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LA PORTA
di GIUSEPPE COSTANTINO BUDETTA
Pubblicato su PBSI2008


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LA PORTA


Tornava da pensionato a visitare il luogo avito. Aveva scelto di proposito un orario fuori mano, quando la struttura era semideserta. Fuori dal gioco, voleva evitare il dialogo con chi era rimasto in servizio ed esercitava a pieno titolo quel potere accademico sua esclusiva prerogativa pochi mesi prima. Era stato il direttore del dipartimento al culmine di una carriera universitaria folgorante. Un temuto barone della medicina con appoggi in politica e in magistratura. Aveva mandato in cattedra chi voleva ed aveva piazzato i suoi nei posti chiave dell’università partenopea e altrove. Dietro di lui una fitta ragnatela di oscure connivenze. Logico che con l’andata in pensione avesse avuto un crollo psicologico. Era scontroso e chiuso. Nessuno lo cercava più se non di rado. Non era più il centro delle accademiche aspirazioni, il punto di riferimento per vincere un concorso universitario, il faro per una carriera sicura in ateneo. Per scrupolo, qualcuno dei discepoli piazzati in cattedra gli telefonava. Parole di rito:
“Professore, come sta? Come va la vita da pensionato?”
Sapeva che gli ex non contano un ix. Non aveva più agganci. Dopo il suo ritiro era scoppiata la guerra baronale di successione: riunioni segrete, combutte, tentativi di agganci coi politici.
Con incontenibile trepidazione rivisitava i luoghi frequentati in modo continuativo dal secondo anno di medicina. Da ragazzo imberbe ci veniva già col padre, professore di anatomia. L’aria chiusa del lungo corridoio e quella acre dei laboratori era nel suo sangue.
L’ultimo giorno come da tradizione, c’era stata la gran festa di commiato con mezza università invitata: rettore, pro- rettore, presidi, direttori, oltre al personale del dipartimento. Biblioteca e aula magna trasformate l’una a deposito di bibite e pasticcini e l’altra a sala di ricevimento invitati con le guantiere colme di dolciumi, rustici, confetti; bottiglie di aranciata, coca cola e spumante poggiate alla rinfusa sulla grande cattedra. Gli invitati sedevano negli scranni riservarti agli studenti per ascoltare il discorso di rito. Al termine dell’orazione – definita dai maligni, orazione funebre - tutti si sarebbero avvicinati per salutarlo ed augurargli una lunga vita da pensionato. L’ambiente stravolto e le cataste di vecchi volumi negli scaffali laterali a muti spettatori.
Il prof. Carlo Celano fece il breve discorso di encomio e di commiato in onore del barone uscente.

“Domani il prof. Andrea Nelli ci lascia per aver raggiunto l’età pensionabile. Mancherà a tutti noi che lo amiamo e lo stimiamo anche se ci auguriamo che venga spesso ad onorarci della sua presenza e ci continui a dare i suoi indispensabili consigli…
Il risultato della sua incessante e fervida attività lavorativa è sbalorditiva: oltre cinquecento pubblicazioni scientifiche, dieci suoi allievi che hanno raggiunto la Cattedra universitaria come ordinari, ed altri sedici quella di associato. Le sue ricerche scientifiche spaziano in tutto il campo della morfologia, dall’anatomia macroscopica all’anatomia microscopica, all’istologia, all’istochimica, all’immunoistochimica, all’endocrinologia, all’embriologia ed alla ultrastruttura. Il prof. Andrea Nelli ha sempre considerato l’insegnamento una missione da compiere con impegno, serietà, zelo, passione ed umiltà. Alla sua attività didattica ed alla sua intensa attività di ricerca ha dato il meglio di sé….”

Il prof. Giordana accovacciato nel suo scranno, ritenuto dagli altri un dissidente moderato, disse a bassa voce ad un collega:
“Lodi auto referenziali. Si lodano tra loro.”
“Chi prenderà il suo posto ed il suo potere?”
“ Non si sa ancora. Dicono che aspettano le decisioni del Presidente della regione.”
“Io non li sopporto. Vado via. Questi qui non esistono come individui, esistono come branco.”
“Un branco di iene.”
“Ciao, ci vediamo dopo.”
“Non capisco perché ci sei venuto.”
“Mi hanno invitato. Ci sono venuto come te, per farmi vedere che sono presente se no pensano che sono fuori dal…branco.”
“Come me, per quieto vivere. Ciao.”

Da pensionato adesso, vedeva il dipartimento con distacco e nella vera luce: un lungo corridoio con in fondo la biblioteca e il suo ex ufficio con la porta chiusa. Nel versante sinistro i laboratori. Poteva essere un corridoio d’albergo o la corsia di un ospedale. Tutto era silenzioso, anonimo e in penombra. Una volta l’edificio era stato un convento e in alcuni punti era rimasta la vecchia struttura come il chiostro interno delimitato da un massiccio colonnato e i lunghi corridoi in semioscurità. Il dipartimento dove l’ex barone era stato il direttore occupava tutto il terzo piano dello stabile. Sul lato occidentale c’era la fila delle camere per il personale docente e non docente. Una grossa finestra per ogni stanza catturava il sole declinante nello zenit e allungava smagliature di luce sulle scrivanie, sulle mensole piene di estratti e sugli armadietti. Nella prima stanza a sinistra dell’entrata, c’era il tavolo nel cui tiretto era conservato il registro per le prenotazioni agli esami degli studenti del quinto anno. C’era una mensola di marmo, un becco bunsen per il caffè del mattino, le sedie su cui sedersi e fare quattro chiacchiere sorbendo caffè prima di iniziare la giornata lavorativa per modo di dire. Secondo la diceria degli studenti, l’unica a lavorare in quel dipartimento era la macchinetta del caffè.
Lo assalirono i ricordi in quello scialbo declino della vita. La sua camera di barone della medicina era in fondo, prima della libreria, la più capiente con due finestre anziché una. Al centro una grossa scrivania e verso la finestra di fronte all’ingresso, un tavolino con tre divani riservati agli ospiti di riguardo. Due telefoni sulla massiccia scrivania di noce e nel lato opposto alle finestre, le scansie per i libri e gli estratti delle ricerche pubblicati su riviste nazionali ed internazionali. Prima del pensionamento coi fondi strutturali, aveva fatto cambiare la vecchia porta con maniglie sghembe ed installare una corazzata con rifiniture in laminato ciliegio, maniglia dorata “Gardena” (design di Klaus Hartman).

Entrato in dipartimento il bidello Giovanni anche lui prossimo alla pensione, lo aveva salutato calorosamente e con il dovuto rispetto:
“Direttore. Che sorpresa! Prego.”
Gli aveva porto la mano moscia e aveva risposto sforzandosi di sorridere:
“Come andiamo?”
“Bene. E voi?”
“Abbastanza bene.”
Era stato lui a farlo assumere una trentina di anni prima. Avevano trascorso in quelle stanze quasi una vita. Il bidello era davvero contento. Sembrava il vecchio cane Argo alla vista di Ulisse ritornato alla sua Itaca. Gli mancava solo la coda da scodinzolare. Subito gli aveva confidato:
“Direttore, quando c’eravate voi, era un’altra cosa. Dopo che siete andato via, qui non si capisce più niente.”
“In che senso?”
“E’ una continua guerra.”
“Capisco.”
“Tutti contro tutti. Solo lei li metteva a tacere e manteneva l’ordine.”
“Capisco.”
“Direttore, ma lei capita in un orario fuori mano. C’è solo qualche assistente che fa ricerche in laboratorio. Verso le sedici anch’io vado via.”
“Lo so. Volete che non lo sappia? Ci ho passato una vita qui dentro.”
“Come mai siete venuto? Avevate appuntamento? Scusate se ve lo chiedo.”
“Passavo di qui per caso e sono salito su in dipartimento.”
“Vi preparo il caffè.”
“Bravo. Io mi avvio verso la biblioteca. Voglio dare uno sguardo alle riviste.”
Non sapeva neanche lui perché voleva andare in biblioteca. Una scusa per attraversare da solo il lungo corridoio. In fondo vide la porta chiusa del suo ufficio. Una volta un via vai di gente attraversava il vano di quella porta e lui dietro la scrivania ad impartire direttive.
Rivide eventi del passato. Era stato all’apice di una cupola di potere pazientemente eretta. Aveva manovrato tutti i concorsi universitari del suo raggruppamento decidendo chi doveva vincerli. La sua volontà era stata legge.
Sessantacinquenne, s’era fatta una nuova amante. Era venuta da lui dietro appuntamento. Era una bella donna, fresca sposata. L’aveva ricevuta nel suo studio e fatta accomodare sulla poltroncina riservata agli ospiti di riguardo. Aveva belle cosce, slanciata e zizze toste come piacevano a lui. Nel vedersela parata davanti, gli era salita una melliflua fiamma partita da sotto le pudende. Ciò accadeva con le donne che davvero lo attraevano. Aveva accavallato le cosce comodamente seduta di fronte a lui e aveva detto:
“Professore, sono l’assistente del prof. Giardino che è mio zio da parte di mia madre. Avete parlato di me per telefono…stamattina, così mi ha detto mio zio…”
“Sì, ho detto a vostro zio che potevate venire da me questo pomeriggio alle 16, cosa che avete fatto con puntualità.”
“Ecco, vengo a proposito del prossimo concorso ad associato…”
La donna lo sguardo ammiccante, si era sporta verso di lui che le ammirava le cosce. Aveva una gonna coi bordi quattro dita sopra le ginocchia. Le calze nere velate, irresistibili.
“Professore, che ne pensa? Posso presentarmi al prossimo concorso? Avrei pochi titoli in verità.”
“Lei è giovane perciò ha pochi titoli”.
Questa frase del barone poteva significare: signora, aspetti ancora alcuni anni. Maturi altri titoli e poi si faccia avanti. Poteva però essere un semplice complimento per la sua bellezza e giovinezza. La donna si chinò ancora di più verso di lui azzardandosi ad appoggiare il braccio sui calzoni con la mano in prossimità delle brache.
“Professore, la ringrazio del complimento. Ho in cantiere numerose ricerche che potrò meglio espletare quando avrò la tranquillità che solo un posto di professore di ruolo può dare…Lei lo sa…mi capisce…”
Non aveva ritirato il braccio da sopra la sua coscia. Con calma le aveva detto:
“Signora, facciamo così. Venga domani alla stessa ora e mi porti il suo curriculum con gli estratti delle sue pubblicazioni scientifiche.”
Aveva tatticamente rinviato gli amplessi. La giovane donna era bella e gli piaceva da morire. Aveva fatto breccia nel suo cuore, ma preferiva aspettare. Meglio rinviare di un giorno gli approcci sessuali. Non era più giovane e con la verga a comando. Verso le 15,30 avrebbe preso una compressa di Viagra aspettando l’arrivo della donna per le 16,00. Col Viagra non c’erano problemi.
Quel pomeriggio, la donna aveva giustapposto sul tavolino il curriculum e gli altri titoli. Lui era corso a chiudere a doppio mandato la porta e si era slacciato le brache. Gli aveva fatto un immediato pompino.
Il secondo giorno, il barone aveva preso un afrodisiaco più potente con l’integrazione di steroidi e vitamine. Si sentiva il formicolio ai testicoli e i muscoli col tono di un ventenne o quasi.
Appena arrivata, era stata lei a chiudere a chiave la porta lanciandogli uno sguardo da complice. Lui che aveva già perso la testa, si era subito messo a frugarla sotto il vestito, passando la mano tra le cosce. Abbassando lo sguardo le aveva visto lo slip nero merlettato e la sottoveste…Le aveva aperto la camicia di seta e slacciato il reggiseno… Lei gemeva e gli baciava il lembo dell’orecchio. Le agguantò una tetta. Era turgida. Ci si attaccò come un neonato avido di latte. Prese a baciarla e a leccarla sul collo sbavando come un cane. Le succhiò il labbro come si gusta una prugna matura. Soffocò i gemiti di lei con un bacio. Le strappò via il vestito e le sfilò giù le calze. Cosce nude, pallide ginocchia, carne calda. La tirò su dalla poltrona, le tirò via le mutande e glielo ficcò dentro con la furia di un mandrillo.
" Andrea» disse "Oh, Andrea!»
Gli piacque che lo chiamava per nome. In mezzo alle cosce aveva una matassa intricata di peli. Le grandi labbra vulvari inumidite e lubrificate alla meglio.
Se la fece in piedi, ma mica stando fermi. Scopavano per tutta la stanza. Glielo ficcava e rificcava in corpo. Ribaltavano le sedie e avevano fatto cadere la lampada. L’aveva stesa sulla scrivania mentre masse di libri rovinavano sul pavimento. Grugnì come una scrofa in calore.
"Oh, Andrea!»
Fu percorsa da un brivido da capo a piedi, poi da un altro, come una bestia sull'altare del sacrificio. Vedendola sfibrata, come fuori di sé, come smarrita – o forse fingeva - glielo spinse più su che potette: una furia. La donna tramortita, al colmo della goduria. Lui rinculò leggermente e glielo spinse di nuovo dentro con rinnovata forza. Dava colpi d'ariete e a lei ballava la testa come un burattino pazzo. Proruppe l’ondata di sperma. Da anni non se ne faceva una così. A momenti moriva. Il povero cuore a martellargli dentro. Quella donna meritava senz’altro di vincere il concorso. Sarebbe stata la sua amante per alcuni anni. Per lui bastavano. Alla sua età era già troppo.


Ricacciò l’onda dei ricordi. Stava per poggiare la mano sulla maniglia di quella che era stata per anni la porta del suo studio privato. Un atto involontario. Come se si fosse scordato che era pensionato. Dal fondo del corridoio Giovanni il bidello lo chiamò riportandolo alla realtà:
“Professore, la porta è chiusa a chiave. Quando il nuovo direttore è via chiude sempre quella porta a chiave. Venite, il caffè, sta salendo.”
L’ex barone lasciò scivolare la mano dalla maniglia e tornò sui suoi passi. Una voce misteriosa come se gli dicesse in un orecchio:
“Su, coraggio, la vita inizia ora. Solo ora inizia la vera vita.”





F I N E




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