo di un solo passo verso l’interno. Sembrava di rifare la stessa strada dozzine di volte. Un senso di ansietà crescente ci afferrò. Ci fermavamo spesso, stavamo seduti, appoggiati all’ombra della macchina, ad aspettare che succedesse qualcosa. Una rete invisibile ci respingeva e ci impediva di scendere ancora verso il centro. Eravamo incapaci di avanzare verso l’abisso.
Cosa stavamo sbagliando? Eravamo già arrivati al cuore del deserto? Alla fine del nostro viaggio? Sentivamo che qualcosa era fuori posto. Disarmonico. Ma questo qualcosa era appena al di là delle nostre percezioni ed eravamo incapaci di comprenderlo. Era un segreto che non riuscivamo a penetrare, annidato nelle nostre coscienze in attesa di un’illuminazione.
Alla fine qualcosa successe. Qualcosa che ruppe quell’incantesimo e ci riportò sulla giusta strada. Un giorno Janis cominciò a piangere. Non un pianto flebile o sommesso. Era un pianto violento, forte e inaspettato come un monsone. I singhiozzi la scuotevano con forza. Sussultava e tirava su col naso a tratti rantolava, sembrava soffocasse. Ci fermammo subito. La facemmo scendere e le andammo vicino. Ma quando le fummo intorno ci accorgemmo che anche noi avevamo gli occhi lucidi, grigi di piogge. Turgidi di lacrime. In cerchio, tutti insieme e ognuno da solo, piangemmo. A lungo. Buttammo via a dozzine i demoni che infestavano le nostre anime, e i rancori e i rimpianti che a lungo ci avevano seguito nel nostro viaggio e ancora prima di questo. Accettammo i nostri errori e le nostre sconfitte.
Altre volte lungo il tragitto ci capitò di piangere, ma quella fu in assoluto la più forte. A poco, a poco espellemmo tutto il male che ci portavamo dietro e ci sentimmo liberati. Nei nostri occhi le nuvole si diradarono e fummo, infine, sazi di pianto e stanchi di lotte.
Avanzammo spediti dopo quel momento, guidando anche di notte, dandoci i turni.
Janis voltò la testa e mi chiese la tequila. Le passai la bottiglia. Tirò una lunga sorsata. Poi, improvvisamente, Bob inchiodò. Janis spruzzò la tequila che aveva ancora in bocca sul vetro. Io battei la testa e Jim imprecò.
“Che diavolo ti prende?” urlò Janis.
Lui, come al solito, non disse niente, ma aprì velocemente lo sportello e scese. Lo seguimmo. Di fronte a noi, la strada, che avevamo seguito così a lungo e che non aveva avuto mai una deviazione o un incrocio, si interrompeva. Continuava agonizzante per un centinaio di metri e poi si sgretolava e si mischiava ai sassi. Al suo posto, appena accennato, cominciava un piccolo sentiero da seguire a piedi.
Lasciammo anche la macchina, così com’era, con gli sportelli aperti e andammo verso quella piccola cicatrice sulla sabbia.
Questa proseguiva a lungo, perdendosi fra le dune. Decidemmo di seguirla. Dopo diverse ore di cammino ci dovemmo fermare sotto una grande roccia a riposarci, poi riprendemmo a marciare fino alla sera. Quando non potemmo più distinguere quella pallida strada, ci fermammo a dormire tra le rocce, per terra.
Continuammo così per alcuni giorni, fino a che non fummo stremati e completamente disidratati. Camminavamo come sotto un sortilegio, senza sentire la strada sotto i nostri piedi, o la polvere nelle nostre gole. Eravamo stanchissimi, ma non ci fermammo. Ormai eravamo vicinissimi alla meta, lo sapevamo.
Cactus irti di spine ci graffiavano le gambe. Noi li tagliammo e ne bevemmo il succo prezioso.
Incerti. Anche in quel momento, sull’orlo dell’abisso, giocavamo con la morte e ci lasciavamo punzecchiare dalle sue dita. Senza il coraggio di fare il passo decisivo, continuavamo a zoppicare su quella piccola via che non conduceva da nessuna parte.
Fu una notte. Nessuno più dormiva da tempo. Guardavamo tutti le stelle fredde e lontane. In quella notte Jim si alzò e senza dire una parola si allontanò da noi. Lasciò il sentiero. Tagliò dritto per il deserto. Non gli chiedemmo dove andasse. Non lo fermammo, né cercammo di aiutarlo. Giusto prima che si alzasse il sole credo di aver sentito un lungo grido, ma forse era solo un coyote.
Poi toccò a Janis. Stavamo camminando. Il sole era alto e ci guardava silenzioso con quel suo occhio da ciclope. Lei, diversamente da Jim, si allontanò molto lentamente. All’inizio era solo una leggera deviazione rispetto alla nostra strada, una traiettoria appena incidente, come quella di un satellite. Solo dopo un po’ si fece più marcata. Quando ormai era praticamente sparita all’orizzonte mi parve di vederla salire su una enorme roccia e tendere le mani al cielo, ma la sua figura si distingueva appena nelle ondate di calore che venivano da terra.
Non mi ricordo di quando se ne andò Bob. Mi ricordo che rimasi solo. Puntavo ostinatamente verso il tramonto. Verso quell’enorme emorragia che minacciava di dissanguare l’intero universo. Il sole rimaneva fermo. Giusto sopra quell’orizzonte, che è il limite invalicabile della nostra conoscenza. Mi intestardii. Mi misi a correre e poi a strisciare furtivamente. Cercai di aggirarlo e prenderlo di sorpresa, ma il sole era sempre lì, fermo. Allora mi fermai anch’io. E capii. Mi guardai intorno e vidi tutto il deserto intorno a me. Infinito, silenzioso, assoluto. Come il grembo di una madre. Chiusi gli occhi e mi accovacciai per terra. Mi abbandonai straziato dal dolore fisico sul suolo arido.
Rivolsi tutte le mie energie dentro di me, mentre il deserto, vecchio azzurro e rosso, mi accoglieva e mi cullava. Affondai le dita nella sabbia e la sentii scivolare tra le nocche sbiancate.
Venne di nuovo a galla come una nuvola lontana la canzone che Bob aveva sussurrato. “cosa cercavi?...”
Il centro del deserto o di te stesso? Le forze scivolavano via rapidamente mentre trovavo finalmente la risposta a questa domanda. Con un ultimo accecante guizzo rosso, il sole cicatrizzò la sua ferita e si spense all’orizzonte. Tutto divenne buio e confuso.
Jim era al volante, io sedevo davanti, accanto a lui. Mi girai. Vidi Robert con gli occhi chiusi e la testa poggiata sul grembo di Janis, lei gli passava una mano tra i capelli. La macchina in quel momento stava passando accanto ad un enorme incendio divampato tra una macchia di cactus.
Sorrisi.
Strade senza fine venivano mangiate a fatica dalla macchina che procedeva stancamente, come in cerca di qualcosa appena dietro la collina successiva.




© Mario Laudonio





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