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Il canarino
di Marco Busetta
Pubblicato su SITO


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Se n'era andata. Così, senza troppe storie.
Solo et pensoso, davanti i fornelli incrostati d'una cucina direi molto maschile, rimuginavo, ruminavo: mi perdevo inebriato dal suo odore, che ancora a tratti tornava; a riportarmi ogni volta alla deludente realtà i vapori pungenti dei funghetti preparati per cena [nel fondo unto della padella avrei potuto divinare i miei giorni a venire]. Sapevo bene d'aver fatto molti errori, confidando ogni volta nella sua infinita pazienza - lodi a te mia regina; e ancor meglio sapevo quanto difficile sarebbe stato incontrare strada facendo un'altra creatura come lei. Finii in piedi di ingurgitare quella specie di cena, quindi diedi un'occhiata alla casa, intendo alla casa tutta insieme, e attraversandola ne contai i mattoni, a passi tardi et lenti. Abbastanza grande. persino arredata con un certo gusto. macchie di caffè per terra a disegnare umori. Mi fermai un istante accanto a una poltrona rossa vecchia che non frequentavo da tantissimo tempo. di lana imbottita, coi braccioli di legno, emanava un forte odore che rievocava molte cose: quasi mi commossi. Ma non era il suo odore. A pochi metri lo specchio, al quale forse avrei potuto chiedere le ragioni di quella separazione, ma preferii rimandare: conoscevo già bene i miei tratti, abbastanza puliti, piuttosto avari di significato: e adesso probabilmente li avrei anche sorpresi d'ogni allegrezza spenti; li ripresi a mente e conclusi che certo doveva esserci qualcos'altro.
O qualcuno d’altro.

Ero sempre stato estremamente geloso, ma ogni volta attento a non fare scenate: mi limitavo a tenerle il broncio per due o tre minuti: lei capiva, si faceva abbracciare in modo che stringendole i fianchi sentissi quant'era completamente mia, e tutto tornava come prima. Salvo poi ricominciare per un nonnulla. Negli ultimi tempi invece, aveva finto d'ignorare quel broncio, continuando a parlare delle sue cose. magari addirittura cambiava stanza, recitando la parte della casalinga indaffarata. Cominciò a nascermi il sospetto che qualche baldo giovine potesse essersi intromesso perdavvero nella nostra felicità senza che io me ne fossi fino a quel momento minimamente accorto; ma il mio ego più o meno profondo [perso nell'erebo] si ostinava a ripetermi che era ridicolo anche solo immaginare una sua infedeltà. cercavo allora di convincermi che questo suo progressivo allontanamento poteva trovare ragioni nelle mie imperdonabili e quotidiane mancanze, o forse in quel lavoro non abbastanza prestigioso per una donna come lei... forse, ma scrivere era fondamentalmente la cosa che mi riusciva meglio, o quanto meno con minor fatica; e farlo saltuariamente per un giornale e un paio di riviste con pretese intellettuali, benché i soldi non abbondassero, costituiva comunque un buon compromesso; il più dignitoso che fossi riuscito a metter su da quando, fresco di laurea, avevo realizzato che mi sarei dovuto mantenere da solo. In quanto al mio modo di fare cercai di porvi immediatamente rimedio a mezzo di patetiche dimostrazioni gentili: ma tutto questo non servì a molto; anzi, giorno dopo giorno notavo un peggioramento generale della situazione [banchi di nebbia lungo il versante est del pericardio: scordava puntualmente i fiori in macchina e cercava scuse ridicole per non uscire. Il malditesta]. Non volevo sentir parlare di matrimonio, d'accordo, ma questa non era per lei certo una novità: a parte qualche attimo di smarrimento, mi ero sempre professato un accanito sostenitore della vita in comune senza vincoli che richiedessero l'apposizione di una firma. doveva quindi esserci dell'altro.

Che c'entrasse percaso Carlotta...? La chiamai, verso le nove. Amore vengo. venni. Una storia abbastanza interessante che mi aveva causato qualche dissapore, persino episodiche scenate di gelosia. Perché anche lei era gelosa. Ma d'altro canto Carlotta c'era già da prima, e lei non avrebbe certo potuto pretendere che la lasciassi così, senza alcun motivo, dicendole sai, mi sono innamorato di un'altra, perdonami... A volte, con Carlotta, passavamo intere serate a parlare di letteratura francese: seduta sul letto mi leggeva Chateaubriand; io recitavo a memoria un sonetto di Petrarca, magari storpiando qualche verso, ci facevamo le coccole, ed eravamo felici. Carlotta naturalmente sapeva anche lei, ma non mi aveva mai detto una parola. Solo aspettava paziente che fossi un po' più libero, ci vedevamo ogni tanto; e credo fosse persino contenta. Ma adesso che ero solo, la presenza di Carlotta perdeva il suo antico significato e cominciava a divenire pericolosa. Una ragazzina infatuata che probabilmente non meritavo neppure; però era carina, con due occhi verdastri dal taglio curioso, accattivante; e quel naso anche lui alla francese. meravigliosi i suoi jeans, portati come fossero un tailleur.

Decisi di prendere un cane. Un pointer di pochi mesi con la faccia simpatica e le orecchie mosce. Lo tenni una settimana, poi lo riportai all'allevatore, che si tenne parte di quello che gli avevo pagato: non avevo abbastanza pazienza per prodigare una simile quantità di cure ad un essere vivente. Pensai due giorni, quindi mi recai in uccelleria e acquistai un canarino giallo, perfettamente giallo; giallo da qualunque parte lo si guardasse. Cantava, mi costava pochissimo, ed era giallo.
Il canarino non ha uno sguardo molto intelligente, profondo intendo. Ma quel nervosismo di movimenti che gli fa muovere la testa quando meno te lo aspetti lo fa sembrare quantomeno vispo. vivace. che poi è la definizione che le maestre danno alla scuola elementare per segnalare ai genitori una prole non eccezionalmente intelligente, ma tuttosommato simpatica. Il vostro bambino è vivace, tanto vivace. Che non è assolutamente sinonimo di idiota, quanto, appunto, di canarino. ovvero di esserino umano che poi crescendo finisce col trovare il suo bravo posatoio: modesto ma sicuro.
Io invece ero sempre stato uno gnu. Introverso e riflessivo. Non che avessi uno specifico oggetto di riflessione, riflettevo e basta. come ruminando, la testa bassa a guardare l'erba bagnata, le gocce minuscoli specchi del cielo. E questo era già ragione sufficiente perché la maestra sorridesse e dicesse: posato e riflessivo.
ergo: due categorie di persone almeno: canarini gialli e gnu.

A dire il vero avrei voluto correrle dietro e urlarle quanto l'amavo, ma in realtà di lei non me n'era mai fregato un granché; o forse questo continuavo, unico antidoto per sopravvivere, solo a ripetermelo senza crederci troppo. Avevo perso ogni forza, e impotente mi limitavo a ricordare: per esempio la prima volta che l'avevo vista. Splendida. a una specie di festa.
Ero abbastanza giù d'umore per via delle solite cose che turbano il fragile universo maschile e avevo accettato quell'invito solo per assecondare il mezzo orgoglio che ancora m'era rimasto: diamoci una smossa, perfavore. mi accorsi di lei molto tardi, quando già alcuni invitati avevano preso ad andarsene ed io m'ero rassegnato ad archiviare la serata come un altro di quei innumerevoli nonnumerabili dopocena alla fine dei quali, rientrati a casa, ci si ritrova esausti e lacerati dall'atroce dubbio che sorbirsi il mauriziocostanzo sarebbe forse potuto essere persino più fruttuoso. Ma la vidi. inspiegabilmente sola e meravigliosa. dovere morale: invitarla a ballare. Ricordo perfettamente che alzandosi dal divano evitò con cura d'incrociare il mio sguardo, ma non poté fare a meno di sorridere. E io non potei fare a meno di vedere quanto fosse bella davvero. e timidissima: al punto che, abbastanza impacciata, mentre mi diceva cose che a dire il vero non rammento assolutamente, continuava a gesticolare pur di non tenermi tutt'e due le braccia al collo. Io facevo finta di ascoltare e la stringevo quanto m'era possibile. Il suo petto, schiacciato appena contro il mio, nel giro di pochi secondi m'aveva completamente miracolato lo spirito; fu allora, dondolandoci stretti l'uno all'altra che ebbi per la prima volta l'impressione di comprendere il mio intero destino... [sarebbe capitato ancora]

Certo è che, anche volendo, non potevo accusarla di alcuna colpa. Per tutto il tempo ch'era durata la nostra relazione aveva sopportato ritardi, malumori ingiustificati, discorsi strani fatti magari solo per il gusto di farli. Sarebbe stata una brava moglie, di questo sono sicuro, e una madre meravigliosa. E qualche volta m'ero persino sorpreso a formulare l'idea che un giorno avremmo convolato: e allora s'affacciavano immagini tipiche: l'altare addobbato, la suocera, la tavola da sparecchiare. i pannolini. Ma più mi rendevo conto che ciò che era assolutamente necessario perché la mia esistenza non si dilaniasse tra vuoti esistenziali e crisi depressive era un affetto stabile, più io ne fuggivo, ripetendo a me stesso che il tragico destino di wanderer era cosa di pochi eletti: mito pseudoromantico che nobilitasse la sfiga pura e semplice. Quindi solo. a parte lo scrivere. che però essendo quasi un lavoro aveva ormai smesso da anni di essere un autentico conforto.
Tutto questo mi faceva sentire in qualche modo ridicolo, ma non avevo alcun pubblico che mi potesse giudicare, pochissimi i motivi che potevano spingermi a riveder le stelle. Decisi di fare una cosa buona. Chiamai Carlotta, le dissi che non ero roba per lei. Pianse. Le dissi allora che lei non era roba per me. Smise di piangere e cominciò a urlare. Abbassando il telefono sentii che mi mandava al diavolo. ci vediamo ciao.
Era fine agosto, presi la moto e me ne andai in spiaggia verso sera; un'abitudine che avevamo preso assieme, nei momenti in cui lo stress da lavoro, il suo, si faceva più sentire: mi chiamava, diceva vieni, io andavo; assieme a bagnarci le zampe, a guardare il sole lasciarsi cadere dietro le montagne con studiata arrendevolezza, come ogni giorno. ma quella sera era ogni volta speciale perché c'eravamo noi, lei, i suoi capelli neri mossi dal vento [bastava una minima brezza], il suo meraviglioso seno appena scoperto... Andai in spiaggia: deserta. solo una coppia tenera, avanti negli anni, che si teneva per mano. Mi sedetti. Durò in tutto forse tre minuti. La sabbia mi dava fastidio. Senza di lei mi resi conto che tutti quei miliardi di granelli di polvere grossa, e tutte quelle gocce d'acqua messe assieme a fare il mare avevano pochissimo senso. Mi accorgo di non avere più risorse senza di te. Azzurro.
Mi ero scordato di riempire le vaschette portasemini dell'uccello: e in effetti mi accorsi tutto ad un tratto che in casa, da un paio di giorni, s'era sentita solo la mia voce, e a volte quella della radio: lo trovai sul fondo della gabbia, ancora giallo. Lavai accuratamente tutta l'attrezzatura per canarini, la riposi nello scaffale e mi misi a tavola. Pollo bollito.

Mi mancava tantissimo. lei, non il canarino. E questo vuoto non faceva che ingigantire tutte le mie innumerevoli altre voragini. La vedevo ovunque, e qualunque donna incontrassi non facevo che ripetere a me stesso, forse persino ad alta voce, quanto lei fosse indubbiamente più bella con quei suoi vestitini leggeri a fiori e le scarpe color biscotto...
Una mattina di settembre me ne stavo abbastanza tranquillo tutto preso da queste graziose considerazioni, sbracato su una panchina di metallo verde; il sole recitava un sereno copione, l'occhio era mezzo chiuso; quando senza alcun preavviso una creatura singolare si avvicinò alla mia poco elegante persona.
- Posso? - disse indicandomi l'unico angolo della panchina che proprio non m'era riuscito di occupare.
Mi chiesi con nevrotica lentezza perché, visto che tutte le altre erano perfettamente vacanti e pulite, avesse scelto proprio la mia: nessun entusiasmo per architettare risposte; lasciai che il silenzio dicesse la sua per qualche secondo quindi, senza grazia alcuna, replicai: - certosisieda.
Cercai di assumere una posizione un poco più umana, poi presi a guardarlo, in maniera quasi morbosa: quell'uomo somigliava straordinariamente a mio padre da vecchio, quando ormai aveva perduto quasi tutti i capelli e cominciava a fare discorsi senza né capo né coda. Il viso, gli occhi incerti un poco tremanti; solo la voce m'era parsa alquanto diversa. Lo continuavo a guardare senza rendermene conto, al punto che dopo un poco, non poté fare a meno di parlare: - Ci conosciamo?
- Non so, non credo... ma mi ricorda qualcuno...
- Davvero?
- Si, la... la somiglianza è incredibile, incredibile...
Annuì vistosamente, come se in realtà volesse provare se l'articolazione del collo era ancora a posto. - Chi le ricordo, se non sono indiscreto... - Parlava con lentezza, scandendo ogni parola.
Rimasi qualche istante in silenzio. - Un mio parente, purtroppo scomparso. Una persona cui volevo bene.
Il vecchio sorrise.
M'ero minimamente commosso.
- Ma non ci siamo ancora presentati, - sguardo a cercare una intimità inesistente - Miraglia, ragionier Ugo Miraglia.
Pensai che un ragioniere Ugo dovesse fare per forza Fantozzi di cognome, e sorrisi stupidamente della cosa. Dovette accorgersene, ma con estremo garbo stirò un poco le labbra, mentre io scandivo le mie generalità.
- Dottore in cosa, se non sono indiscreto...
Glielo dissi, e gli parlai un poco della mia storia recente, del mio lavoro e di molte altre cose, evitando però accuratamente di fare riferimento alla mia vita sentimentale. Ma dopo una buona mezzora di conversazione ci arrivò lui: - Vedo che non porta la fede.
Dovetti arrossire un poco, o comunque dare segni di imbarazzo, al punto che il vecchio con un occhio un poco strano se ne uscì chiedendomi se percaso fossi omosessuale. Gli risi in faccia d'una risata liberatoria. - No, perdio! É solo che è un periodaccio...
Lo vidi farsi d'improvviso scuro; mi guardò un poco, come a cercarmi addosso le parole, poi, civettuolo, replicò: - Be', non è mica una disgrazia...
Rimasi in silenzio, cancellando subito quella smorfia dal viso. ero sinceramente interdetto. Curioso, ma mi accorsi di non aver mai pensato, fino a quel momento, a cosa potesse significare quella condizione da vecchi; rovistando un poco tra le mie convinzioni ritrovai solo l'idea che tutt'al più potevo considerarla l'impotente vestigie d'un capriccio passato. [ci avrei lavorato un altro giorno]. Adesso ce l'avevo davanti: ma proprio quell'aspetto esteriore rendeva la cosa un poco buffa, anzi spiazzante. Cercai prima possibile di cambiare discorso. Gli parlai del canarino, cui avevo dimenticato di dar da mangiare.
- Ho una voliera. Se la cosa la interessa, e non ha nulla di meglio da fare, potrei mostrargliela con piacere.
Voleva farmi vedere i suoi uccelli. Risi, ma dentro, onde evitare altre brutte figure. E nel frattempo filosofai un poco: possedere numerosi volatili poteva rappresentare in qualche modo il tentativo di porre metaforico rimedio agli spiacevoli inconvenienti della vecchiezza...
Riprese: - Sa... tra gli altri, possiedo un canarino speciale. Lo si direbbe qualsiasi, anzi scadente, per via del suo colore piuttosto smunto, ma invece... invece é un portento. Sapesse, quando lo metto nella gabbietta, da solo, che voce tira fuori. Un vero tenore...
Ebbi una visione: un canarino enorme, sopracciglia e barba foltissime nere, cantare.
- E io, - riprese tutto contento - io ho capito per chi canta. Ha la sua canarina preferita... Se li vedesse insieme...
Poverino. - Si, sarebbe interessante, ma non oggi. Ho da metter su un articolo sulla riforma scolastica.- Falso. Esitai un poco -... Sarò qui anche domattina. La mattina, a parte la domenica, che dormo fino a tardi, sono sempre qui, per ora. - Falso. In un mese era la seconda volta che capitavo da quelle parti. Io abitavo in un altro quartiere addirittura, ma quel posto m'era sempre piaciuto, sin da piccolo, quando con i miei genitori ci andavo la domenica a prendere il gelato; e forse continuavo a tornarci proprio per questo motivo, ma solo ogni tanto. - É stato un piacere - Vero, tuttosommato.

Era ormai quasi ora di pranzo. M'infilai nel supermercato sotto casa e comprai dei cuori di merluzzo surgelati. bianchi e tristi. Estraendo la vaschetta dalla confezione vidi quei quattro pesci puliti e ghiacciati, decisamente morti. Dieci minuti di microonde, due capperi, tonno in scatola, pane raffermo, pomodoro a pezzettini, cento secondi di tegame, olio sale e spezie: passai praticamente l'intero pomeriggio a passeggiare lungo il corridoio, fermandomi ognittanto a premermi il ventre, nel tentativo di facilitare così il faticoso processo digestivo. fu molto importante, perché ebbi modo di analizzare finalmente con cura la mia situazione generale; e persino con una certa fiducia di venirne a capo. Avevo come la sensazione di aver evitato, rimandato ogni volta, una seria discussione con me stesso. A un certo punto, verso le cinque, scattai dal water con le mutande abbassate, corsi allo specchio della camera da letto e urlai: - cosa cazzo sei.
Mi vidi riflesso, mi diedi del mezzo scemo e senza che quel pezzo di vetro e argento m'avesse degnato d'una sola risposta tornai a riprendere la mia seduta pressoché inutile. Summary of the situation: solo, quasifallito, appartamento di proprietà ben ammobiliato, buona cultura. Pensai ad uno di quegli annunci per anime sole. appunto.

Il mese di settembre, sul finire, aveva portato gradevoli novità: tra le altre cose una rubrica di costume tutta mia; e ricevevo addirittura le mie brave lettere, in genere troppo stupide e scritte troppo male perché la mia attenzione se ne curasse fino in fondo. finché un giorno sulla mia minuscola scrivania portarono una busta con su scritto il suo nome. Esitai un poco a scartarla (confesso che odorai la carta, ma purtroppo non ci trovai alcuna traccia del suo amato profumo): Come nei migliori romanzi mi dava appuntamento nel parco, in una precisa panchina che ben conoscevo. non potei fare a meno di fantasticarmi principe e immaginare lei la mia adorata Aglaja...
Non racconterò le convulsioni neuronali, né la notte insonne, né le ore nevrotiche della mattina che seguirono prima che l'orologio d'un passante nel parco mi confermasse l'orario convenuto. La panchina era libera, e questo era già per me un buon segno. Stringevo in una mano dei fiori, avvolti in una carta dura arricciata rosa. Lei si presentò con qualche minuto di ritardo, vestita di beige e marrone, sul naso un paio di occhiali da sole firmati vistosamente. Era meno bella di quanto ricordassi, e sembrò non accorgersi subito della mia presenza, al punto che in un primo momento si diresse verso la panchina; poi mi vide, un poco defilato coi miei fiori, e venne a salutarmi.
- Sei bellissima.
Togliendosi gli occhiali diede un'occhiata alla composizione vegetale - Grazie. Non dovevi...
Non dovevo.
- Come va?
- Non male. E poi... donne donne donne... Guarda, non ne posso proprio più!
Fece finta di sorridere. Non era contentissima di vedermi
- Scherzo, ma il lavoro va bene. Ho una pagina tutta mia, sai?, ogni settimana.
- Lo so, lo so. Sono sempre stata una tua affezionata lettrice. - momento di pausa significativa - E Carlotta... come sta? esami, ne ha dati?
Il mio entusiasmo iniziale era del tutto svanito. E portare dei fiori s'era rivelato completamente fuori luogo. e mentre cercavo i suoi occhi dietro i vetri scuri, mi chiedevo perché cacchio Madrenatura avesse voluto farmi dono di un sesto senso talmente imbranato. - Non ho idea. Non ci vediamo più... Sai, io...
- Ah si?... É un vero peccato.
Occazzo niente di buono.
- Devo parlarti, stammi bene a sentire.
- Dimmi...
- Ascoltami. Da quando ci siamo lasciati, sono successe molte cose... - Parlava in maniera strana. La voce, l'atteggiamento non li riconoscevo. Né mi piacevano. tante parole: amicizia, fiducia...: troppe parole. e lettere singole. Ma mentre la sua bocca si apriva, il mio unico pensiero era quello di sfiorarle le labbra, o magari avvicinarmi ancora un poco per sentire di nuovo il suo odore.
- Mio caro, sono incinta.
Silenzio. - Prego?
- Incinta.
In cinta. in.
- E di chi?
- Di te, cretino! Per questo te lo sto dicendo. Maurizio non lo vuole, io neanche. Ma ho pensato fosse giusto dirtelo, prima.
- Maurizio. Prima. Prima di che?
- Prima d'interrompere la gravidanza, no? ivvuggì. Ma mi hai ascoltata?
Il vuotissimo nulla m'invase. Interrompere la gravidanza. più o meno come si interrompe un discorso noioso?
La tranquillità, la noncuranza quasi, con cui parlava di assassinio in utero mi diedero il voltastomaco. L'avevo sempre ritenuta una gran donna, e invece, adesso... Maurizio, colpa di Maurizio! Chi diavolo era questo Maurizio?
- Mia cara... Che cavolo vai dicendo? Chi è questo finocchietto per decidere di mio figlio, eh? nostro figlio.- Senza volere sottolineai un po' troppo quel nostro, come volessi farle notare che l'amore che ci aveva uniti aveva finalmente trovato un'inconfutabile dimostrazione d'esistenza. un amore che forse aveva proprio per questo il diritto di vivere ancora. Ma la prese maluccio. Mi guardò un poco, rimanendo seduta mentre io ero già saltato in piedi. - Mi fai schifo. Ho sbagliato un'altra volta. - La voce era ferma, senz'alcun'ombra di incertezza: le facevo schifo sul serio.
Rimasi fermo, con un ginocchio appoggiato sulla panchina, impotente. Lei andava, e io sapevo che difficilmente l'avrei rivista. Un figlio, pensai. strano. - Salutami Maurizio! - le urlai dietro, ma lei neppure si voltò.
La donna di cui in qualche modo - intendo nell'unico modo a me possibile - ero stato follemente innamorato, portava dunque in grembo una creatura cui io avevo dato il mio attivo contributo, e che forse crescendo avrebbe potuto persino somigliarmi; ma una schifezza d'uomo, al secolo Maurizio Nonsocome, aveva deciso di raschiarla via dal suo umido nido e privare il mondo intero della sua presenza futura possibile, dei suoi sorrisi, dei suoi dentini. Non solo, ma molto probabilmente ero appena venuto a conoscenza della causa vera per cui mi aveva abbandonato. C'era stato quindi realmente qualcun altro. I giorni che seguirono quell'incontro li ricordo assolutamente confusi, ammorbati da una bava scura. Anche il sole sembrava essere ovunque ma in nessun punto preciso nel cielo; così come la mia stessa esistenza, che pareva non avere altre pretese che spalmarsi sopra i giorni. unico conforto: camminare, a lungo, fino a stancarmi, per raccogliere la poca luce che trovavo per strada, dimenticata da passanti distratti. E per quanto straziante sentissi il desiderio di parlare con un amico qualunque, sembrava che davvero nessuno si rammentasse più del mio nome. persino il giornale, viste le fesserie che avevo cominciato a scribacchiare, preferì fare a meno delle mie collaborazioni. ma nella merda ci sguazzavo. Avevo la pittoresca sensazione di trovarmi in un porcile, nel quale dimenarmi allegramente; e benché sentissi un impellente bisogno di fare ordine nella mia esistenza, proprio non mi riusciva, per quanto mi guardassi intorno, di trovare un appiglio possibile. A volte mi sorprendevo a piangere per niente, commosso magari per una notizia del telegiornale; non scrivevo più, leggevo pochissimo; e se mi capitava d'impugnare una penna funzionante sopra un foglio era solo per fermare strampalate poesie e irrazionali liste della spesa. che poi puntualmente non rispettavo. Al supermercato ci andavo con lo sguardo basso, accecato dalle troppe luci del bancone dei formaggi, imbarazzato dalle persone, non vedendo l'ora di uscirne per fuggire in casa, solo, al riparo, con i sacchetti pieni di yogurt e biscotti per il latte. Avevo ancora qualche lira da parte, ma cominciavo a vedere lo sportello del bancomat come una specie di mostro senziente, che prima o poi m'avrebbe presentato uno scontrino imbrattato di sangue. Né mi chiedevo neanche più quali potessero essere i motivi per tirare avanti, dando per scontato che nel mio caso non ce ne fossero. Continuavo a ripetermi che ero stato con un angelo, che quell'angelo probabilmente m'aveva voluto davvero bene, e che però il creatore supremo, visti tutti i miei insopportabili demeriti, aveva deciso di richiamarlo a sè. lodi a te maurizio, generosofacitoredituttelecose.
Sera dopo sera, presi una curiosa abitudine. Il tempo era ancora bello e, indossato il cappotto blu, mi mettevo seduto sul terrazzo. guardavo i palazzi, più bassi e più alti. Il cielo rosa per le luci delle case. Allora ripetevo il giorno e la data completa, cercavo la luna se c'era, e cominciavo a raccontarmi cosa m'era successo, o m'era potuto accadere, in quel giorno, per ogni anno che avevo vissuto. Là dove non giungeva la memoria, andava la fantasia. Era tutto molto confortante, soprattutto perché mi regalava la sensazione di poter concentrare l'intera mia esistenza in poche parole, in qualche episodio più significativo. E questo voleva dire sostanzialmente possedere la mia storia, in tutta la sua banalità, pronto a farla entrare in un unico sacchetto di spazzatura...

Ricordo invece che una domenica la passai tutto il giorno o quasi seduto alla mia scrivania, senza fare niente; guardavo il ripiano, e continuavo a ripetermi di pensare a qualcosa, ché mi avrebbe fatto bene. Ma senza avere il coraggio di alzare lo sguardo mi dimenavo perso nel nulla; che in fondo finiva per essere pura speculazione sulla mia essenza. Niente. Rimbombava la mia testa vuota. Driiin. la mia testa vuota. Driiin. Rimbombava. doveva essere il telefono. costrinsi la testa a ruotare un poco. Driiin. una grossa lucciola nera di plastica s'illuminava a tratti di verde. Driiin. Provai a calcolare quanto tempo era passato senza che nessuno avesse avuto il coraggio di chiamarmi. davvero solo al mondo. Driin. Mi ritornò alla mente quella scena in cui Fantozzi risponde a uno sconosciuto che aveva sbagliato numero. Risi. Drin. Stesi il braccio per prendere il telefono, ma la lucciola era morta. Mi assalì uno sconforto immenso, quasi insostenibile; mi sarei frullato la lingua. Riprese a squillare. - pronto?
Voce femminile, bello, chi era? - Pronto?
- Chi è?
- Sono Valentina, quanto tempo! Ti ricordi? Come stai?
non capivo. Provai a ricordarmi di tutte le Valentina che avevo conosciuto, ma a parte una non notevole fanciulla con cui ero stato ai tempi del liceo, il vuoto assoluto regnava.
- Non dirmi che non ti ricordi!
- Si che mi ricordo, solo che in questo momento... non mi sovviene...
- Valentina, l'amica di Fannie, Lago Maggiore... Saranno un cinque anni ormai.... ti ricordi?
- Porca! Eh, scusa, si che mi ricordo! - Ero rinvenuto all'improvviso. Se non ricordavo male era una gran bella fanciulla, traviata al punto giusto - Valentina... come stai? Dove sei? Dimmi tutto!
- Sono in città, sono arrivata stamattina. Magari disturbo...
- Ma che dici...
- Be', mi devo fermare qualche giorno per dei provini in agenzia. E siccome conosco solo te qui, pensavo... Se non do troppo fastidio, lì da te, mi basta un buco, un camerino... tre o quattro giorni al massimo! Sai, una stanza in albergo, al momento...
Sull'esistenza dei miracoli. Diedi una mezza sistemata alla casa e corsi a prenderla. Il marpione ch'era in me s'era improvvisamente risvegliato. Fu precisamente in quell'occasione, mentre intrattenendo una garbata conversazione la accompagnavo nella mia alcova, che realizzai quanto fosse di gran lunga più efficace la repentina comparsa d'una femmina - peraltro, a guardarla bene, neanche tanto bella - che un intero anno di prozac. Ma nonostante il mio charme, che certo doveva essersi un poco arrugginito, lei continuava solo a sorridermi e guardarmi sbavare divertita. Attimo dopo attimo costruivo una pessima previsione. Non credo, non credo proprio. mi sa che non va. A un certo punto, dopo aver cenato, verso le undici, mi propose di fare due salti in discoteca. Non me lo feci ripetere. La donna si agita, suda: ero eccitatino.
Il locale che mademoiselle aveva scelto non era esattamente il tipo di posto che io ero solito frequentare: appena entrati - dopo fila lunghissima - mi resi subito conto che una delle attività più interessanti in cui mi sarei potuto cimentare sarebbe stata la catalogazione rigorosa scientifica per forma e per colore delle innumerevoli varietà di pasticche che i miei vicini si andavano calando. Ma finsi di essere assolutamente a mio agio, e improvvisai una ridicola camminata ciondolante, tipo Maurice Green. Valentina si allontanò un attimo; alla sua ricomparsa ricevetti la richiesta di un paio di bernini, richiesta accompagnata da lussuriosa promessa di ricompensa: gran brava ragazza. Non potevo rifiutarmi se tenevo ancora alla sua sincera amicizia, così sganciai, soffrendo tantissimo e ringraziando la scarsa illuminazione del locale. La musica, per quanto ne potessi capire, era una specie di house techno rock; comunque anni luce distante dal mio amato Schubert. ma continuavo a ripetermi che anche lui, per necessità... consolazione minima. Tornò dopo una decina di minuti, che avevo trascorsi seduto ad osservare individui alienati e sorridenti il cui principale interesse sembrava essere la caccia ai suricate nani, con due pillole strette nel pugno: ippomane sintetico. Una doveva averla già presa, perché la vidi particolarmente pimpante. Mi abbracciò, premendo il suo scarso petto contro il mio sterno, e in punta di piedi mi morse un orecchio, sussurrandomi di stare al gioco. Era sudata, e forse aveva dimenticato di spruzzarsi un po' di deodorante. All'improvviso vidi le persone farsi troppo vicine, e soprattutto lei, la percepii sporca, con fastidio. Me la scrollai di dosso, con un gesto che dovette stupirla: mi mandò a quel paese; pensai che forse tornava dal pusher, a farsi ridare i soldi. Ma non vedendola tornare realizzai che molto probabilmente stava giocando al dottore con qualcuno più furbo di me. Diedi un'occhiata al dj, un bel tipo in carne colla testa rasata, mi convinsi che mai e poi mai avrebbe messo un disco di Schubert, e così decisi di aspettarla fuori, in macchina. Fino alle sei. Faccia stravolta, post pasticcam, ma soprattutto post fornicationem. Riaccompagnandola a casa [la mia] cercai di pensare a tutto tranne a quello che le era potuto accadere lì dentro. Nel frattempo continuavo a farmi i complimenti. e a pensare seriamente a una bella cura di prozac. La guardavo distesa sul sedile, senza capire esattamente se la trovavo bella oppure brutta, se la disprezzavo o in qualche modo l'avrei dovuta ammirare per quel coraggio di sballarsi che io non avevo avuto, mai; e comunque non sapevo bene come giudicare me stesso: vigliacco? eroe nella mia invincibile determinazione?
Mentre impugnavo quel timone di plastica mi perdevo piuttosto a ragionare sui viaggi che avrei dovuto compiere, anziché galleggiare in un porto annebbiato, dall'acqua scura. Scorgevo i cento futuri possibili, ma fiaccato dalla triste convinzione che in fondo nulla potesse cambiare veramente; e così finivano per essere molto più consistenti le mie vite fantasticate, piuttosto che quella, trasparente, vissuta per davvero. laddove vivere significava cedere il passo ai giorni soliti e diversi, e solo ognittanto, quasi miracolo, lippare un poco di autentica esistenza.
Con buona probabilità la chiave di tutto risiedeva nella solita figura anonima incolore che aveva amministrato la mia esistenza negli ultimi ventotto anni, e aveva ancora una volta preso le redini, me sornione. Io che cadevo nel solito errore, dicendo di non esser me stesso, di non essere quasi mai quello che veramente ero, adducendo ridicole scuse: stanchezza persino, o l'impegno per altri più importanti pensieri; quali poi, era tutto da vedere. Insomma fuggivo dalla mia architettata essenza, forse perfetta, ma ormai estranea del tutto ai miei giorni; che mi limitavo a condannare, dicendoli frutto di chissà quale estranea presenza; mentre nel frattempo una fanciulla di quelle non troppo difficili s'era concessa al solito altro; che però, si noti il triste gioco di concetti, non coincideva affatto col mio altro, sotto quest'aspetto sfigatissimo anche lui. Insomma il trionfo dello gnu. E tutto questo mentre il mio più erebico inconscio covava nascosto l'immenso prepotente desiderio di risvegliarsi un giorno e specchiarsi gigantesco canarino. spiumazzato giallo e incazzato con il mondo.

Vagolai incerto qualche giorno, aspettando che a Valentina fosse comunicato l'esito negativo dall'agenzia e se ne tornasse da dove era venuta; ci salutammo appena. Non potevo dirmi triste, e tuttavia avvertivo una curiosa sensazione: volevo come infiocchettare il mio passato in un lenzuolo sporco, salvandone giusto un paio di tratti... Chiamai Carlotta; forse potevo ricominciare proprio da lei.
Ero assolutamente convinto che in tutto quel tempo lei avesse aspettato da sola il mio ritorno. Devo riconoscerle tuttavia un gran tatto, che usò per spiegarmi che aveva messo su una relazione con un ragazzo poco più grande di lei, iscritto in medicina, terzo anno. D'altronde, nonostante tutto, nei miei rapporti con gli esseri umani, e in particolar modo col gentil sesso, avevo sempre preteso d'essere io l'unico arbitro. L'unico che potesse decidere se mandare avanti o meno una storia, l'unico che potesse troncarla di netto. Che poi i fatti m'avessero sempre puntualmente smentito, poco importava: la mia stupidità consisteva appunto in questo. E io la guardavo regnare, alquanto impotente. Perché apparteneva a quell'altro. Pensavo a quante creature meravigliose erano fuggite da me, non appena s'erano accorte del mio strano odioso carattere. Maledicevo questo tarlo, ma ne ignoravo il nome. Il mio stesso nome forse, così semplicemente... Parlando quel poco a telefono con Carlotta, m'ero accorto di quanto fosse donna intelligente, e quanto stupido fossi stato io a liquidarla in quel modo, lei che un tempo, senza dubbio, era stata innamorata di me. Feci una lista delle persone al mondo che sicuramente mi amavano. Il pallore del foglio immaginato mi spinse a ridimensionare l'entità del sentimento: vediamo almeno chi mi vuole bene... Rinunciai, per un poco. Poi ebbi l'illuminazione di partire da sotto. Chi poteva odiarmi? nessuno. Disprezzarmi? magari Valentina, un poco, ma a quest'ora già aveva dimenticato.
Non restava che la pura indifferenza.

Ci volle parecchio tempo perché le cose prendessero una piega migliore. Solo qualche settimana dopo per caso fui invitato ad una festa; gli dèi tutti avevano deciso che quella sera fossi particolarmente attraente e persino spiritoso. Dio in persona aveva invece disposto che a quel raduno di mortali partecipasse addirittura un angelo. il più bello degli angeli femmine. Dopo mille anni di torpore cardiaco, un fulmine mi carbonizzò letteralmente: e lei volle svelarmi il suo sorriso. Quasi piangevo, quasi. Mi armai di coraggio neanche dovessi partire per una nuova crociata, e mi diressi verso la luce. Cercai di comportarmi da persona educata, nei limiti in cui può essere educato un orso appena uscito dal letargo. Presentandosi mi offrì una mano bianca e morbida, ben curata. Ci scherzai un po' su: - mani da pianista. Rivelano una straordinaria sensibilità... - Ero fiero della mia ardita proposizione e della mia tonante voce da baritono.
- Mi sono diplomata l'altr'anno anche in clavicembalo. Ha presente il clavicembalo?
- Più o meno. Come un pianoforte, solo un po' più piccolo... e soprattutto più vecchio! - Risi contento della mia arguzia, ma lei sembrò non apprezzare. Alla fine accennò un sorriso cortese. Sembrava perfetta. Dico sembrava perché l'esperienza mi ha insegnato che di una persona, primo: non la conoscerai mai completamente, neppure dopo vent'anni di matrimonio e dodici bambini; secondo: nessuno è perfetto. Comunque sembrava perfetta. Ci volle del tempo perché mi decidessi ad usare il suo numero di telefono, ottenuto tramite i soliti sotterfugi. Sulle prime sembrò non ricordarsi neppure di me, ma già prima di comporre il numero avevo richiamato alla coscienza una vecchia lezione: quasi mai quello che una donna ti dice, laddove sospetti che ci stai provando, risponde a verità; e quindi ressi perfettamente a quel primo affondo. Pian piano recuperò la memoria, si rammentò della mia voce, mi raccontò un po' delle sue ultime vicende. E cosa abbastanza importante mi parlò di affari di cuore: una storia drammatica dalla quale stava uscendo solo adesso. Sai, credevo di aver trovato l'uomo della mia vita, pensavamo già al matrimonio, è durata due anni, poi lui m'ha lasciata per un'altra. Bla. Naturalmente lei era ancora innamorata, ma questo pregiudicava pochissimo le cose: sarei dovuto essere solo un po' più carino e paziente del previsto, nient'altro. Ci frequentammo, molto saltuariamente, per circa due mesi, senza che il contatto tra di noi si spingesse oltre il bacino del saluto e il tenersi teneramente per mano, magari passeggiando sulla spiaggia, cosa che continuava maledettamente a farmi ricordare altri tempi. Ricordo che furono due mesi terribili, e insieme stupendi. Come un quindicenne foruncoloso, passando vicino al telefono, mi capitava magari di contemplarlo per un buona mezzora, senza fare assolutamente nient'altro. Aspettavamo trepidanti, io e quello stupido pezzo di plastica, che lei chiamasse per sentire di nuovo la sua voce morbida come un semifreddo. e bastava una telefonatina di tre minuti per un'intera settimana di appagante ebetismo. Ma venne una sera. disse che doveva parlarmi, con aria abbastanza triste: pensai che doveva aver percepito quella mia distrazione, quel pensare ad un'altra, ogni tanto, pur tenendo la sua mano nella mia. Citofonai alla solita ora. - Sali. - Un'istante che chiudo la macchina. Non sapevo se essere contento, perché era la prima volta che mi faceva salire, o piuttosto sul triste per quella voce un poco tremante evaporata dalla griglia d'acciaio. Un'occhiata allo specchio dell'ascensore: perfetto. Secondo piano. La porta era aperta, chiusi, non vidi neppure la casa, peraltro quasi tutta al buio. - Si può?
Lei stava sul corridoio, indosso solo un paio di slip.

Al mattino le chiesi un ultimo bacio, destinato ad essere uno dei ricordi più teneri della mia esistenza. Un bacio leggero, tra labbra che si accarezzavano, percependosi perfettamente l'un l'altra. - Non provi niente, vero? - le chiesi alla fine stupidamente, la voce mezza rotta. Lei non rispose.
Me ne andai da lei con l'ancor più stupida convinzione che quella notte d'amore l'avesse voluta come dovuto compenso per le mille attenzioni cui m'ero prodigato in quei mesi, per la pazienza che le avevo offerto; nient'altro. E quell'idea mi faceva stare malissimo. In fondo avevo raggiunto la tanto agognata meta erotica; ma il cuore era in pezzi perché ero stato con una donna che non amava me, che sembrava avermi dato l'unica cosa che poteva darmi, cosa che in quel momento, a dire il vero, m'interessava pochissimo.
Comunque fu in quell'occasione che presi il vizio di scrivere poesie. La definii angelo strano, "che non vola ma galleggia / che ha imparato a mentire / che fotterebbe un demonio. / Ma io leggo nei suoi occhi / e nei moncherini d'ala, / e non vedo nulla di buono... / Ha un gran senso della pietà / questo mio angelo strano, / un gran senso della pietà..." E la vittima successiva della sua pietà ebbi modo d'incontrarla più o meno un mese dopo, ad una festa data dai soliti amici, che avevo ormai preso a frequentare assiduamente, mentre di lei avevo saputo che preferiva visitare altri lidi. Proprio da quei lidi aveva raccolto un uomo, abbastanza piacente, con la faccia di quello che sembrava non aver colto l'essenza della cosa, mentre lei prodigava forzati sorrisi, sorvegliati da due occhi che conoscevo bene; occhi che tradivano un senso di colpa immenso e quell'inconfondibile gran senso di pietà. Ne parlai con un'amica, sottovoce. - É ancora innamorata di quell'altro: come si vede... - Piansi un poco per l'inconsapevole pollo, quindi mi tuffai in una danza molto poco aggraziata ma che fece un gran bene al mio spirto.

Verso maggio ero riuscito a convincere una casa editrice abbastanza importante a pubblicare una raccolta di poesie, in gran parte traduzioni dal Francese. quindici giorni dopo su un quotidiano nazionale un critico col doppio cognome aveva scritto buone cose su quel libriccino - lodi all'estro originale capace di elevare l'opera dal piano di una mera traduzione, ma anzi plasmandola in una creatura nuova e roba simile - augurandosi che presto ci sarebbe stato un seguito. [ci sarà porcellino, ci sarà]: e m'ero subito rimesso al lavoro. L'importanza di quel successo fu per me enorme e bastò da sola a darmi l'entusiasmo necessario per riprendere un'esistenza normale. Avevo l'impressione di attraversare un momento cruciale: per la prima volta in tutta la mia esistenza facevo per vivere quello che volevo (senza essere cioè obbligato a scrivere di cose che potevano interessarmi solo minimamente) e sentivo che se l'avessi sfruttato a dovere, si sarebbe potuto felicemente protrarre per un bel po' di tempo.. Nel frattempo avevo conosciuto una violoncellista giapponese, dal nome bisillabico, carina, che suonava in orchestra e mi adorava. Era molto bello il giovedì sera dopo il concerto passeggiare ascoltando i suoi discorsi a proposito delle corde tedesche: mi rilassava tantissimo e mi dava la possibilità di organizzare la settimana seguente fin nei minimi dettagli. Comunque non mi facevo troppe domande e stavo tranquillo. A un certo punto qualcuno mi venne a riferire che se la faceva col primo violino. ma non ebbi quasi modo di turbarmene perché dopo tantissimo angoscioso silenzio mi aveva appena chiamato l'unico amore della mia vita.
Ciaocomestai.
Sulle prime fui allarmato: ci fosse di mezzo un altro bambino? Man mano che la sentivo parlare, però, il cuore s'allagava di nuovo. mi chiedeva perdono, di tutto; aveva lasciato Maurizio, voleva vedermi, diceva d'avere sbagliato. Non potei fare a meno di crederle; e del resto non avevo smesso un solo istante di amarla (solo, ad esser sincero, ci misi un poco a dimenticare che il suo corpo era stato accuratamente esplorato per mesi dalla schifezza d'uomo, ma tant'è...).
Fu meraviglioso tornare a metterle il broncio per qualche minuto, fingendo di essere molto arrabbiato; meraviglioso rivedere la spiaggia con quegli occhi innamorati d'una miopia sconcertante, meraviglioso inebriarsi ancora del suo odore e averla di nuovo mezza nuda per casa, a riempire un vuoto che neanche cento canarini avrebbero saputo colmare. Di nuovo non m'era rimasto un solo angolo vuoto di lei, dolcissima intrusa in ogni pensiero: era lì, ovunque io andassi, anche quando credevo che il tempo dovesse essere mio. Tornai insomma ai vecchi equilibri, d'una confortante prevedibilità, con la consapevolezza che essi soli potevano darmi ciò che comunemente si chiama lo star sereni: e dapprincipio giuravo ogni giorno che avrei fatto il possibile per mantenerli.



L'idillio andò avanti per circa un anno, finché una mattina, a letto, aprendo gli occhi, la trovai già sveglia. sulle lievi occhiaie lessi che aveva dormito pochissimo, ma ripetei a me stesso per la centesima volta che anche così era straordinariamente bella. Stava pensando a come farmi quella domanda che aveva sempre rinviato.
-Io credo sia giunto il momento, non trovi? - la voce era dolcissima, come forse non era mai stata; e io ringraziai di trovarmi già disteso, perché le gambe tremarono un poco.
- Un paio di mesi, - le dissi abbozzando una specie di sorriso - giusto il tempo di organizzare le carte.
Provai allora una sensazione curiosa: sapevo benissimo che a quel punto sarebbe stato giusto e bello soprattutto (in pratica doveroso, con gradevoli apparenze di spontaneità) baciarla; stringerla al petto largo e villoso (in particolare villoso) per dimostrarle quanto fossi buono e forte. e innamorato. Ma per una buona manciata di secondi mi sembrò invece di assumere le sembianze del peggior Woody Allen, e rimasi fermo, paralizzato in un'espressione stupidissima. Non mi restavano che sessanta miseri giorni. non troppi di più, dal momento che anch'io, nel mio piccolo, coltivavo una certe dignità.
Dieci minuti dopo la vidi uscire dal bagno linda e felice, al punto che non potei fare a meno di sorriderle: davvero troppo bella; ma appena uscì di casa mancò poco che urlassi: non sapevo bene di cosa avessi paura, in fondo si trattava di mettere per iscritto qualcosa di già ben consolidato, di formalizzare un'unione bellissima che mi rendeva felice. non che mancassero i contrasti, magari minimi, ognittanto: normali discussioni tra coniugi. Che comunque ancora non eravamo. tra conviventi, persone che trascorrono l'esistenza sotto lo stesso tetto. e sono liberi di sciogliere quel laccio se qualcosa dovesse non andare più bene. meravigliosamente bene. La casa era mia: sarei rimasto dov'ero. lei avrebbe dovuto cercarsi un'altra dimora, lei non io. casa mia... ed ero io a mantenerla: vitto e alloggio! e che vitto... pranzi da re. e i regali, anniversario compleanno natale pasqua pasquetta. l'onomastico: festa stupidissima. ho sempre odiato l'onomastico: ci sono milioni di persone che hanno lo stesso nome! non ha alcun senso.
Dovevo assolutamente parlare con qualcuno. Ricordavo ancora perfettamente un solo numero di telefono: - Pronto? Carlotta!
- Sono la madre, Carlotta non c'è. può chiamare più tardi, a ora di pranzo. Lei chi è?
- Un amico.
Dovevo vederla, diomio, ed erano ancora le nove! Presi la moto per fare un giro, sperando che il vento in faccia m'avrebbe soffiato via dalle meningi tutta quella nebbia dura come cemento. ma benché più volte avessi infranto i limiti di velocità non m'era riuscito assolutamente di formulare un pensiero che avesse un barlume di senso. ascoltavo piuttosto i due cilindri pettegolare tra loro a quaranta orari, le mani troppo strette ai manubri che cominciavano a farmi male. In fondo non sarebbe cambiato nulla. una firma, nient'altro. poi Marito. e moglie. marito. di una donna che a suo tempo m'aveva graziosamente ornato d'un bel paio di palchi... e che s'era detta pentita, dopo che quel coso l'aveva scaricata malamente; o magari ancora si vedevano. fornicavano alle mie spalle. forse in quello stesso momento. e ridevano di me tra un amplesso e l'altro...
Ma io dicevo d'amarla! aprendomi il petto, rovistando tra ventre e cervello, proprio non mi riusciva adesso di trovare qualcosa che potessi sinceramente definire amore. mi piaceva, d'accordo, era carina, anzi era bella, sicuramente bella, e affascinante, piena di grazia, di una straordinaria naturale eleganza; ma più che altro m'ero abituato a lei, alla sua voce morbida come un liquore. Ecco, forse da una vescica sul pericardio avrei potuto estrarre la speranza che un giorno quell'accomodamento di affetti si decidesse anche ad un minimo volo. ma era solo il profumo di cose a venire; o meglio già successe e forse sepolte. Lei ripeteva ogni tanto, sussurrando dentro un orecchio, di amarmi; ma questo forse significava solo che anche lei stava bene con me, ed era convinta che cercare un'alternativa sarebbe stato fin troppo faticoso. e probabilmente anche a Maurizio aveva promesso amore eterno.
Benché avessi scelto un giro lunghissimo arrivai sotto casa di Carlotta prima del previsto. La madre per citofono mi fece sapere che ci sarebbe voluta ancora un'oretta. - Va bene, aspetto giù. grazie.
Ci volle ben più di un'oretta, ma verso l'una meno un quarto, dopo un tempo che mi sembrò all'improvviso troppo lungo, rividi Carlotta.
- Ciao - aveva tagliato i capelli e i suoi occhi verdi sembravano ancora più belli.
- Ciao. Qual buon vento?
incredibile: sembrava non provasse alcun risentimento nei miei confronti; contenta di rivedermi, possibile? eppure ricordavo di averla trattata maluccio. addirittura si avvicinò per abbracciarmi. non so dire che mi prese, forse fu percepirne di nuovo l'odore, sentirla così vicina, così inaspettatamente; fatto sta che un lampo improvviso bruciò letteralmente gli ultimi centocinquanta pensieri. e un dubbio mi assalì atroce: che fossi sul punto di compiere l'errore più grave di tutta la mia vita?
Parlammo per più di un'ora. meglio: rimasi ad ascoltare la sua voce praticamente in perfetto silenzio, limitando a giustificare quell'incontro con la semplice nostalgia per tempi che lei stessa riconosceva meravigliosi. Mi disse qualcosa dell'università, del ragazzo iscritto in medicina che l'aveva piantato per un'altra da quasi sei mesi, dei lavoretti che s'era dovuta inventare perché non voleva assolutamente che le tasse le pagassero i suoi. adesso dava ripetizioni a due ragazzini delle medie, un certo Francesco e un altro. Fu lei a prendere l'argomento: - E con...
- Stiamo ancora assieme, ma i rapporti sono sul genere pinguino-pinguino...
- cioè?
- Tiepido tendente al glaciale. Lei d'altronde ha la sua carriera, e io non posso pretendere di vederla troppo. Poi c'è quel Maurizio, un bastardo, si sentono ancora. Probabilmente vede più lui che me...
- poverino... - mi accarezzò la guancia. e io non provai alcun rimorso. tutti e due abbandonati, guarda che combinazione... Era diventata davvero una bellissima ragazza.
- Posso rivederti?
- certo, anche domani se vuoi.
- domani, domani va bene. a che ora?
- se vieni alle otto e mezza mi puoi accompagnare all'università.
- d'accordo. il casco ce l'hai ancora, vero?

Così riapparve Carlotta nella mia vita. E giorno dopo giorno, mi rendevo conto che era esattamente la donna che mi era venuta a mancare in tutti quei mesi. Dolcissima la sua voce un poco tremante quando stavamo da soli in macchina, velata da un imbarazzo che non riusciva a mascherare; dolcissime le labbra che esitai un poco a sfiorare di nuovo; il suo sorriso timido impreziosito da due piccole fossette; i suoi occhi chiari di bambina. Possibile che fossi davvero vicino a un pericolosissimo errore? Che stessi scegliendo semplicemente la donna a me fisicamente più vicina, trascurando quel piccolo particolare che si è soliti chiamare affinità elettiva...
Ma intanto i due mesi stavano passando, i documenti era pronti da molti giorni, il municipio attendeva; e dal momento che una sera avevo finalmente realizzato quanto importanti fossero entrambe per un mio non troppo instabile equilibrio esistenziale, avevo deciso di compiere quel gesto al più presto, con la speranza che avrebbero capito. Del resto se avevano già accettato un tempo, niente mi vietava di pensare che avrebbero accettato ancora. Se all'inizio fossi riuscito a tenere nascosta la mia relazione con Carlotta, non mi restava che rivelare a quest'ultima come realmente stavano le cose; e cioè che i miei rapporti con l'altra non solo non erano mai peggiorati, ma che addirittura di lì a pochissimo sarebbe divenuta mia moglie. Cercai parole. ma a mancare era anzitutto il coraggio; così mi rassegnai a fare ciò in cui ero divenuto un autentico maestro: finsi fino alla vigilia delle nozze.
Feci anzi qualcosa che lì per lì giudicai un autentico colpo di genio, ma dei cui effettivi esiti ebbi terrore fino al giorno stesso del matrimonio; a partire dal momento in cui lasciai cadere nella buca rosso smaltato delle lettere l'invito a partecipare alla cerimonia; destinatario: Carlotta, naturalmente.
In quel modo credevo di affrontare tutti i miei demoni in una volta sola, fermamente convinto di avere esclusivamente due possibilità: capitolare con infamia difronte una platea numerosa e ottusa che avrebbe gridato allo scandalo con mascherato compiacimento; oppure uscirne in silenzio magnifico eroe, destinato però ad una vita di faticosi logoranti equilibrismi: tutto sarebbe dipeso a quel punto dalla mia giovane amante.

Dovetti però sciogliere le dita incrociate da giorni - giorni peraltro durante i quali non avevo osato assolutamente sentirmi con Carlotta - quando vidi la mia promessa sposa tutta agghindata. Splendeva come una lampadina da due miliardi di watt vestita di bianco; e veniva proprio verso di me. e io, lo confesso, per una buona manciata di minuti, dimenticai ogni cosa; mi scordai persino di quella ragazza meravigliosa coi capelli corti che pure era lì, a pochi metri, e continuava a fissarmi con gli occhi grandi umidi appena. Non facevo [non potevo] che guardare quella donna alta, bella, che presto avrei chiamato moglie; e che con buona probabilità m'avrebbe reso padre al più presto.
Tutto andò per il meglio: il rinfresco vide le mie due dame riempirsi l'un l'altra di convenevoli assurdi e di sei meravigliosa bellissima stupenda dimagrita: due autentiche vecchie amiche. da un lato la moglie che nulla ormai più sospettava e che anzi con un gesto di straordinaria benevolenza mi concedeva il perdono per le passate marachelle; dall'altra la fanciulla dagli occhi adesso perfettamente asciutti che mi prometteva almeno due o tre anni di entusiasmante libertinaggio (ma tra me e me speravo in joint-venture ben più duratura); in mezzo me medesimo, a onor del vero alquanto divertito, e compiaciuto per la perfetta poi non così fragile architettura che ero riuscito a metter su.
Partii tranquillo, per un viaggio di nozze studiatamente romantico, praticamente perfetto, costellato di frasi ben sperimentate e costosissime cenette afrodisiache (non ce ne sarebbe stato bisogno). tranquillo ma a tratti nostalgico. un paio di volte, al mattino presto, scrutando il cielo parigino dalla finestra dell'albergo mi sorpresi a pensare davvero a Carlotta. forse l'amavo. forse amavo entrambe, così diverse, complementari. l'una e l'altra. fumando mezzo sigaro avanzato dalla sera prima mi dicevo d'aver raggiunto un discreto equilibrio, tuttosommato; e mi rimettevo a letto, tra le lenzuola tiepide, intrise di quell'odore che amavo tanto. indispensabile quasi. e mi sfregavo le mani per quello altrettanto buono che avrei trovato al mio ritorno.
Ma ebbi una sorpresa. Carlotta si era trovato un altro, anche lui sposato, che si chiamava Francesco ed era molto più ricco e bello di me. almeno così disse una voce tremendamente familiare; ma vestita d'un'inedita freddezza. voce che mi comunicò inoltre per telefono che ero un bastardo, e che dovevo ringraziare il cielo se non era andato tutto per aria. Non osai replicare. L'unica cosa che mi riuscì di dirle fu ch'era stato bello finché era potuto essere; e che comunque se avesse avuto voglia di parlare [una chiacchiera tira l'altra] sarei stato sempre disponibile. ciao. ero sinceramente deluso, anche perché non ero riuscito a realizzare neppure per pochissimo tempo il mio ardito progetto; tutto a causa dei capricci di una ragazzina qualunque con gli occhi verdi. C'è una splendida Katherine Hepburn che in uno dei suoi ultimi tremolanti film recita una battuta: c'è gente per cui è molto più difficile volere ciò che si ottiene che viceversa. ecco: benché la mia vita avesse sempre proceduto al contrario (almeno apparentemente, viso che già mi trovavo sempre in difetto di volontà) adesso quelle parole sembravano calzarmi a pennello..
Per tre giorni portai in giro una faccia molto poco intelligente, quindi indissi una seduta straordinaria difronte lo specchio del bagno. alla fine della quale conclusi che mi sarei scordato di lei. presto o tardi. e magari me ne sarei trovata un'altra.

postille.
Verso aprile mi fu consegnato un bigliettino, a corredo d'un regalo straordinariamente ingombrante. presto toglierò il disturbo. se ne prenda cura lei. nient'altro: un intero condominio di piccoli volatili, tutti più o meno gialli e ciarlieri s'era prepotentemente impadronito del mio pianerottolo. Il fattorino pareva uscito da un film americano: un tipo magro e giovanissimo, coi capelli sciacquati in candeggina. Con un gesto sgraziato gli misi in mano una mancia del tutto inadeguata alle dimensioni del pacco; e mentre lo guardavo andarsene di pessimo umore, mi chiesi come diavolo avesse fatto quel vecchio a scoprire dove abitavo; sicuro di non avergli dato, in quell'unico nostro incontro, tracce del mio indirizzo.
Alla donna che avevo sposato dissi che si trattava del regalo d'un vecchio amico un po' matto ch'era dovuto partire e chissà perché, aveva pensato di affidare proprio a me quel rumoroso ricordo. Sistemai la voliera in veranda, ovvero nel punto della casa più distante dalla camera da letto; ma questo non fu sufficiente ad evitare d'essere puntualmente svegliato da quei dannati pettegoli nei momenti di più soave torpore post-prandiale. Passai un po' di tempo a studiarli, nella speranza d'individuare il sublime interprete di cui m'aveva parlato: credetti di individuarlo nel canarino più beige che c'era, che sembrava effettivamente possedere una gran bella voce. Ma della sua pulzella, nessuna traccia. Riesumai la vecchia gabbia, e il resto lo portai in uccelleria, riuscendolo a barattare per una discreta scorta di pastone, semini e quant'altro servisse ad Ugo. Cosa abbastanza banale decisi infatti d'appioppargli quel nome, un po' per rendere omaggio al suo primo proprietario, un po' perché trovavo che davvero gli donasse.
- Ti piace?
alzò le spalle - un canarino.
ca[na]rino, pensai

Comunque Ugo cantava tutte le mattine, io avevo un lavoro finalmente appagante, e giorno e notte potevo ammirare alla mia sinistra una donna meravigliosa - vera sola passeriforme cui offrire i miei gorgheggi: ero pertanto felice. [Unica nota dolente d'una sinfonia tutto sommato serena: per quanto ogni tanto andassi a sedermi la mattina a sgranocchiare semini nella stessa panchina in cui l'avevo conosciuto, non seppi mai che fine avesse fatto quel vecchio].

© Marco Busetta





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