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La casa della miniera
di Ettore Zani
Pubblicato su SITO


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LA CASA DELLA MINIERA

Suonavano le campane di mezzogiorno quando, esausto per la mattinata di lavoro, Galef rientrava nella sua casa sedendosi sulla sedia in veranda a godersi il sole.
In miniera le cose andavano sempre peggio! Il filone si stava esaurendo, l'acqua filtrava da ogni buco ed il legno dei sostegni presso l'ingresso stava marcendo. Galef aveva passato tutta la mattina cercando di smontare e poi rimontare i pezzi delle impalcature, prima togliendo le travi ormai inutilizzabili e poi inserendo come in un mosaico quelle nuove che aveva preparato nella nottata.
Le piogge della settimana precedente erano state una maledizione e Galef era affranto dalla sfortuna che sembrava perseguitarlo da un mese. Da trentatré giorni per la precisione, cioè da quando aveva deciso di riaprire la vecchia casa accanto alla miniera.
In paese tutti dicevano che era stato un errore e che a mettersi contro i morti si ha solo da perdere, ma a Galef queste sembravano solo baggianate; le solite storielle che si raccontano per far paura ai bambini.
Ora le sue certezze vacillavano un poco ma non lo ammetteva.
Quando la sua cavalla Brunilda era scappata imbizzarrita dopo un temporale estivo, e mai più tornata, si era consolato sapendo che la vecchia cavalla era sempre stata un po' tocca. Quando il raccolto di grano che stava portando al mulino era stato rubato da dei banditi si era detto che prima o poi doveva succedere in un paese come il suo dove tutti erano sempre poco attenti. Il fatto che di furti non si sentisse parlare da vent'anni almeno non lo aveva stupito affatto: "è la legge della statistica" aveva affermato a testa alta di fronte a Darwin, lo sceriffo del paese. "Quando un evento non accade da troppo tempo la probabilità che si verifichi aumenta sempre più!".
Darwin era vecchio e le storie del paese le aveva sentite tutte, dalla prima all'ultima, dalle più stupide alle più terrificanti; non ci credeva molto neppure lui, ma possedeva la saggezza di provare almeno timore di fronte a quello che non comprendeva. Per questo aveva risposto a Galef con il suo tono profondo da nonno, che possedeva da quando era ventenne, rimproverandolo di non curarsi delle vecchie superstizioni, offendendo cosi il ricordo delle anime dei morti. Il paese era contro di lui proprio per questa poca accortezza.
Galef ripensava alle parole del vecchio con fare accigliato. Ovviamente non aveva più recuperato il grano e per quella stagione era stato costretto e comprarne da fuori, visto che i suoi compaesani non volevano vendergliene per paura d'attirare la sventura anche sulla propria casa. Aveva poca farina per il pane dunque, e l'inverno che si approssimava sarebbe stato freddo e lungo.

Si alzò dalla sedia sulla quale si era fermato per riposare e si spostò verso la porta d'ingresso per entrare in cucina e prepararsi qualche cosa da mettere sotto i denti prima di tornare al lavoro.
Galef non aveva moglie, non l'aveva mai avuta e neppure aveva faticato poi tanto per provare a cercarsela.
Sin da giovane amava stare da solo in riva al fiume, dietro al vecchio mulino ormai diroccato, poche centinaia di metri a monte della miniera. Stava lì a pensare e ad osservare gli uccelli, i pesci, tutti gli animali che arrivavano ad abbeverarsi. Osservare era il suo mestiere, si diceva, e da grande avrebbe voluto essere uno studioso ed imparare a parlare con gli animali.
Molto spesso in quei pomeriggi oziosi passati con una canna da pesca in mano e gli occhi puntati al cielo o verso i margini del bosco, nell'attesa di un cerbiatto che passasse di lì, accanto a lui sedeva Darwin, che allora non era cosi vecchio bensì un uomo robusto con poco lavoro. Il paese era tranquillo ed uno sceriffo non aveva molto da fare, se non recuperare gatti sugli alberi e sedare liti di suocere gelose dei propri figli.
"Dovevi vederle quelle arpie" soleva dire al giovane Galef, "due esagitate pazze che si tiravano per i capelli. E alla loro età?! Urlavano davvero sai? Il mio Geremia non ne ha colpa, è solo perché la tua Tara è una gatta morta che non hanno figli! E allora l'altra gli ha ribattuto: stupida vecchiaccia, lascia stare la mia dolce Tara che è un angelo. Parliamo piuttosto di quel diavolo di un Geremia".
Allora Galef rideva rumorosamente e pensava che gli uomini non erano furbi e che era un peccato per lui non essere nato uccello o pesce o lepre, perché cosi si sarebbe risparmiato davvero tante grane nella vita.
"E il gatto di Zwirna l'orba invece? E' salito ancora sull'albero?" domandava poi. "Certo che è salito" gli rispondeva lo sceriffo, "va a caccia di scoiattoli ma la sua padrona pensa ancora che sia un micino piccolo e affettuoso, quel bandito! E allora chiama me perché lo sente miagolare dall'alto mentre sdraiato su un ramo prende il sole e adocchia tutte le gatte che passano".
"E tu che hai fatto questa volta?" lo invitava a continuare.
Darwin cominciava allora a grattarsi la barba come faceva sempre quando raccontava le sue storielle e passarsi l'altra mano tra i capelli, sbuffava un poco e alla fine diceva sempre la stessa cosa: " che vuoi che abbia fatto, sono salito cavalcioni sull'albero e ho cominciato a miagolare anche io. Miagolare come una gatta in calore..."
"E come fa una gatta in calore Darwin?"
"Come vuoi che faccia, fa meeowwww. Sono salito e ho miagolato, ma cosi bene che il bandito sul ramo di sopra è sceso giù a vedere che non mi fossi trasformato sul serio in gatta e cosi l'ho accalappiato".
Galef allora domandava "e lui non ti ha graffiato?" sapendo già la risposta.
"certo che mi ha graffiato, ma non posso dirti dove perché è troppo personale!".
Alla fine della storia si era già al tramonto, per cui dopo un ultima sonora risata in duetto ognuno prendeva la propria strada e tornava a casa per la cena, Galef risalendo il fiume e Darwin tagliando per il bosco.

A quel tempo la casa presso la miniera era già chiusa e da parecchi anni nessuno la abitava. L'alone di mistero che la circondava risaliva al nonno di Galef ed alla sua sfortunata consorte.
Il ragazzo aveva chiesto più volte al padre di raccontargli quello che sapeva della storia, affascinato dai racconti che aveva sentito dai vecchi in paese ma sicuro che ci fosse una spiegazione razionale, ottenendo sempre però una risposta negativa. Era stupito dal fatto che suo padre, il quale fino ai cinque anni aveva pur vissuto in quella casa, non volesse parlargliene e anzi si trincerasse in quel suo silenzio pieno di ruminazioni. Allora Galef incolpava il dolore che credeva stringesse il cuore a suo padre, preso dai brutti ricordi.
Quello che sapeva, tra parole rubate al negozio dei fratelli Baltazar e sbruffi notturni nel bar di Trepak, era che un giorno dal bosco era spuntato fuori un viandante nomade dalla lunga barba unta e sporca e dall'alito puzzolente con al guinzaglio una povera scimmietta che chiamava Balta. Il nome del barbone invece non lo sapeva nessuno o tutti se l'erano dimenticato, forse per il timore che a nominarlo sarebbe tornato.
Il vecchio e la sua Balta si erano fermati ai margini della miniera ed avevano chiesto un riparo ed un poco di cibo ai nonni di Galef che allora vivevano ancora accanto alla miniera ed erano sposi da sei anni appena.
In effetti, il loro matrimonio era stato uno dei più chiacchierati in paese da un bel po' di tempo: Fardo ed Alambra erano i due più bei giovani che si vedessero in quelle lande da anni ed il fatto che si fossero trovati ed innamorati rallegrava il cuore di tutti, ma riempiva altrettanto di invidia e tristezza tutti coloro che non guardavano oltre al viso angelico di Alambra e ai muscoli sobri, ma forti, di Fardo.
Alla vista del vecchio la giovane, per nulla intimorita, aveva subito aperto la porta e preparato un posto a tavola perché allora, in quegli anni passati, l'ospitalità era un sacro dovere e nessuna barba lunga e puzzolente avrebbe dovuto intimorire chicchessia.
Gli occhi intelligenti di Fardo avevano però scorso subito l'ombra cupa che incombeva su quelli del vecchio, l'ombra della magia nera si diceva in paese, ma questo era uno dei punti a cui Galef non credeva.
Dopo aver pranzato il vecchio si era alzato ed aveva espresso il suo amore per Alambra, cosi come si dice: "e buon pro vi faccia" proclamando senza scrupoli il suo potere oscuro e minacciando di rovinare tutta la famiglia se Fardo non avesse acconsentito che la bella Alambra partisse con lui in direzione del castello che diceva di possedere al lato estremo del fiume, dalla parte che il sole sceglie ogni mattina per sorgere.
Fardo, che era un buon arciere si era subito opposto e con un rapido gesto, da vero eroe aveva sottolineato Trepak il barista, con tanta enfasi quasi ci fosse davvero stato, aveva afferrato l'arco e la faretra puntando un dardo in direzione del vecchio in meno di un battito di ciglia.
Ma non si sa come la freccia era scoccata da sola e, dopo un metro neppure, aveva cambiato direzione colpendo infine la giovane Alambra in pieno petto. Fardo disperato aveva tentato di soccorrere la moglie ma era incapace di ridare vita a delle membra così ferite, si era allora rivolto al vecchio implorandolo, se tanto diceva di essere un mago, di ridare vita alla ragazza, di donarle nuovamente il dolce rossore delle gote.
Le parole dell'oscuro signore erano state allora chiare e franche: lui avrebbe ridato vita alla bella, ma nessuno l'avrebbe più potuta amare e nessuno l'avrebbe più potuta vedere, la casa sarebbe dovuta essere chiusa e nessuno vi avrebbe mai rimesso piede. Poi, con un colpo di bacchetta, che Galef trovava molto suggestivo, avrebbe trasformato Alambra in un unicorno dal manto splendente, esile e bello come l'alba ed il tramonto assieme.
Tutte queste voci non si sa bene da dove provenissero, e non dicevano esattamente cosa sarebbe successo poi, e dove sarebbe andata la giovane donna sotto le spoglie di unicorno. La storia finiva dunque così, e nessuno ne sapeva la vera fine, anche se Galef, in effetti, dubitava anche delle parti precedenti.
La cosa certa era che Fardo dilaniato dal dolore aveva abbandonato la casa della miniera, cosa che avrebbe fatto comunque anche senza l'avvertimento del vecchio mago oscuro, e ne aveva costruita una più a valle dove aveva vissuto col figlio Taros, che sarebbe poi diventato padre di Galef.
Di Alambra, diventata un unicorno, nessuno seppe mai nulla.
Galef non conobbe mai il nonno perché questi, raggiunta la maggiore età il figlio, l'abbandonò e si mise in viaggio. Non sopportava il dolore della perdita e forse non sopportava più la curiosità della gente che lo angustiava ogni giorno con sguardi interrogativi e taglienti.
Taros divenne uomo, si sposò ed ebbe un figlio, lo stesso Galef. Poi morì. Erano passati solo pochi mesi dalla sua morte quando Galef si era deciso a riaprire la casa della miniera.

Ripensava dunque, Galef, a tutta la storia davanti ai fornelli, mentre si preparava il pranzo. Di solito si sentiva bene in cucina, non era un cuoco provetto e le sue ricette non andavano al di la di qualche piatto freddo un po' esotico o di un arrostino di vitello, ma si impegnava in quello che faceva. Si sentiva più leggero col grembiule alla vita e a volte canticchiava pure qualche motivetto tradizionale della sua vallata.
Cercava di ricapitolare tutto, dalle dicerie su suo nonno agli accadimenti occorsi dalla riapertura della casa presso la miniera, di cui poteva scorgere l'ingresso dall'antro buio attraverso la finestrella accanto alla stufa. Gli pareva che fosse talmente tetro da far passare la fame. Si sentiva scorato quel giorno nonostante stesse cucinando e distolse in fretta lo sguardo per tornare alla bistecca che si dorava in padella, profondendo un buon profumo di carne e di spezie.
Sentiva nel cuore un peso profondo però, che non lo lasciava in pace e scricchiolava birichino come una trave malmessa.

Quando si rimise al lavoro nel pomeriggio erano già le tre ed il sole non era più così forte come durante la mattinata, poco importava comunque visto che nella miniera notte e giorno faceva lo stesso, il buio era come compresso e non passava neppure uno spiraglietto di luce.
Aveva risistemato quasi tutte le travi e mancavano solamente quelle più lontane, in fondo alla grotta, dove gli ultimi filoni d'oro zampillavano a stento sotto i colpi del suo piccone.
Se il buio della miniera era così fitto per tutta la lunghezza del cunicolo, laggiù era molto più che fitto, era solido, si direbbe con un eufemismo, perché forse anche così sarebbe stato troppo poco. in effetti, Galef non ci vedeva un accidente e neppure con la lampada accesa il suo sguardo poteva inoltrarsi per più di pochi metri. Si stava domandando come fare a lavorare in quella tenebra perché aveva lasciato l'altra luce all'ingresso ed una sola non gli sarebbe mai bastata. Ormai deciso a tornare sui propri passi per prendere la lanterna si bloccò di colpo, col piede a mezz'aria. Aveva sentito un rumore. Stette e ristette in silenzio per lunghi attimi con le orecchie tese ma non sentì più nulla. Si diceva d'essere calmo ma in realtà il suo cuore batteva all'impazzata. Per darsi coraggio allora parlò a voce alta: "C'è nessuno?", domandò senza sapere bene a chi, o a cosa.
Ma certo che non c'è nessuno si rispose da solo pensando a quanto fosse sciocco. Il vento, si sarà stato il vento, nulla più.
Quando risuonò un secondo colpo, secco come il tec delle cesoie che tagliano del fil di ferro, Galef spiccò un salto, scattante più d'un coniglio, e si mise di corsa e risalire la miniera. Vedeva già la luce del giorno bucare la notte del sottosuolo quando si calmò. aveva corso così in fretta da rimanere completamente senza fiato. L'ingresso era davvero vicino e Galef era combattuto dal desiderio di scappare, ma era davvero una stupidaggine continuava a ripetersi, e da quello di tornare sul fondo per controllare meglio. D'altronde poteva trattarsi semplicemente di un animale entrato mentre lui pranzava, che aveva perso l'orientamento. Perché spaventarsi tanto, tutte le frottole sulla maledizione della miniera lo avevano scosso, doveva ammetterlo, ma erano soltanto frottole e non valeva la pena di perderci il sonno.
Decise infine di arrivare fino alla lampada che era appoggiata accanto all'ingresso e poi tornare a lavorare, come se nulla fosse. Se avesse sentito ancora dei rumori non si sarebbe più preoccupato.
Non successe più nulla, però, ed il resto della giornata passò veloce e senza pensieri.

Suonavano le campane di mezzanotte quando, trafelato per il sonno difficile, Galef si svegliò sudato e accaldato. Le coperte erano buttate di lato e penzolavano per metà oltre il letto, i rumori della notte erano soffusi e penetravano nella stanza dalle imposte chiuse.
Aveva fatto strani sogni, popolati da maghi cattivi ed orchi con un occhio solo, e da una dama, una donna giovane e veramente bella, avvolta in uno scialle dorato che cantava una ninna nanna triste e accorata. Questa sedeva tutta sola nel mezzo di un bosco scuro, su un tronco di Pino caduto per le piogge. Guardava ai suoi piedi e si teneva stretta il grembo cullandosi appena. Galef camminava per un sentiero accennato fra gli alberi e quando vide la fanciulla le s'avvicinò senza far rumore, ma un rametto spezzato lo tradì rivelandolo allo sguardo della ragazza triste che scappò via, gridando forte sopra il rumore del vento uno strano avvertimento: "attento al rapace dalle penne grigie, attento al rapace dalle penne grigie..." poi Galef si era svegliato.
Sentiva un gufare lontano e persistente che gli toglieva il sonno e dopo un po', stufo di rotolarsi fra quanto rimaneva delle coperte si alzò per una passeggiata notturna.
Uscì. Una leggera brezza correva lungo la direzione del fiume rinfrescandolo piacevolmente. Non dovevo mangiare così tanta carne, si diceva, dirigendosi verso un masso che stava all'imboccatura della miniera. Voleva sedersi lì qualche istante a godersi la luna ed il vento.
Il verso di un gufo continuava a farsi sentire ogni tanto in mezzo agli altri rumori della notte. Galef non vi prestava molta attenzione ma poi, ricordandosi del suo strano sogno e delle parole della dama che aveva visto in mezzo al bosco, lo colse un brivido che lo scosse dallo scranno naturale sul quale si trovava costringendolo a camminare in tondo per un po'. L'agitazione continuava a punzecchiarlo facendogli sentire voci nel vento e scricchiolii continui provenire dal fondo della grotta, semplice immaginazione pensava, ma una strana curiosità mista a timore lo stava rendendo schiavo del desiderio di entrare nella miniera per controllare, non sapeva bene cosa.
Quando prese la lanterna per farsi luce, mentre già muoveva i primi passi nell'antro, si rese conto di cosa lo colpiva così profondamente nell'animo: quel verso insistente che avvertiva ogni tanto, il verso d'un gufo abbastanza vecchio si sarebbe detto, proveniva proprio da laggiù, la in fondo alla miniera. Ecco cos'era il rumore di oggi, si disse, il gufo deve essere entrato e poi non è più uscito perché rimasto ferito battendo contro le rocce.
Col cuore calmo si apprestò allora a scendere verso la fine del tunnel, non pensava più alle leggende o alle voci maligne che denunciavano la sua sventura. Riaprire la casa della miniera? Sì, ebbene che male vi poteva essere nell'abitare una casa che è propria? si trattava di un suo naturale diritto e questo, oltre che rincuorarlo, lo rinsaldava nelle sue convinzioni sull'eccessiva loquacità della stupida gente di paese.
Solo un povero animale ferito, questo avrebbe trovato nella miniera, e provava compassione per lui, mentre affrettava ancora più il passo.
Infine eccolo, la dietro quella trave riversa. Ne vedeva il piumaggio grigio alla luce della fiamma, era accasciato sul suolo e tremava.
Gli s'avvicino pronto a curarlo come meglio poteva quando un potente nitrito lo annientò di terrore, pietrificando il sangue nelle sue vene e sbriciolandolo poi, come solo lo scorrere di un tempo lunghissimo avrebbe potuto fare.
Un grande, elegante, cavallo bianco dal mantello luminoso come la luna correva verso di lui, galoppando fiero. Ne vedeva la criniera e la coda farsi sabbia dorata e gli occhi ardere come braci, e poi… un corno, sì proprio un corno, sbucare dalla fronte ergendosi diritto e puntato verso di lui. Si rannicchio al suolo coprendosi con le braccia il viso, maledicendosi per non aver prestato fede a chi era più anziano e saggio di lui ed attendendo solo la morte come ovvia punizione della sua infelice stoltezza.
L'unicorno gli si fermò, invece, ad un passo, sbuffando aria calda dalle nari con fare affettuoso, poi si chino leggermente andando a toccare col suo corno la spalla di Galef, che ancora atterrito si difendeva come meglio poteva assomigliando ad un riccio senza aculei. L'uomo alzò lo sguardo e fu grande il suo stupore nel vedere l'animale piangere copiose lacrime; si stava alzando per carezzarlo dietro le orecchie come sapeva piacere agli animali, quando un nuovo motivo di terrore sconvolse quella notte sempre più infausta per le sue coronarie. Il gufo grigio che, giaceva a terra ormai dimenticato da Galef, s'era, non solo rialzato in perfetta salute, ma tramutato per magia in un vecchio con un bastone nodoso. Urlava in una lingua sconosciuta che scorreva dalle sue labbra come un tuono nel mezzo del temporale.
Ora Galef capiva, finalmente, tutta la storia. L'unicorno era davvero sua nonna, la bella Alambra, rifugiatasi nella miniera o nel bosco, e quel gufo era il mago che sicuramente ogni tanto tornava in quelle lande per vederla e pretendere da lei chissà cosa.
Pensava tutto questo, riuscendo per la prima volta da un mese a vedere la faccenda con chiarezza, quando nella miniera tutto si fece di luce, le pareti di solida roccia pareva ardessero e dall'alto, verso l'imboccatura, arrivò un fortissimo soffio d'aria calda; Galef vedeva l'ombra di una scimmietta camminare goffa oltre l'ultima curva. Ad ogni passo che faceva nella loro direzione la si vedeva diventare più alta e più grossa, si sentiva il suo incedere a passi sempre più pesanti, fino a diventare come il tonfo di un macigno contro un altro macigno.
Superò infine la curva e si mostrò dinanzi ai tre la figura paurosa di un gigante peloso pronto ad avventarsi su Galef e sull'unicorno, che altri non era che Alambra, ad un semplice cenno del suo padrone il mago. Questi stava sul fondo della miniera ed alle spalle non aveva che il muro di roccia sul quale brillavano come gocce piccole scaglie d'oro. Guardava con occhi rabbiosi e continuava ad incitare la sua Balta, che stregata com'era, si muoveva lentamente ma inesorabilmente dimenando colpi portentosi verso i due sventurati.
L'unicorno si pose a difesa di Galef come meglio poteva, cercando di colpire il gigante con gli zoccoli, nitrendo forte e sfruttando la propria agilità per disorientare l'avversario. Dal canto suo Galef raccolse tutto il coraggio che possedeva e s'avventò contro il mago ma subito fu costretto a fermarsi stretto da una morsa invisibile che lo colse non appena il vecchio puntò verso di lui il proprio bastone.
Stavano così dunque, Alambra sotto le spoglie d'un unicorno che combatteva contro il gigante e Galef immobilizzato dai malvagi incanti del mago e sembrava che la loro fine fosse ormai prossima.
Il gigante colpì infine l'unicorno sul muso, mandandolo a volo sopra la testa di Galef, che lo vide atterrito passargli a pochi centimetri dalla zazzera, fino ad atterrare accanto al vecchio mago.
Vedeva già la mano gigantesca del mostro preparare il pugno che lo avrebbe ucciso, vedeva nel fondo della pupilla dell'animale una luce malvagia che si sarebbe sopita solo col suo sangue, e pregava chiedendo perdono a tutti, al nonno Fardo, al proprio padre e a tutti gli abitanti del suo paese per aver risvegliato quel male che dimorava nella sua casa, presso quella miniera maledetta.
Chiuse gli occhi pronto a morire, quando senti delle urla e un tramestio lontano verso l'uscita della grotta, anche Balta e il mago si girarono e fu allora che l'unicorno, Alambra, raccolse le sue ultime forze e dimenò con tutta la propria forza un potente colpo di zoccolo verso il mago. Questi le cadde addosso, proprio sopra il muso ed il corno s'infilzo all'altezza del cuore.
Il mago morì e il gigante tornò ad essere la scimmietta Balta, andando a nascondersi veloce dietro un cumulo di sassi. anche l'unicorno tramutò, tornando ad essere la giovane Alambra così come era il giorno in cui venne stregata. Galef prese tra le proprie braccia una donna bellissima, dai capelli corvini e dal viso pieno come una luna d'Agosto. Un rivolo di sangue le usciva dal petto nel quale spuntava una freccia, pegno dell'amore che le portava il suo vecchio marito Fardo, ormai da tempo morto di vecchiaia in qualche paese lontano.
Galef piangeva lacrime amare. Col suo sciocco cinismo, si diceva, aveva causato la morte di Alambra. Ma la donna gli sorrise benevola e gli parlò gioviale: "Non ti rattristare nipote" disse, mentre la luce nella miniera andava affievolendosi finché rimase solo il buio mitigato dal bagliore della lanterna di Galef, "da anni ti aspettavo e speravo che il tuo coraggio mi salvasse. Da anni vivevo in solitudine sotto forma di un unicorno e se non fosse stato per te ora sarei ancora costretta ad ubbidire alla malvagità del mago. La notte venivo sempre ad osservarti da che avevi riaperto la casa e speravo vivamente che mi avresti salvata. Piangevo d'amore per te, il mio nipote, il mio sangue. Ora hai fatto quanto speravo e potrò morire, felice di ricongiungermi a tuo nonno."
Dette queste parole la donna spirò. Giacevano in una pozza di sangue e Galef si sentiva le mani intrise del liquido denso, piangeva e si disperava mentre le voci si facevano più vicine. Quando il rivolo che scorreva dal petto della bella Alambra raggiunse il fondo della miniera dove stava il corpo del mago il sangue si fece d'oro e tutta la parete della miniera allo stesso modo si tinse di luce. La roccia si sgretolava in superficie rivelando il più grande filone che si fosse mai visto e tutto riverberava magnificamente alla semplice luce della lanterna. Infine i corpi del mago e della donna sparirono facendosi polvere e Galef si ritrovò a stringere il nulla proprio quando dalla curva spuntò il suo amico Darwin e tutta la gente del villaggio, con le lanterne e le falci e i forconi dei campi a modo di armi rudimentali.
Rimasero tutti stupefatti nel vedere una simile ricchezza brillargli davanti agli occhi e dopo aver fatto levare Galef gli fecero grandi feste. La maledizione della miniera doveva per forza essere stata spezzata pensavano di fronte a tutto quell'oro. Non sapevano cosa fosse successo ma i loro visi erano gioiosi e facevano a gara nel rincuorare Galef e nel comporre canzoni che proclamassero il suo coraggio.
Tornarono tutti alla casa e si decise che la sera seguente vi sarebbe stata una festa per celebrare Galef, ma anche quella notte i canti andarono avanti fino quasi al mattino.
Quando tutti se ne furono andati tranne Darwin, Galef, che era rimasto in un angolino dietro i fornelli in cucina, si alzò e raccontò all'amico la propria storia.
Per parte sua Darwin raccontò che svegliatosi nella notte, angustiato dal caldo, aveva visto dalla finestra quella strana luce provenire dalla miniera e allarmatosi aveva svegliato la gente in paese e si erano diretti verso la sua casa.
"Grazie mio saggio amico" disse Galef, "se non fosse stato per te ora sarei morto e mia nonna costretta ancora alla sua misera vita stregata."
Darwin non era ben sicuro di quanto diceva il suo amico, lo vedeva scosso e gli pareva strano quel suo mostrarsi così convinto delle vecchie dicerie così d'un tratto; la sua storia era troppo fantastica, ma non disse nulla. Era solo contento della fortuna che Galef si trovava ora tra le mani e perché finalmente il paese si sarebbe rappacificato con lui.

Si salutarono un'ultima volta con grandi abbracci, dandosi appuntamento alla sera successiva, poi Darwin uscì dirigendosi verso la propria casa, oltre il bosco, in cima alla collina.
Stava spuntando il giorno e la luce del sole puntava proprio nei suoi occhi, per questo non vide, all'ingresso della miniera, un ombra nera dalle fattezze di scimmia che scappava impaurita a valle seguendo il fiume.

Zani Ettore - Aprile 2003

© Ettore Zani





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(5) Trantor di Ettore Zani - RACCONTO



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