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Superstizione
di Vito Ferro
Pubblicato su PBSA2008


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Se ti accendono male la sigaretta, solo da una parte della capocchia, allora vuol dire che avrai le corna.
La sigaretta infatti, accesa così parzialmente, sembra avere come un corno defilato, che invita l’assonanza del pensiero, la evoca, la suggerisce, quasi la auspica.
Bisogna stare attenti a quando altri accendono la propria sigaretta. Uno la estrae sereno dal pacchetto, quante volte si estrae serenamente una sigaretta per fumarla, già si pregusta il fumo acre che scende nella gola e che poi viene risputato fuori, - un apnea stramba, al contrario, butto fuori il gas e non lo tengo per me, per respirare -, e arriva un amico un conoscente anche un estraneo a volte, quando lo richiediamo noi, e ci accende male la sigaretta, cornuta, un dramma.
E’ quello che sta pensando l’uomo che si è appena fatto accendere la sigaretta da un passante. Ha dimenticato il suo accendino a casa. Male, malissimo, si va incontro alla malasorte, all’incauta accensione di uno sconosciuto, già è difficile trovarne qualcuno a quest’ora di notte, figurasi poi anche fumatore: pretendere che sappia accendere le sigarette degli altri con sagacia, è troppo. Male quindi, malissimo, dimenticare l’accendino. Per chiunque e soprattutto per quest’uomo, è notte, troppo lontano da casa, i tabaccai chiusi, e ore ed ore da dover riempire, aspettando. Senza accendino, con la flebile e sola speranza che passino altri estranei, e che questi, se ci saranno, siano in grado di tenere ferma la mano, in modo che la punta della sigaretta prende fuoco uniformemente e si scampi per lui la condanna, la vergogna, la disgrazia. Le corna.
Uscire di notte, e dover riempire ore ed ore, e non portarsi l’accendino, per un fumatore accanito, come è quest’uomo (lo è diventato negli ultimi sei mesi, per la precisione), non è un grande atto di attenzione, anzi, è cosa sbadata in massimo grado, ma c’è da capirlo, quest’uomo che ora, tirando bene ha riequilibrato le sorti della combustione della sua sigaretta. Le corna son scomparse, quelle dal cilindro che si screpola e si consuma, adesso, ma quelle vere, fisiche e morali, è ancora da appurarlo. Per questo l’uomo è uscito di casa stanotte ed ora è qui, in una via secondaria della città, ad aspettare. Oltre che aspettare, l’uomo è appostato per scrutare, valutare, prendere atto di una certa situazione. E magari intervenire, in qualche modo. Quale non lo sa ancora bene.
E’ che la sua idea è nata affiorando come da sotto uno stagno melmoso. Piccole bolle sottili, poco per volta, negli ultimi mesi. Segni vaghi, e di inquietante retrogusto, l’han portato a credere che la sua donna lo tradisca, o stia per farlo. Troppi segni, accumulati giorno per giorno, un trucco del viso più sostenuto, più che mai, un andatura leggera, sorrisi franchi, aperti e leggeri, risate sonore, euforia nell’aria come un contagio, una felicità epidemica. Ma a lui, questo virus è stato risparmiato. Anzi. Ha montato la sua sospettosità. Ed ora è qui, sotto casa di un collega della sua donna. Sotto casa di quest’uomo, che avrà visto si e no tre volte in vita sua. Due fugacissime, andando a prendere la sua donna a lavoro, ed una terza un po’ più a lungo, durante una cena con molte persone. Ma il collega era seduto abbastanza distante, da lui e dalla sua donna, solo un saluto all’inizio e due parole alla fine, due. L’uomo con la sigaretta quasi spenta tra le dita sente, per segnali che la mente non decodifica lucidamente, che è lui l’uomo da sospettare, insieme alla donna. Qualche telefonata troppo lunga, per lavoro certo, cose banali dette, sicuramente ma tuttavia; e poi, anche se mai così numerosi o decisivi come ci aspetterebbe, troppi riferimenti da parte della sua donna al collega, nei discorsi, troppe volte per l’uomo che già aveva fatto lievitare il seme del sospetto.
E stasera, dopo cena, dicendo la solita frase “è giovedì, vado con le amiche al circolo”, la sua donna ha abbassato fugacemente lo sguardo perché un rossore, minimo minuscolo, eppure avvertibile, l’ha colta, denunciandola come se avesse acceso fari potenti attorno a sé e suoni di campanelli fastidiosi. Per ciò è venuto qui, mezz’ora dopo che la donna è uscita di casa. Dietro a lei, pensa l’uomo che butta la cicca rattrappita facendola atterrare dentro un tombino a grata. Perché sicuro che lei sia in quella casa sopra i suoi occhi stretti, insieme al collega. E non al circolo come sempre il giovedì, con le sue amiche. Non che abbia appurato l’assenza della donna dal circolo, non ha telefonato ne fatto chiedere di lei. E ciò per due motivi: uno è inutile, e due non voleva scoprire che la donna era davvero al circolo. Sai poi i sensi di colpa, la confusione, il senso di stupidità, e nonostante tutto ciò il sospetto che non si sfama, che non si ferma, lungi dal placarsi, incalza, si abbassa solo un po’, rasente al pavimento, e poi ritorna, più alto che mai, frastornante. No, meglio venire qui, e quello che sia sia. Anche se sia quello che, davvero, non vorrebbe. Questa nottata è decisiva, si disse l’uomo. Troppi mesi. Troppo letargo logorante. Basta.
Ora è qui. Appostato sugli scalini di un portone, leggermente defilato, nell’ombra scura della notte e di questa città che, è risaputo, in certe zone come questa, ha un’illuminazione pubblica così scarsa e tetra, un giallo smorto impressionante, ma che per fortuna, stanotte serve, mi nasconde per il compito che mi sono prefisso. Ovvero aspettare, guardare, magari intervenire. La strada è deserta, di auto e di passi, dopo quel passante gentile ma maldestro, che ha acceso la sua sigaretta con malaugurio, non c’è più nessuno in giro. Dalle finestre dei palazzi intorno, dai balconi, rare luci, poco meno smorte di quelle dei lampioni. Silenzio notevole, se non per il solito brusio elettrico che ogni grande città possiede come un secondo mare artificiale sempre inquieto, se ne ha già uno vero, o come un mare alternativo se è una città sprovvista di tale elemento del paesaggio. Intanto l’uomo lascia scorrere i suoi pensieri come su un rullo. Sono strani i pensieri di un uomo che si apposta come un investigatore. Sono strani e diversi da quelli di un vero investigatore: questi, professionista che certe pratiche, tendenzialmente, le fa per lavoro, avrà senz’altro un’altra reazione all’atto, altro modo di affrontare, riempire l’attesa. Meno coinvolto emotivamente, si crede. Mentre l’uomo che sta qui stanotte, e già sale in lui la voglia di fumare un’altra sigaretta, è investigatore solo per caso, o meglio per necessità, e deve tutelare i suoi stessi interessi, non ha pensato di affidarsi ad un professionista, costano troppo e poi non ci si fida davvero, altro che foto e video rubati, metti che la vittima, o meglio la pedinata, paghi di più e lo corrompa, metti che l’investigatore privato si lasci convincere, che doppio inganno, che doppia beffa, la donna dell’uomo lavora, ha soldi da spendere, e scoperta o meglio scoperto il professionista alle calcagne, può succedere anche questo, non ci si mette niente a proporgli l’affare. Gli investigatori d'altronde lo fanno per soldi.
L’uomo ha pensieri contorti, sono pochi, sempre gli stessi, ovvero le possibilità che ha davanti, questa notte. La becco con il collega, non la becco.
Nel secondo caso avrà aspettato per niente, magari vedrà rientrare od uscire il collega, da solo, e cosa pensare allora; se rientra da dove, se esce per dove. Se esce, seguirlo, a quest’ora di notte dove esce se non per andare con la mia donna. Se rientra è probabile che i due si siano dati appuntamento altrove, e non nella casa che l’uomo sta tenendo d’occhio. E’ l’alternativa peggiore, accrescerebbe il dubbio a dismisura, e lui non avrebbe neanche la più piccola ombra di una soluzione: neanche la possibilità di accertarsi se la donna fosse stata al circolo, o meno, se stava con il collega o da sola. Magari si sono incontrati proprio lì, al circolo, potrebbe anche essere, sfacciato atteggiamento ma non improbabile, e la donna ha un sacco di amiche che la coprirebbero, le donne, maledette.
Mentre, è ovvio che la possibilità di beccarli assieme, qui sotto, nel portone del palazzo del collega, su una macchina rientrando, a piedi passeggiando, alla finestra al balcone, in qualche angolo qui vicino, cambierebbe tutto. Colti in flagrante, e la rabbia dell’uomo si materializza facendogli contrarre le mascelle.
L’uomo pensa a queste cose, continuamente. Rende concrete immagini che sviluppa, ogni possibilità una scena, una sequenza, un micro film, un cortometraggio che sfuma non appena tocca a lui, in un modo o nell’altro (tornando a casa deluso, rincuorato, meno sospettoso, più dubbioso, furente, assassino, ammazzato), entrare in scena. Non appena il film lo chiama, “luci, azione, entra in scena correndo ecco così, testa bassa, luci più vicine, stagli dietro con quella camera, riprendilo da sotto, ora esclama la battuta, e voi pronti coi microfoni”, lui oscura la visione che si crea nella sua mente, per un qualche motivo che proprio non conosce. Buio in sala.
L’uomo ha voglia di fumare ancora. Estrae una sigaretta dal pacchetto, e con meccanico gesto noto a chi si dedica al tabagismo senza pudore, la infila precisa nella fessura della bocca, poi alza lo sguardo per bene in cerca di un passante, magari, non si sa mai. Il passante però non c’è. Allora, come colto da un furore elementare, ma semplice, sotto tono, un’irritazione tiepida, l’uomo si cerca nella giacca, nel pantalone, nelle varie tasche, magari, non si sa mai. E’ la frustrazione a spingerlo, il sapere che tanto non troverà quello che cerca, l’accendino l’ha lasciato a casa sopra il tavolo, se lo ricorda bene, ma metti che, magari, non si sa mai. E una scatola di fiammiferi, come per magia, ma magia non è, spunta. Nella tasca più nascosta della giacca che ha indossato uscendo. La giacca che di solito mette quando va in campagna col cane, a passeggiare. Precipitandosi all’inseguimento, all’appostamento per la precisione, nei confronti della sua donna, ha indossato la prima giacca che ha visto appesa all’ingresso. La fortuna ha voluto fosse quella della campagna, sempre fornita di una scatola di fiammiferi. L’uomo fa un sorriso abbastanza ingenuo, ma sincero. L’impulso è nato e giunto a destinazione nel cervello prima che il pensiero solido che non ci sia nulla da ridere lo bloccasse, soffocandolo. Così riesca a sorridere, emette un piccolo suono di gioia banale, dura poco, il tempo di soppesare la scatola nella mano, ributtare lo sguardo al palazzo davanti, ecco, il pensiero solido che non ci sia nulla da ridere ha vinto, finalmente, ha svolto il suo compito, l’han fregato per un breve attimo, ma ha ripreso il sopravvento, sta soffocando ogni velleità di umore sereno, ha smorzato il sorriso dell’uomo, ecco l’ha annullato, al suo posto una smorfia che pare di disgusto, accendendo la sigaretta, il labbro increspato come un’onda anomala, il fiammifero che tremola nella mano, accende la sigaretta, la mano che lo spegne agitandolo e lo butta, mannaggia, di nuovo cornuta, ma che sfortuna ho, ed è pure colpa mia adesso, nessun passante a cui scaricare la responsabilità, me la sono proprio creata da solo la malasorte, stavolta.
L’uomo aspira con frenesia il fumo che dopo riemette nell’aria. Nella strada sempre silenzio, se non per il brusio compattato di auto in lontananza, la luce dei lampioni smorta, pallida e desolante, niente passi, niente vocii, neanche sommessi, alcuni balconi e finestre che prima erano accesi, ora sono spenti.
Guarda il palazzo di fronte, un poco defilato, e si rende conto di non sapere a quale piano abiti il collega della sua donna. Nel palazzo solo quattro luci sono accese, una al primo, due al secondo, e una al quarto ed ultimo piano. Pare disegnino una scaletta stramba, che ascende fino ai tetti bui.
Chissà se proprio uno di quegli appartamenti in cui le luci sono ancora accese, son quasi le undici, è quello dell’uomo che sto appostato per scovare, insieme alla mia donna, forse meno mia che mai, pensa l’uomo che attende. Sarebbe una fortuna, se la fortuna si può scomodare per una faccenda del genere, scoprire da qui, da dove sto appostato, che in uno di quegli appartamenti vive il collega, e magari è dentro proprio con lei. Vedendoli passare, transitare, fermarsi ad una di quelle finestre che sono rettangoli biancastri nella notte, se così fosse, scoprirei il tradimento e l’appartamento in un colpo solo. Scoprirei dove abita anche se vedessi alla finestra solo lui, o solo lei. Basterebbe. Mentre, è ovvio, che se i due presunti fedifraghi, o meglio la fedifraga ed il suo amante, si tenessero ben lontani dalla finestra, l’uomo non potrebbe sapere stanotte in quale appartamento si sia consumato il tradimento. Ma prima o poi, la donna dovrà pur scendere se è sopra, da sola o accompagnata, è lo stesso, sempre da un’alcova in quel palazzo giunge. L’uomo allora cerca di scrutare con massima attenzione verso quei quattro rettangoli illuminati, se una sagoma distinguibile ci passa di fronte, si sporge, per caso, si appoggia anche di spalle, lui potrebbe essere in grado di distinguere a chi appartiene, di certo se alla sua donna; la sagoma del collega forse sarebbe troppo difficile da decifrare se si pone di spalle, o brevemente, un battito di ciglia, un passare veloce.
Guarda, alternando lo sguardo, concedendo turni regolari ad ogni finestra, ma non succede nulla. Se non, tre o quattro minuti dopo, una luce di quelle finestre, una delle due al secondo piano, che si spegne. L’animo dell’uomo, improvvisamente, si agita oltremodo. Pensa, è sicuro, che i due abbiano spento la luce e stiano per scendere dal palazzo, in strada. Inconcepibilmente fumoso il pensiero, assurda a dir poco la certezza dell’uomo: cosa gli fa credere che sia così, cosa gli fa pensare che l’appartamento nel quale si è spenta la luce sia innanzitutto quello del collega della sua donna, che i due siano stati dentro e adesso stiano per scendere, cosa gli fa ritenere che sia così, non si capisce, è una probabilità come tante, tantissime altre, non di certo la più ferrea, ma tanto è che l’uomo sente così, e il petto gli si scuote dai battiti violenti che adesso stanno suonando in lui. Allora si rannicchia ancora di più contro quel portone avvolto dall’ombra, rivestendosene completamente, e cerca di far cessare la velocità dei battiti, non sia mai che li sentano i due amanti scoperti. Ma dal portone non esce nessuno, nessun rumore di scale scese, di ascensore che si attiva, di parole scambiate, nessun pulsante ad aprire portoni, niente. Non che potesse, l’uomo, sentire così bene ogni cosa delle sopraddette, i passi sulle scale ad esempio, o l’ascensore in moto, da dove si trova è acusticamente impossibile, magari qualche parola a tono più sostenuto, di sicuro il pulsante del portone del palazzo, ma appunto, tutto ciò non è comunque avvenuto. Chi ha spento la luce in quell’appartamento, sarà andato a dormire. Se poi sia il collega o uno sconosciuto inquilino di quello stabile, rimane un mistero.
All’uomo che sospetta, i cui battiti di colpo son tornati quasi normali, ancora qualche scossa di grancassa, un timpano che sfuma, non rimane che attendere ancora. I minuti passano, è mezzanotte ormai, la sua donna rientra dal circolo quasi sempre per le due. C’è allora ancora poco meno di due ore d’attendere. Riguardare le luci accese, ne sono rimaste di meno, solo tre da controllare, minore fatica. Eppure un senso di sconforto ha acchiappato irrimediabilmente l’uomo nascosto nell’ombra. Sarà stata la violenza dell’emozione subita, creatasi poco fa, e la sua repentina cancellazione a renderlo ora così di umore instabile. Avverte l’impulso di dover fare qualcosa, di rendersi più attivo, l’attesa è snervante, i pensieri contorti sono i soliti e più li fa vivere più questi si aggrovigliano, togliendogli fiato, altro che le sigarette. Fare qualcosa, ma cosa, rendersi attivo, ma come. Dare una svolta alle indagini, usando un linguaggio da veri detective. Spostarsi non se ne parla nemmeno, recarsi al circolo o da qualsiasi altra parte sarebbe una fesseria bell’e buona, inutile. Si è deciso di restare qui, è cosi si farà. Costi quel che costi. Tanto qui devono arrivare i due amanti. Qui davanti a me. Scendendo dal palazzo, arrivando dalla strada, in un modo o nell’altro qui li si becca, e non altrove. Se dovessero ancora arrivare, ma ormai è poco probabile, e dove sarebbero stati tutto questo tempo, una cena romantica prima della lascivia, a quest’ora, no, non regge, comunque se dovessero ancora arrivare davanti al palazzo, non si può fare nient’altro che attendere. Ma se invece dentro al palazzo ci fossero già, rintanati come belve nel cantuccio che credono sicuro, io potrei in qualche modo stanarli, farli uscire, o almeno farli affacciare, tanto da vederli bene, insieme, l’una con l’altro. Ma certo, sicuro, come non pensarci prima, elementare Watson, esclama a bassissima voce l’uomo, sorridendo un po’ più palesemente di prima, di quando trovò la scatola di fiammiferi nella tasca della giacca, anche stavolta il pensiero solido che non ci sia nulla da ridere è stato fottuto, è incredibile quanto sia debole e ancora difettoso il cervello umano.
Andare a vedere tra i campanelli quello che corrisponde al cognome dell’uomo (tra l’altro spesso sui campanelli vi è anche scritto il piano dell’abitazione): una volta che si individua il cognome, pigiare ben forte il campanello, e poi scappare, come fanno tanti ragazzini maleducati. Rientrare nell’ombra ed attendere. Sentire la voce dell’uomo, se è in casa, chiedere chi è, non ottenere risposta, e di sicuro affacciarsi, per capire chi sia il deficiente che suona a quell’ora della notte e poi non risponde. Magari si riesce anche a mettergli inquietudine, amanti maledetti che si credono al sicuro, al sicuro non siete, pensa l’uomo sogghignando amaro, che vi scuota l’anima il campanello, che vi paia un segnale di malauspicio, un avvertimento palese, una minaccia. Questo pensa l’uomo dando spago al suo stesso diabolico ghigno soddisfatto, ti affaccerai collega, magari insieme a lei, ed io vedrò finalmente ciò che sto aspettando da così tanto.
Questo pensa e cerca di portare avanti l’uomo, ma anche qui, come finora per tutti gli altri pensieri pensati in questa notte strana, è costretto a bloccare l’intraprendenza della sua mente, il suo voler prendere iniziative dopo averle con foga proposte. E già, primo rischio di essere visto se mi avvicino così tanto. E se non vengo visto, ma riesco a raggiungere il portone, suono, scappo e poi si affaccia solo lui, e magari allora mi vede pure perché non sono riuscito a raggiungere in tempo il mio angolo buio, sai che figura, non solo non li scopro, ma gli concedo un vantaggio. E certo, perché se lui mi vede, o se non mi vede comunque capisce chi sia stato a suonargli a quell’ora, a fare quell’avvertimento, rientra nell’appartamento “c’è il tuo uomo” “dove” “qui sotto, nascosto, ha suonato lui, di certo” “c’ha scoperto” “no, non c’ha scoperto, sospetterà, ma non può sapere che sei qui, non c’ha visto entrare” “come fai a dirlo” “ho controllato bene prima di salire, e non c’era nessuno” “sei sicuro” “sicurissimo” “e allora, che si fa adesso” “e semplice, esci dal retro” “c’è un retro nel palazzo” “si, c’è un altro portone, al di là del cortile interno” “allora vado via subito” “si, è meglio, torna a casa, torna prima di lui, io lo tengo d’occhio dalla finestra” “la prossima volta staremo più attenti, adesso sospetta” “si, ma non ha le prove, stai tranquilla” ecco potrebbe succedere questo, tutto questo, sarebbe tremendo.
Non è possibile quindi suonare al campanello. A meno di dichiararsi apertamente “apri subito, bastardo, so che siete lì, salgo a sistemare una questione” ma figurarsi, ma dove si è mai visto, perché dovrebbe aprire e perché dovrei salire. Non va bene, questo piano, che un vero e proprio piano non è, semmai un abbozzo impulsivo d’azione subito ridimensionata e disinnescata molto prima di effettuarsi, sarebbe un disastro, conclude l’uomo nell’ombra, che comunque ha vissuto un bel quarto d’ora di intesa sollecitazioni mentali ed emotive. Stavolta la frustrazione non l’abbatte, si sente sicuro di se stesso comunque, è quasi meglio di un vero investigatore, si autoelegge tale e lo fa con serietà, senza sorridere minimamente questa volta.
Poi l’occhio gli cade sulla vettura che sta posteggiata proprio davanti a lui, al suo angolo nel buio. E’ una normalissima vettura come tante. Con tutti gli accessori più o meno indispensabili a renderla tale, volante, ruote, sedili, marmitta, e antifurto. E’ l’antifurto che coglie la sua attenzione. La lucina rossa che lampeggia intermittente. Ecco cosa si può fare, ecco come posso stanarli o perlomeno sperare che si affacci, l’uno, l’altra o magari entrambi. Farò suonare l’antifurto di questa macchina, che potrebbe anche essere la macchina del collega, per quanto ne so, che lo sia o meno è indifferente, chiunque si affaccia di notte, quando nella via sotto casa sua stanno cercando di aprire una macchina, magari la loro stessa ha un antifurto simile, sono tutti simili, chi li distingue veramente, che poi la stia aprendo nessuno, ma è l’antifurto che suona a vuoto questo non lo sanno, prima di affacciarsi e guardare. Tre appartamenti sono ancora svegli, quelli che ci stanno dentro si affacceranno di sicuro, gli altri, se dormono, magari non lo sentiranno neppure.
L’uomo allora si sporge dalla pozza di nero nella quale se ne sta rintanato, fa emergere una sola gamba, e con la punta del piede da un colpetto alla ruota della vettura posteggiata. Niente. Con più decisione calcia il pneumatico e ritira veloce il piede prima ancora di sentire il frastuono, nel silenzio, dell’antifurto che si attiva.
Il classico suono a sirena regolare ed acuto, che stavolta assume sembianze, se ad un suono si può accostare un termine tale, davvero minacciose. L’uomo si appiattisce nell’ombra, la schiena premuta bene contro il portone, speranzoso nella sua tenebra personale. Gli occhi fissi alla finestre accese e a quelle spente. Il primo ad affacciarsi è un uomo, al secondo piano, che per una frazione di secondo, lui crede di riconoscere come il collega, ma poi capisce subito di stare sbagliando clamorosamente: questo avrà, si è no, trent’anni di più, e capelli bianchi e una faccia assonnata e stizzita assieme. La seconda è una donna che emerge dal buio di una finestra del primo piano, apre i vetri senza accendere la luce, esclama qualcosa di indecifrabile e poi ritorna dentro. Il terzo non c’è, perché l’antifurto smette di suonare. Di colpo, da solo. O almeno così crede l’uomo che sta acquattato e furtivo. Ma in realtà, il legittimo proprietario della vettura che falsamente segnalava un tentativo di furto, si è sporto dalla finestra di casa sua, tre piani sopra il portone dove l’appostato trattiene il respiro, e pigiando un semplice bottone di un telecomando, ha messo fine a quello strazio sonoro notturno, più infastidito per la doverosa incombenza che è stato costretto a svolgere che rassicurato per il mancato furto.
Tutto ciò, però, l’uomo che aspetta non lo sa. Sempre rimane fisso sulle finestre di fronte, un po’ defilate, in attesa dell’apparizione che dia senso alla sua missione. E’ intanto ormai l’una.
Nessun altro si affaccia più alla finestra per controllare l’andamento dell’eventuale furto di automobile. D’altronde l’antifurto sonoro ha smesso, o il ladro ha vinto o ha desistito, oppure ancora la macchina così come è impazzita, è rinsavita. Né il collega né la donna si sono visti spuntare da una di quelle finestra illuminate, e nemmeno da quelle al buio. Peccato, l’intenzione dell’uomo appostato era ottima, efficace e non compromettente, ma tanto è che non ha funzionato. L’uomo capisce che non potrebbe mai fare, per la vita, il mestiere dell’investigatore. E non perché proprio non sia capace, addirittura poco tempo fa si era autoeletto tale, è che è un mestiere davvero faticoso, logorante, richiede la pazienza, soprattutto, dote e virtù che lui sente di non possedere in maniera così notevole. Certo è che, come lui stesso sosteneva prima, una cosa farlo per altri un’altra farlo per se stessi. La donna da scoprire in alto tradimento è la sua donna, questo distorce tutto, intacca la serietà, al calma, l’attenzione, la tranquillità, la giusta serenità che ci vuole, le armi del detective puro e semplice, che lui, pur essendo implicato addentro principalmente, nella vicenda, ha comunque cercato di simulare meglio che poteva, se è ancora qui, di notte, al freddo. Di più che poteva fare, niente.
Fa freddo adesso, un tipo di vento, la cui origine e direzione di partenza è totalmente imperscrutabile, precoce per l’ottobre in città, assale la sua giacca da campagna, un fustagno marrone che vibra, il pantalone di jeans stretto, le sue mani nervose che si accendono una sigaretta. Stavolta non cornuta, meno male, è andata bene. Ma ecco il nuovo scrupolo, corre con una velocità di treno impazzito, vuoi vedere che è stata colpa delle sigarette che ho fumato, vuoi vedere che mi hanno visto come un soldato in trincea quelli dall’altra parte, il faro minimo che si accende, e traccia scie nell’oscurità, da qualche finestra magari al buio, i due traditori hanno scovato la mia nicchia, e me all’interno “il tuo uomo è ancora sotto” “che fa” “fuma”. Vuoi vedere che l’uomo è stato colto in flagrante, lui che voleva cogliere loro, magari fin dalla prima sigaretta fumata, quella che gli ha acceso cornuta, il passante maldestro, e allora tutto questo tempo, l’attesa davvero inutile, superflua, controllato il controllore, spiata la spia dai due nemici, attraverso la fessura delle persiane, dietro una tenda, ogni tanto, quando non stavano insieme a scambiarsi effusioni dolci. Un’ansia implacabile lo coglie, e gli rende meno gustosa la sigaretta, che comunque fuma. Cerca rassicurazioni all’ipotesi di disastro appena enunciata dalla sua mente che macina chilometri di strada, frulla tonnellate e tonnellate di varianti, e forse il sonno, la rabbia, la preoccupazione, il nervoso, l’agitazione, il freddo, la solitudine non gliele fanno trovare. Ma ciò nonostante continua a fumare. Poi si dice, che sia quel che sia, se mi hanno visto tanto meglio, così sanno che io so, e aspetto. L’ultima parte della sigaretta torna ad essere piacevole ristoro, palliativo efficace per tutta quell’ansia.
Guarda l’ora sul polso, mancherà mezz’ora alle due, l’ora solita in cui la sua donna ritorna dal circolo. Il circolo, a una decina di minuti da casa sua, si starà pian piano svuotando di femmine ormai stanche, alcune addirittura sfatte, dal sonno e dalle troppe risate e chiacchiere, si va lì per le attività per sole donne, ma soprattutto a ridere a chiacchierare a sparlare a progettare tradimenti. Il circolo è la cellula del complotto, lì deve essere nato tutto. Perché le amiche di una donna sanno essere le peggio consigliere del mondo, sono della Jago al rovescio, più che instillare dubbi legittimi, accendono passioni di rivolta, fomentano la congiura, l’aggressione alle spalle, “è tempo che tu ti diverta”.
La sua donna ci mette appunto dieci minuti a rientrare, di solito. Ci sono gli ultimi venti minuti da riempire. Poi tornare all’auto e dirigersi verso casa, trovarla lì probabilmente, e decidere che fare, ancora silenzio, omertà, non far capire niente, ma magari farle pagare l’inutilità, il tempo a vuoto, di quella notte, attaccandola verbalmente di fronte, “mettiamo le cose in chiaro, basta bugie, dove sei stata stanotte” “al circolo” “non dire cazzate” “non sono cazzate, è vero” “non ci credo, ho telefonato, al circolo non ti hanno visto” “come è possibile” “dimmelo tu” “ma se sono stata lì” “c’è qualcuno che può testimoniarlo” “ma certo, tutte le mie amiche” “ah, buone quelle” “che stai dicendo, certo che sono buone, buone amiche” “si, tutte dalla tua parte, quelle ti coprono” “coprire cosa” “le tue bugie” “io non dico bugie” “ah no, figurarsi” “non in questo caso” “ma in altri” “ma che c’entra, dirò bugie ogni tanto come tutti, ma non a te” “mai” “mai” “saresti disposta a giurarlo” “certo” “non ci credo al tuo giuramento” “e allora perché me lo chiedi” “perché qui le domande le faccio io” “ma stai impazzendo” “no, tutt’altro, sono lucidissimo” “ma io non ti riconosco” “questo neppure io, perciò ti domando, dove sei stata stanotte” “al circolo ti dico” “al circolo non ci sei stata” “non so che altro aggiungere” “dove sei stata realmente” “che cosa vuoi sentirti rispondere “la verità, che non è il circolo” “e quale sarebbe la verità” “la sai” “no che non la so” “pensaci bene, è l’ultima occasione che hai per essere onesta con me “ ”sei pazzo” “ti ripeto di no, io so che non eri al circolo, ma da un’altra parte, e voglio che me lo dica tu” “non posso dirti quello che non so” “ma tu lo sai, magari l’hai scelto tu il posto” “che posto” “il posto dove ti sei diretta insieme al tuo amante” “che cosa” “il tuo amante, avanti” “ma cosa stai dicendo” “il vero” “ma è una stupidaggine, non ho nessun amante” “non negare” “certo che nego, è falso” “ma smettila, che so anche chi è” “che cosa sai tu” “l’identità di quest’uomo” “e chi sarebbe, avanti” “il tuo collega” “il mio collega” “certo” “ma figurati, mi fai ridere” “ridi, ma le cose on cambiano, la realtà è questa” “ma se il mio collega è pure sposato” “che vuol dire questo, gli sposati non tradiscono, e poi guarda che brava la mia donna di casa, guarda che furba, io ti ho detto il collega e tu, da sola, hai pensato a quel collega, l’hai detto tu stessa” “cosa stai dicendo” “quello di cui mi sono appena accorto, guarda caso il pensiero ti è venuto diretto a quel collega, e non ad altri” “non capisco dove vuoi arrivare” “dove sono arrivato” “e dove sei arrivato” “a farti confessare” “io non ho confessato niente ne ho intenzione di farlo” “l’hai già fatto, ti dico, un lapsus, l’alibi che non ha retto su un punto” “ma quale alibi, guarda che non ho ucciso nessuno” “si, ma mi hai tradito” “sei pazzo” “non mi scoraggi dicendo così, ormai è chiaro ciò che hai fatto” “lo sarà per te” “per chi dovrebbe esserlo” “non ti capisco, non sembri neanche tu” “non gettarmi fumo negli occhi, ho già fumato troppo di mio stanotte, e non cambiare discorso” “quale discorso” “perché appena ho detto collega, hai subito pensato a quel collega” “ma che ne so, mi è venuto così spontaneo” “certo perché magari vi amate” “smettila“ “di fare cosa, di dire il vero” “sono menzogne, sono tue stupide manie queste” “fino a quando non mi dirai perché hai fatto il nome di quel collega, scartando tutti gli altri, mi sentirò in diritto legittimo di presentarti le mie manie più feroci” “sono stanca, andiamo a dormire” “neanche per sogno, si chiarisce una volta per tutte” “ma chiarire cosa, non ho nessun amante” “non tornare indietro, continuiamo su ciò che abbiamo raggiunto” “ma cosa” “il fatto che ti vedi con quell’uomo” “io non mi vedo con nessun uomo” “per quanto ancora vorrai negare l’evidenza” “fino a che non la smetterai di perseguitarmi così” “ah io” “si, tu” “con quella faccia lo dici” “che faccia” quella faccia da traditrice bugiarda” “non sono né l’una né l’altra” “uh se lo sei, non sai neanche quanto, anzi lo sai fin troppo bene” “basta, ora basta” “dovrei dirlo io, evitami lo strazio della menzogna” “io sto dicendo la verità, non ne posso più” “fino a quando non sputi il rospo, io vado avanti” “andrai avanti da solo allora” “se è necessario” “no, è inutile e stupido” “al mio posto faresti la stessa cosa” “io non sono pazza” “no, tu sei solo una traditrice” e via così, per la restante parte della notte. E via così, l’uomo man mano che le parole si accumulano sul tavolo del loro soggiorno, sentirà forte l’urgenza di vendicarsi per ciò che ha dovuto sopportare, aspettando i due amanti. E avrebbe voglia di raccontare tutto, ma non potrà dire di averli beccati, questo no, potrebbe bluffare, ma come se non li ha visti, magari si sono incontrati in qualche albergo, di sicuro è andata così, certamente.
L’uomo pensa con un certo sollievo alla sua auto capace di riscaldare l’abitacolo in due minuti. Quando rientrerà a casa, il tragitto lo farà scrollandosi di dosso le stalattiti di freddo, le stalagmiti di brivido. Placidamente guidando, diretto a casa. Ma prima ancora qualche occhiata furtiva al palazzo, alla strada, alle auto posteggiate, sempre le stesse, e poi ricordarsi dove ha posteggiato la sua. Pensandoci, gli viene il solito, ennesimo, destabilizzante sospetto: e se i due traditori avessero visto la sua auto posteggiata, la donna sicuramente la riconoscerebbe, è la loro auto, e da lì ogni immediata conseguenza, la catena di idee “che ci fa qui la nostra auto” “la vostra auto” “si, mi sa che ci ha scoperti” “ma come è possibile” “non lo so, ma dev’essere così, altrimenti come la spieghi la sua macchina qua, vicino a casa tua” “ma magari è venuto a trovare qualcuno” “non conosce nessuno in questa zona” “magari l’amante” “non dire cazzate”.
Fanculo. Fanculo pensa l’uomo, non me ne importa niente. Adesso torno a casa e l’affronto. Cercherà sicuramente di sviare ogni sospetto, ogni dubbio, negherà, l’evidente evidenza, che due e due fanno quattro se è necessario, ma io la farò cadere, dovrà confessare, e poi la caccerò via di casa, via, via, fuori nella notte.
L’uomo trova l’auto, dopo aver confuso una sola volta la via giusta e averne imbroccata una simile. L’accende e attiva il riscaldamento, in due minuti fa caldo, un caldo davvero piacevole, in dieci è sotto casa. Sono le due e qualche secondo.
Ripassa mentalmente la scaletta delle accuse, l’interrogatorio, soprattutto c’è da affinare la frase d’esordio “mettiamo le cose in chiaro, basta bugie, dove sei stata stanotte” dirla così o poco diversamente, e poi partire, a raffica, a razzo, come un treno impazzito che entra in galleria e non sa quando ne uscirà.
Sale le scale e la mano trema infilando la chiave. Entra spalancando la porta, e ciò che vede gli fa aprire la bocca e poi contrarla serrata.
La sua donna, seduta al tavolo col collega, entrambi un’espressione seria sul viso, la sua donna che si alza e gli si fa incontro, sempre seria “dove sei stato tutto questo tempo, è tutta la sera che ti aspettiamo, dobbiamo, devo parlarti, di noi, di cosa è capitato, vedi, credo che sia giunto il momento di dirtelo, noi non possiamo più stare insieme, sai, stanotte stessa andrò via, con lui” e indica col braccio teso e molle assieme, il collega sempre seduto al suo soggiorno, chino come uno scolaro sull’algebra, attento al cane che lo controlla guardingo. L’uomo che stanotte ha investigato, si dirige verso il salotto accendendosi una sigaretta senza neanche controllare come.

© Vito Ferro





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