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Giona
di Peter Patti
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Per Kant la risata è la maniera in cui l’uomo libera “una nervosa aspettativa del nulla“. Se ripenso al mio amico Giona, e a quanto e con quanto gusto ridemmo nei nostri anni migliori, mi tocca ammettere che il nulla kantiano, dopo essere stato da noi liberato alquanto felicemente, ci si è ritorto contro secondo l'effetto boomerang.
Si è ritorto contro Giona, in primo luogo, che, da quel ragazzo solare che era, si è andato via via trasformando in un rottame umano, in un mentecatto che trascorre i suoi giorni sbavando su ritagli di giornali e vecchi appunti ingialliti: un materiale fattografico d’inezie “ridanciane“ che lui mostra, tutto tremante, agli imbarazzati visitatori occasionali.
L'archivio del mio amico si incentra su un unico tema, e le singole “voci“ hanno tutte il medesimo tenore. Sotto la lettera 'B', ad esempio, troviamo:

Bangalore. I contadini dello Stato dell'Unione Karnataka,
nel sud dell'India, protestano da anni contro la politica a-
graria del governo di Nuova Delhi. Ma né le dimostrazioni
pacifiche, né tantomeno le azioni violente, hanno mai dato
frutti.
Ieri, infine, una rappresentanza di circa ventimila contadini
si è assemblata davanti alla sede del parlamento. Lì i dimo-
stranti hanno preso a ridere a tutto volume, proseguendo per
ore. Una forma di protesta davvero insolita. Un paio di mi-
gliaia di poliziotti è rimasto a guardare inerte lo sconcertante
spettacolo: perfino in India non c’è una legge che proibisca
la risata...

L'ossessione di Giona per il riso, per la "passione senza nome", per la "smorfia sul volto" che - secondo Hobbes - indica un trionfo immaginario (senza che si sappia bene su chi o su che cosa si fosse trionfato), deve essersi sviluppata in lui a mano a mano che nella sua povera vita si andavano assommando le disgrazie e i contraccolpi dolorosi. La disoccupazione cronica, gli innumerevoli malanni (gastrite, fitte alla schiena, mal di denti, piede equino), la morte prematura del padre, una misteriosa epidemia tra le galline del suo orticello, l’indomabile isteria della madre, le snervanti paranoie della sorella... tutte cose che, certo, hanno contribuito non poco a imprimergli sulla faccia il riso cadaverico che oggi lo contraddistingue.
In altre parole, è come se il mio gemello di gioventù avesse voluto ridersi a morte. Il suo riso - posso testimoniarlo - non era mai offensivo; ma caustico, questo sì: una sorta di ironia bonaria in risposta all’ironia cattiva di un mondo che, chissà perché, gli è sempre stato ostile. Il mondo lo ha preso a calci, ha preso ad accettate la sua buona fede, ha sputato sulla sua bontà innata... e lui si difende ridendo. La risata di un innocente che viene trascinato sulla forca. Per dirla con Friedrich Nietzsche: il mio amico ha finito per mettere su la maschera di chi può permettersi "di essere maligno con tranquilla coscienza".
Davvero! Ridere dell'insensibilità dell'esistenza, dell’algida carezza del nulla... Povero, povero ragazzo!

Già prima d'imbattermi in Giona avevo intuito quale saggezza filosofica facesse da sfondo alle comiche di Charlie Chaplin e di Buster Keaton. Questi omini dai movimenti un po' meccanici, che arrivarono a fare la caricatura di dittatori e generali (cosa che alla loro epoca richiedeva grande coraggio), conferirono al mio sorriso un’impronta d'intelletto. Fu però Giona ad attirare la mia attenzione sul ridicolo che ci circondava, sull’assurdità che impregna la vita di tutti i giorni. Fu lui a svelare per me, durante le nostre passeggiate dei vent'anni spensierati, la contraddizione davvero eclatante di questa società che da una parte predica la dottrina del lavoro, della dedizione alla famiglia e l’austerità più assoluta, mentre dall’altra spende e sperpera tra mille scandali e inciampa e cade di continuo proprio come una delle macchiette del cinema muto.
L'interesse di Giona per i pasticci linguistici, per le insalate sintattiche, per i capitomboli dei reggitori del sistema, assurse pian piano a livelli di reale morbosità. A quel tempo (correvano i famigerati anni Ottanta) imperversava il “politichese“, e un termine come bronzofaccite - allora parecchio in voga - non poteva che entrare subito a far parte integrante del vocabolario gionesco; vocabolario che, peraltro, era già infarcito dei neologismi forgiati dalla sua stramba fratellaglia. A casa di Giona si dice subitofuoco e si intendono i fiammiferi, smokies sta per sigarette, supercargos per grossi mezzi di trasporto, ecc.
A un occhio attento come il suo non potevano sfuggire insegne quali 'Calzaturificio Scarpace', 'Cardiologo Bonocore' o 'Avvocato Buttafoco'. E, grazie a lui, anch’io infine potei rendermi conto di cosa non quadrava nei nostri due vicini di casa Salvo Rinuncia e Fortunato Trapasso: recavano nomi che, con il loro significato tutt'altro che recondito, ne influenzavano l’abituale comportamento sia per strada e sul lavoro che in famiglia.
Una delle mie insegne preferite divenne 'Alla morte del pollo', mentre Giona prediligeva certe indicazioni su muri o su cartelli improvvisati che denotavano la scarsa cultura dei loro autori ('Lasciare libbero il pasagio', 'Pesceria', 'Univessità degli Studi'...). Fu in quei giorni che cominciò ad annotarsi ogni cosa. Arrivò a mettere insieme, su un semplice quadernetto di scuola, una fittissima costellazione di curiosità lessicali che, secondo i suoi proponimenti, avrebbero dovuto tirargli su il morale nei frangenti meno felici. Il pezzo sicuramente più pregiato della sua collezione era e rimane quel

VENDOSI BICICLETTE E RIPARASI ANCHE

che ci affascinò per anni, costringendoci a tornare più e più volte nella stessa stradina, davanti alla stessa officinetta, per contemplare increduli l’obsoleta scritta; naturalmente ridendo a scrosci.

Sempre più spesso capitava che irrompesse a casa mia per mostrarmi le sue ultime “scoperte“, cioè le bazzeccole che gli avevano solleticato l'umore. Ormai ne rammento solo alcune, che voglio riportare su queste pagine fintantoché la memoria mi sorregge. La frase di un concitato cronista di ciclismo: "Pozzetti e Manigoldi hanno preso la testa e non vogliono più mollarla". Il trafiletto su un quotidiano che riferiva di uno scassinatore messo in fuga da forti scoppi di risa incisi su nastro magnetico (ingegnoso sistema antifurto escogitato dal proprietario di una boutique). La tragicomica vicenda di una coppia di rapinatori sordomuti e analfabeti che, a gesti e con suoni inarticolati, tentarono di farsi consegnare del denaro dall'impiegata di una banca e infine, spazientiti perché non compresi, si strapparono la calza dal viso...
Tutti questi elementi bizzarri, questi strani eventi, questi inimitabili scivoloni della specie umana, parevano essere stati ideati apposta per deliziare il nostro palato, e quello di Giona in particolare. Ma la vita, quella “seria“, prosegue imperterrita e con un cinico scrollare di spalle, e il riso - ancor più che le parole - è quasi sempre soggetto a fraintendimenti.
Nei vari impieghi in cui si provò (portaborse, operaio di fabbrica, factotum per un docente di lettere omosessuale, spazzacamino), Giona cercò di comunicare la sua visione della realtà alle persone con le quali veniva a contatto. Ma, poiché nessuno di loro navigava sulla sua stessa lunghezza d’onda, fin da subito lui si vide affibbiata l’etichetta del pazzariello, dell’acchiappamosche, dell’ “individuo poco affidabile“.

Si dice (e forse è vero) che né gli animali né gli angeli ridono mai. Nella risata è contenuto un che di diabolico, e il demone che si impossessò del mio amico avrebbe fatto di lui, inevitabilmente, un invalido dello spirito.
Costretto a vivere nel purgatorio della nullatenenza, Giona approfondì la sua recherche sull’ “assurdo della vita“ dedicandosi a tempo pieno allo studio delle lingue straniere. Dapprima si concentrò sul castigliano (che, per ragioni di ordine oscuro, reputava assai divertente), e di questo idioma arrivò a saper snocciolare intere frasi. Poi approdò all’esperanto, e bisognava sentire che amenità uscivano dalla sua bocca!... Dall'esperanto all'interlingua il passo fu breve, e ben presto solo io e pochissimi accoliti potemmo seguirlo nelle sue lunghe tiritere, nei suoi monologhi ludici che suonavano come messaggi in codice cifrato.
Con la fida radietta a onde corte, era solito sintonizzarsi su un'emittente finlandese: esplicitamente per seguire le Nuntii Latini - ovvero: news in lingua latina. E si sbellicava dalle risa nell’ascoltare l'ostica parlata dei nostri avi applicata alla realtà odierna. Tennis = teniludium. Integrazione europea = redintegratio Europaea... E, ancora: incrementum populi terrestris; fames Africanorum... Per tacere di: “Oclahomae, in urbe Americae septentrionalis, die Mercurii ictus terroristicus in historia Civitatum Americanae Unitarium omnium gravissimus accidit“. (La notizia dell'eccidio provocato dall'esplosione di una bomba a Oklahoma City).
Nel frattempo non eravamo più due rampolli. I nostri vent’anni passarono in un baleno e io, dicendo addio all’età degli scherzi, risolsi di sbarcare su altre spiaggie. Inutile aggiungere che andai assumendo sempre più i modi e l'aspetto “seri“ richiestimi dalla società degli adulti. Cominciai una nuova vita. Ogni tanto, però, tornavo nella mia città d’origine, carico di nostalgia. E, durante quelle occasionali puntatine, mi toccava dover constatare l'aggravarsi della salute di Giona. Più il mio gemello di una volta sembrava star male da cani, e più rideva. Rideva, rideva...

Il Novecento era stato aperto da Henri Bergson, il filosofo dello “slancio vitale“, con un saggio dal titolo Le rire. Bergson definiva il riso “un’impertinente sfida alla speculazione filosofica", contrapponendosi perciò a Nietzsche, il quale aveva invece assunto il riso quale arma contro le trappole della storia e contro il moralismo sfegatato. (“Il riso: questo libero spirito burrascoso che danza sulle paludi e sulle tetraggini quasi fossero prati.")
Senz’altro Nietzsche rimane “il meno tedesco dei filosofi tedeschi“. Se soltanto il mio amico avesse letto qualcuno dei suoi libri, avrebbe potuto rispecchiarsi senza difficoltà nella folle saggezza del celebre Friedrich-Zarathustra. Ma Giona non leggeva libri. Leggeva soltanto le insegne dei negozi, le targhe d’ottone, gli annunci del televideo: tutte bagattelle che al sottoscritto non potevano interessare più.
Oh, quante, quante volte mi biasimò per essermi trasferito nelle latitudini settentrionali! Se ci rifletto su, a lui il mio nuovo abito caratteriale doveva apparire grigio e monotono come un lungo inverno mitteleuropeo.
Inutile dire che, dopo aver assimilato (in un tempo straordinariamente breve!) le principali nozioni del tedesco, giudicò tale lingua “stancante e assolutamente priva di umore“. E quando - molto di rado - credeva di individuare una parvenza di riso anche nel rigido animo dei popoli germanici, si affrettava a comunicarmi la “sorprendente novità“. Trascrivo di seguito lo stralcio di una sua lettera:

“Le barzellette svedesi non sono divertenti e mancano di tatto!“
Così il giornale danese 'Politikon' ha commentato la minaccia
dei “cugini“ scandinavi di voler bombardare la Danimarca con
barattoli di aringa affumicata, specialità invero nauseabonda
che soltanto gli svedesi (stranamente) ritengono succulenta.
La tensione tra Svezia e Danimarca dura fin dall'epoca vichin-
ga, ma negli ultimi giorni è esplosa più forte che mai. I danesi
hanno sempre considerato i loro vicini di casa come esseri as-
solutamente privi di sense of humor, e la minaccia svedese di
bombardare la Danimarca con pesce mal olezzante sembra vo-
ler comprovare il loro radicato pregiudizio. Il quotidiano 'Jyl-
lands Posten' ha addirittura pubblicato un’inserzione in cui si
invitano i lettori a dare testimonianza di aver mai incontrato
“uno svedese cui sia riuscito almeno una volta a essere diver-
tente.“
La strana “guerra“ è scoppiata a causa del progetto di costruzio-
ne di una centrale atomica a Barsebaeck, nel sud della Svezia.
Nell’eventualità di un brutto contrattempo, la centrale mettereb-
be a repentaglio non solo la vita degli stessi svedesi, ma anche
quella di milioni di persone che abitano in Danimarca.
Alla minaccia di bombardamento con aringhe, la rivista danese
'Extra Bladet' ha replicato con un'azione notturna, facendo piaz-
zare attorno alla criticatissima centrale una gran quantità di for-
maggio 'gamle ole' ultrastagionato, dal profumo alquanto pun-
gente. Si spera che il conflitto continui su questo piano, senza
l'uso di armi peggiori...

Ovviamente, fin dal giorno della mia partenza Giona si provò a capire il carattere delle genti nordiche - e dei tedeschi in special modo. E ovviamente tutti i suoi sforzi si risolsero in una sconfitta. A me era solito ripetere, con tono triste: «Anche tu finirai per disimparare l’allegria».
Volendo dimostrargli che sul conto della mia patria adottiva si sbagliava di grosso, lo invitai a partecipare insieme a me al Carnevale di Colonia. Con mia sorpresa, accettò l’invito: e così eccoci insieme in un’insalubre nebbiolina che fa tanto Medio Evo, nell’intreccio di vicoli e vicoletti.
Ci buttammo nell’indescrivibile orgia del Martedì Grasso e, a imitazione della massa di Teuti, scolammo una gran quantità di birra. E, sì, ridemmo, ridemmo... A manifestazione conclusa, tuttavia, Giona si chiuse in un mutismo che denotava la sua profonda delusione. Poco prima di montare sul treno che lo avrebbe ricondotto a casa, fece questo commento: «Togli loro l’alcool e vedrai che la loro lietezza svanirà di colpo. Togli loro la maschera e vedrai che sotto la maschera portano una maschera».

Beh, comunque fosse, col tempo il mio amico avrebbe scoperto una vena di umorismo anche nei “freddi Germani“, e ciò attraverso certi annali e almanacchi che andò a consultare nella biblioteca comunale. Ecco un paragrafo che mi traspose quasi a voler rincuorare se stesso, oltre che me:

Alla fine del XIX secolo, in pieno riciclaggio dei miti di
Sigfrido e delle divinità intorno a Odino (le opere di Richard
Wagner avevano contribuito in maniera decisiva a tale risve-
glio), un quotidiano di provincia pubblicò la notizia del ri-
trovamento del leggendario oro del Reno. Il quotidiano fornì
pure la presunta ubicazione del “tesoro“. Tale panzana
(l’articolo apparve il Primo Aprile) scatenò una vera e propria
febbre dell’oro, che si prolungò per tutta la giornata. Finché
qualcuno non si ricordò della data. Già: era stato soltanto un
pesce d'aprile...

“Chissà“ aggiunse a piè di pagina, “forse per te non tutto è perduto: si riesce a ridere anche lassù... a volte.“

Veniva sempre attratto dagli eroi picareschi, dall’involontaria comicità di bizzarri conquistadores, dalle imprese da quattro soldi di incorreggibili sognatori. Non deve perciò sorprendere il fascino che esercitò su di lui la vicenda del "Sarto di Ulm", di cui venne a conoscenza attraverso un documentario televisivo.

Questo personaggio, nato nel lontano 1770 e rispondente al nome di Albrecht Ludwig Berblinger, fu un tipico martire dell’impulso del progresso. Fin da bambino era stato lodato per le sue ingegnose trovate. Con gli anni riscosse un certo successo svolgendo il mestiere di - appunto - sarto. Ma il suo vero interesse verteva sulle possibilità ancora poco esplorate del volo umano.
Regolarmente sposatosi, il Sarto di Ulm condusse una regolare vita borghese. Ma il tempo libero lo dedicava alla costruzione di disparati, incredibili aggeggi. Tra le sue invenzioni bisogna perlomeno ricordare una “sedia per bambini ben condizionata“, un modello di “pianoforte per principianti“ e tutta una serie di “arti artificiali per gli invalidi“. Comunque non dimenticò mai la sua ambizione più grande e finalmente, nel 1811, mise a punto un cosiddetto “apparecchio per il volo“: il prototipo di un aereo a... forza muscolare.
Si trattava di un aggeggio mai visto prima di allora. Lo scheletro della macchina, composto da ossi di balena, era rivestito da un telone di seta. Albrecht L. Berblinger diede solennemente l’annuncio del “primo tentativo di volo umano dell’èra moderna“ su un giornale a diffusione locale. Immaginatevi lo scalpore!
Nel giorno convenuto, migliaia di curiosi si assieparono sulla riva del Danubio. Perfino il Re accorse, per assistere a quello che ormai era definito “un evento storico“.
Lo strano apparatus, dalle sembianze di pipistrello, fu situato da Albrecht in cima a una torre di legno alta sette metri. Purtroppo quel giorno il vento soffiava così forte che l'inventore riusciva a malapena a star ritto sulla piattaforma. Ma la folla rumoreggiava, il Re cominciava a perdere la pazienza... Così, il novello Icaro inspirò forte, tese i muscoli; quindi spiccò un salto. Agitò le braccia alla stregua di un uccellaccio... e piombò come una pietra nelle acque del Danubio.
Non appena riaffiorò alla superficie, fu accolto da una scarica di risate tonanti.
Il Re gli fece recapitare venti monete d'oro per “incoraggiarlo a perseguire il lodevolissimo scopo“, ma i ragazzacci di strada fecero dello sfortunato eroe l’oggetto principale dei loro sfottò. Al colmo della disperazione, Albrecht L. Berblinger si diede all’alcol, e poi anche al gioco, e ben presto perse tutti gli averi che aveva accumulati con l’attività di sarto. Un protocollo della magistratura, datato 1822, lo definisce civiliter mortuus, ossia un cadavere ambulante, una non-entità...

Figure romantiche e un tantino ridicole come questa, remote nel luogo e nel tempo, erano e sono più vicine a Giona di qualsiasi individuo di sua conoscenza. Anche lui, come il Sarto di Ulm, fin dalla prima adolescenza tentò di volare. Indi gli tarparono le ali e, di conseguenza, non gli rimase che cercare consolazione nel riso.
Oggi è un uomo spezzato, un derelitto, un - sì - civiliter mortuus. Vive aggrappato alla gonna della madre e partecipa a matrimoni e funerali esternando un’allegria impropria, del tutto fuori posto - un ilare rigor mortis sul volto da eterno bamboccio.

© Peter Patti





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