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Mosche
di Marco Battiato
Pubblicato su SITO


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Mosche

1.

Buio.
E silenzio.
Solo il mio fiato stanco e troppo rumoroso per la fragile immobilità che mi è concessa. Respiro un’aria consumata da non so quante ore ( o giorni ? ) di utilizzo e appesantita dall’olezzo dei miei escrementi. La schiena mi fa capire che tra poco rinuncerà a sopportare il peso di se stessa. Le ginocchia gonfie si rifiutano di compiere anche il minimo movimento e si stanno perdendo in quel lento, ottundente dolore che le avvolge in un sudario opaco.
E silenzio.
Buio.


2.

Sono svenuto o forse mi sono solo addormentato senza accorgermene. La febbre è ormai alta e la spalla pulsa con impietosa costanza. Un liquido caldo che non posso vedere scorre lento sull’avambraccio. Lo percepisco con gli ultimi brandelli di sensibilità rimasti nel mio arto destro. Solo il liquido caldo… e una insopportabile sensazione di gonfiore e la tensione della pelle che vorrebbe cedere e lasciare andare via anche l’osso per potersi così rilassare floscia contro il mio fianco.
Anche la testa è ormai un’appendice che non mi appartiene più, oscilla dieci centimetri dietro di me sostenuta dal dolore.
Mi sono abituato al gusto di sangue in bocca. Anzi succhio con gratitudine quest’unico fluido che mi è concesso mentre la gola ( un tubo di sabbia ) viene trafitta ritmicamente dagli spilloni della sete.

Ho sentito qualcosa? Un fruscio? E’ qui?
Lo so che è qui. Non ha mai lasciato la sua postazione. No. Non prima della mia resa. Non prima che io stremato faccia capolino dal mio ridicolo nascondiglio e offra la mia vita in cambio della liberazione da questo carcere di un metro quadrato.


3.

Baaam.
La porta emette un guaito e prende a vibrare sui cardini.
In un attimo ho gli occhi sbarrati. Ma non riesco ad afferrare nulla nella completa oscurità.
Mi ritrovo con i piedi puntellati ai lati della porta e la schiena schiacciata contro la parete. Il braccio sinistro è a patetica protezione del viso mentre quello destro non ha dato neanche un accenno di voler rispondere allo stimolo.
Mugolo nell’ombra anzi piagnucolo. Come un bambino che si copre la testa con la coperta per non vedere l’Uomo Nero che fa capolino dal ripostiglio. Salvo che io sono nel ripostiglio e l’Uomo Nero è il padrone della mia stanza.
Dopo il tuono è rimasto solo il mio respiro a turbare la tremenda quiete di questo angusto spazio. Vorrei fermarlo, vorrei poter fare completo silenzio e tendere l’orecchio, e controllare i movimenti oltre la porta. Ma non ci riesco. La marea delle inspirazioni ed espirazioni copre col suo rumore tutti i suoni della stanza. Stai zitto. Cazzo stai zitto, ne va della tua vita… Ma il fiato non risponde anzi, a prova del fatto che ora è lui ( lui ed il terrore ) ad essere padrone del mio corpo, muta progressivamente in fiatone. In poco tempo avvolge tutto il mio nascondiglio. Dopo l’oscurità il risuonare ritmico del mio respiro. Dopo la cecità la sordità. Sono ridotto ad una preda impaurita con la testa nascosta, in un angolo.
Basta, ora devo smettere. Devo sapere dov’è. E non devo consumare l’aria… non più di quanto lo sia già. Sollevare il torace crea penetranti fitte alla spalla destra. Oh Cristo. Credo si sia infettata gravemente… Perderò il braccio se non esco subito da questo ripostiglio. Beh, ma che importa tanto morirei appena fuori dallo stanzino.

Perché lo fa? Perché? Potrebbe sfondare la porta, trascinarmi fuori e lì sbranarmi o farmi a pezzi.

Perché lo fa? Vuole che sia io a offrire la mia vita. Vuole che sia io a venir fuori strisciando supplicando di aver salva la vita o magari supplicando che mi sia tolta o forse biascicando parole insensate che fluiscono dal canale della follia che il terrore avrà scavato nella mia mente.


4.

Sono dentro di lei! E’ incredibile. E’ sempre bello come la prima volta.
Spingo con il bacino.
Mi tuffo tra i suoi capelli. Quella massa nera mi avvolge il viso e respiro l’odore inconfondibile di lei.
La mia mano destra si stringe sul suo seno. Sento la forma dura del capezzolo contro il palmo.
Guardo i suoi occhi, la sua bocca, il suo naso. Grazie ai pochi scorci di luce che filtrano dalle tende chiuse, mi nutro della sua immagine, famelico.
“Anna”. Lei non risponde. Il suo corpo risponde solo al piacere.
E il piacere comincia a crescere con velocità vertiginosa anche dentro di me; e accelero i movimenti. Spingo.
Sento il sudore colarmi sulle tempie e sulla schiena. L’aria è calda, afosa, consumata.
Lei freme sotto di me. Si muove. Mi stringe mentre sono dentro di lei. Tutto.
Ma riesco a respirare a stento, l’aria è pesante e il puzzo penetrante, ma continuo a muovermi in lei. Una mosca ronza passando davanti alla mia faccia.
Poi capisco: è qui.
Senza poter reagire sento di venir sollevato fuori dal letto mentre un dolore mi trafigge la spalla destra. Le carni lacerate. Sono a mezz’aria trattenuto dalla forza disumana di un arto alle mie spalle. Mia moglie scompare dal letto. Ricado a terra di schiena. Il mio braccio si stacca. Vedo una gigantesca ombra nera che mi sovrasta. La luce non la raggiunge ma vedo i suoi occhi gialli, e sporchi e liquidi come il pus di una ferita infetta.
Poi si cala su di me di scatto e quando si rialza vedo che trascina alla bocca i miei intestini che ancora si srotolano fuori dal mio ventre.
“Noooooo!”
Incubo. La febbre. Deliro. L’urlo, questo sì, è inconfondibilmente reale. Anche il terrore lo è. Voglio scappare e mi tiro su spingendo con i piedi. La schiena scivola contro la parete a cui è appoggiata. Ma la corsa è breve poiché la testa urta con un tonfo sordo contro la mensola delle scarpe. Crollo al suolo mentre un peso mi colpisce al volto e ricade a terra tra le gambe. Accanto a me qualcosa di metallico colpisce il pavimento. Tin… tin…
Ma non è il pavimento della stanza da letto. E’ quello dello stanzino in cui sono confinato: torno alla realtà. E’ stato un incubo…
Poi sento? Sta ridendo? Ride di me? Mi sembra. Se ride di me giuro che esco e, se devo morire, lo farò da uomo.
Tendo l’orecchio ma l’oggetto metallico ( nel buio non riesco a capirne la natura ) ha preso a ruotare sempre più veloce, sempre più vicino al pavimento e con un rumore sempre più invadente, come il piatto della batteria all’inizio di una canzone rock.
Allungo la mano. Devo trovarlo. Devo zittirlo. Ma la mia mano arranca nel buio. La ricerca è spasmodica, frenetica perché ho bisogno di sentire, di sapere se veramente ride di me.
Sblang!
In un attimo silenzio. Tengo schiacciato al suolo ( ora capisco cosa era a fare quel rumore infernale ) il coperchio metallico di una scatola di latta. Si è tutto zittito. Non ride più di me. Eppure sono sicuro che prima lo stesse facendo. Ne sono certo. Non riesco solo a immaginare come abbia fatto ad indovinare l’esatto istante in cui sarei riuscito a fermare il rumore. Non capisco ma so con certezza che sghignazzava alla mie spalle. E’ così. Così. Ne sono sicuro.
Mi riaddormento.

5.

Era bella la mia vita.
Quando ci siamo sposati, io ed Anna, avevamo entrambi venticinque anni. Ci amavamo tanto. Ed io la amavo. E l’amo ancora. Se solo non le fosse stato fatto questo… Ed è colpa mia… Credo… Sì, colpa mia…
Io allora ( quando ci siamo sposati, undici anni fa ) facevo di tutto: correggevo bozze per un quotidiano regionale toscano, avevo cominciato un libro di favole per bambini che avrei finito un anno dopo e scrivevo per un giornale bisettimanale che avevo fondato con alcuni amici. In realtà per questo giornale firmavo articoli di cronaca rosa. Per quanti anni mi hanno preso in giro, ed io ridevo di gusto. Ridevo. Ora sono invaso da una tristezza lacerante ed una cocente malinconia.
Allora estraemmo a sorte chi doveva essere lo sventurato e toccò a me il legnetto corto.

Con Anna avevamo trovato una villetta fuori Pisa. Adorabile, anzi no: perfetta. I genitori di lei ce la comprarono. Ho ancora vivo nella memoria il giorno in cui entrammo per la prima volta nella nostra nuova casa. Mi ricorda con che gioia, serenità e fiducia nel futuro affrontavamo la vita in quel periodo ( qualche anno fa qualcosa cambiò). La casa era completamente vuota. Noi la riempimmo con la fantasia di meraviglie. Parlammo per quasi tre ore di come arredarla, poi ci baciammo e facemmo l’amore sul parquet del soggiorno per il resto della giornata.
Ci siamo detti che saremmo rimasti in questo piccolo angolo di paradiso per il resto della nostra vita. Ah. Fa quasi ridere come ci ha beffati il destino. Ha esaudito il nostro desiderio ( presto, troppo presto ) trasformando questa casa in un angolo di inferno.

Tre anni dopo nacque Fabrizio. Io in quel periodo firmavo qualche articolo per il Corriere della Sera. Che soddisfazione vedere scritto “Antonio Soffi” su un quotidiano a tiratura nazionale. Ma la vera notizia da prima pagina fu lui. Arrivò come una tromba d’aria piangente nella nostra vita di sposini. Fummo travolti da orde di pannolini, eserciti di pappine ( perché non ne fanno confezioni da 5 kg, per far risparmiare spazio, tempo e denaro… ) che scattavano sull’attenti quando il generale lanciava imperioso le sue urla.
I primi mesi di vita furono infernali. Sudavo stanchezza e a volte credevo di non potere più andare avanti, di essere sul punto di crollare a pezzi. Ma… mi bastava appena guardare quel piccolo corpo per ritrovarmi di nuovo affannato a sfamare quella bocca sdentata, a pulire quel sedere puzzolente e a cullare quel corpo che sembrava fosse una fonte inesauribile di energia. Avevamo
Shhhh!
I passi. I suoi passi. Dove và? Sta camminando. Dov’è? non capisco.
Non avrei dovuto distrarmi. Avrebbe potuto sfondare la porta e strapparmi via la testa.
Cristo, è qui vicino. Vicinissimo. Vedo due strisce nere nella linea di luce che filtra sotto la porta. ( E’ già mattina. Oddio, è già mattina ).
Perché è qui? Cosa vuole fare?
Non respiro.
Sento il suo di respiro. E’ rauco.

6.

Da quanto tempo è qui davanti alla porta? Non ha fatto un movimento.
Credo siano passate ore.

Il suo respiro è irregolare ma non mi ha mai abbandonato. Finché va via. Improvvisamente. Senza motivo. Senza senso.

Mi rilasso. E di colpo rifluisce attraverso il mio corpo tutto il dolore.
La spalla è un fuoco. E all’interno un dolore come di osso triturato mi taglia il fiato. Di riflesso porto la mano sinistra sulla spalla… E’ insensibile. Totalmente. La spalla; la mano no. Perdo quasi i sensi. Il mal di testa per un attimo sbiadisce e mi invade un senso di vuoto che si gonfia subito dietro gli occhi… Riesco a riprendere il controllo mentre un conato violento di vomito mi fa rabbrividire.
Ho trovato la pelle della spalla 3 centimetri prima di quanto mi aspettassi ed era dura ( pietra ) e tesa e appiccicosa di un liquido in parte rappreso, in parte fluente.
Ora che brividi violenti mi hanno strappato alla tregua ( meglio morire da svenuti ) della mancanza di sensi, oso far scorrere le dita sulla pelle; verso la ferita.
Di colpo la pelle prende a piegare verso l’esterno. Cristo, non sento niente. Né dolore. Né solletico. La salita formata dalla mia carne malata termina in una linea frastagliata e ruvida. Dura. Sento scorrere lento tra le mie dita un fluido. Non è sangue: sarei già morto. E’ pus? Non sono un dottore, cazzo! Non sono un fottuto dottore!
Stacco la mano inorridito. E’ sufficiente per capire: il morso sulla spalla si è infettato. In maniera straordinariamente veloce. Morirò. La febbre manda un brivido che mi scuote.
Poi riprendo a bruciare.

7.

Non siamo riusciti ad avere altri figli. Ci abbiamo provato. Ma non sono arrivati.
Meglio: sarebbero morti come Fabrizio.

8.

“Antonio, ti interessa questo?”
Il direttore del “La Torre” era un uomo alto. Gli occhi miopi, stretti alla ricerca di particolari di oggetti lontani, quasi scomparivano su quel volto color rame. Il naso era quasi impercettibilmente storto ( ricordo quando me lo fece notare ) e faceva da separatore tra due zigomi decisi, segnati dai solchi dell’acne. Il volto digradava quasi immediatamente in due guance forse troppo incavate che sembravano sostenere una bocca sottile. Non poteva essere definito un bell’uomo ma la sua forte personalità lo poneva come punto di riferimento per i colleghi e lo rendeva abbastanza apprezzato tra le donne, soprattutto tra quelle più grandi di lui. Tante ne aveva avute fin da quando andava al liceo e sempre tra i trenta e i quaranta.
“Come, Sergio?”
“Ti andrebbe di scrivere qualcosa sulla diffusione di tutte queste sette sataniche? Riguardo i fatti di Milano.”
Qualcosa nella mia testa mi urlò disperatamente di non farlo…
“Certo, lo sai che non mi stanco mai di scrivere”
In realtà ero semplicemente stanco di tornare a casa. Cinque mesi prima avevo tradito Anna.

9.

Sento un bisogno opprimente di pisciare. Ho quasi pudore. Ma perché? I miei pantaloni sono già sporchi di feci ( puzzano e pesano ) anche se non so quando è successo né perché l’ho fatto. E’ strano ma non ricordo: forse è successo quando è morta Anna.
Il divano era imbrattato di sangue. Parte era gocciolata anche a terra. Ma era lei la vera macchia rosso bruno. I capelli le stavano incollati alla parte sinistra del volto ma lei non se ne curava. La camicetta di lino bianca ( quasi lucente ) era zuppa e aderendo alla pelle disegnava le sue forme ( la macabra nudità della dea della morte ). La lunga gonna di lino era segnata da gocce, grosse e rosse come mele mature, e si tendeva pericolosamente tra la vita e le ginocchia come a voler imitare la padrona nel suo disperato tentativo di mantenersi integra. Anna si stropicciava le mani, a scatti. Lo sguardo era opaco. Il velo di sangue aveva coperto anche la sua mente. Ma non era il suo sangue ( non ancora ). In cucina il corpo di Fabrizio vuotava la sua vita sul pavimento ora caldo di morte. Lei lo aveva abbracciato.
“E’ morto non è morto è morto non è morto… E’ colpa tua lo hai ucciso ucciso lo hai ucciso non è morto”
Non è colpa mia. Non è stata colpa mia. Non volevo. Zitta. Zitta, ti prego. E’ stata colpa mia ma ti prego, zitta. Ma lei continuava, atona.
Aprì le mani e vidi l’occhio. Fabrizio. La morte di Fabrizio era indiscutibile e lei la teneva tra le mani.
Poi lei morì. Non so come la uccise. Pensavamo non fosse più qui; dopo Fabrizio. Ma la trovai morta. Riversa con la pancia poggiata a terra, riconobbi solo la gonna e la forma scomposta dei suoi capelli neri. Ciò che c’era in mezzo non aveva senso. Mi voltai: certe cose non possono essere. Semplicemente non possono. Rimasi fermo. I suoi rantoli si spensero. Era stata viva per un po’. Poi decisi di baciarla: non mi aveva salutato prima di andare. Seguii col gli occhi le orme vermiglie che aveva lasciato venendo dalla cucina dove aveva raccolto e abbracciato demente le parti della testa del nostro unico figlio ( mio e suo; ora solo mio? Che senso ha: non c’è più ). Trovai l’occhio che osservava attento la gamba del tavolinetto che ci regalò mia madre; anche se nessuno avrebbe più utilizzato le immagini che imperterrito continuava a raccogliere.
Poi trovai lei. Le gambe e i piedi con i dorsi aderenti alla moquette e le punte congiunte ( “Tieni dritti i piedi, sei forse una papera?” “No, mamma, scusa” ). La gonna afferrava i glutei in una morsa di sangue rappreso. No, non guardare lì… E le braccia, tese. I palmi all’insù. I capelli.
Mi chinai, le ruotai la testa. Tra i denti imbrattati teneva un brandello di carne. Ingombrante. Irregolare. Sangue.
Non la baciai: mi era stato tolto anche questo.

10.

Mi libero. Ma l’operazione non è piacevole come speravo. La vescica mi duole e il pene mi brucia. E’ umiliante. Calda l’urina risale il ventre e poi ricade fluendo tra i testicoli fino a inzupparmi il culo. E’ quasi comico: succo e nutella. Rido. Sguaiatamente. Dimentico tutto.
Ma solo per un attimo: non mi è permesso.
La porta emette un guaito mentre il legno cerca di resistere. Ma non ce la fa.
Con un rombo la luce irrompe nel mio rifugio tagliando il buio. Una pioggia di frammenti mi sferza il viso. Poi niente.
Riprendo a respirare.
Dallo squarcio nella porta vedo il soffitto azzurro della stanza da letto e l’attacco del lampadario.
Voglio guardare la mia spalla. Prima di morire… No! Non devo!
Guardo. Vomito.

11.

Non so bene perché tradii Anna. Lei era bella, Lorenza. Ed era desiderata. Ma non mi interessai mai a lei. Non prima che lei si interessasse a me. Iniziai a volere in maniera ferina la sua voglia di me. Desideravo scoparla, desideravo guardarla mentre ( animale in calore ) desiderava solo la mia carne e non il mio spirito.
E fu facile ottenerlo.
Ma fu quando le diedi il mio seme che pensai ad Anna. Non come prima. Non con rancore e senso di inadeguatezza. Non con triste rassegnazione ad un amore decomposto. L’orgoglio deluso di un cane abbandonato.
E fu in quel momento che capii che mi ero ridotto ad un animale che messo all’angolo morde; non per coraggio o temerarietà, ma solo perché si sente debole e indifeso. Quel che feci dopo, però, fu ancora più squallido.
Non aspettai che lei smettesse di fremere. Mi tirai su. Le sue unghia premute contro la mia schiena lasciarono strisce di sensibilità lungo i miei fianchi mentre mi ritiravo dal suo abbraccio. Lei mi guardò mentre godeva degli ultimi fiotti di piacere che le dava la mia presenza dentro.
Uscii. Da lei. Di colpo. “Rivestiti. Ho commesso un errore.”
Mi guardava. Mi studiava con lo sguardo. Così almeno pensai allora; ma sbagliavo: rideva già di me.
“Ho fatto tre errori: ho ingannato te; ho ingannato mia moglie; ma soprattutto ho ingannato me”
Stavo in piedi accanto al letto. Nudo. Il pene formicolava per il piacere appena provato. Sfilai il preservativo. Non provavo vergogna; non in quel momento: avevo scoperto che potevo essere un uomo…
ma…
“Sei patetico… La tua viltà ti ha condotto nel mio letto. Hai cercato di proteggerti dalle tue debolezze brandendo il tuo cazzo eretto come un’arma… Ed ora fai finta di essere uomo per smorzare il tuo senso di colpa. Credi che l’esserti accorto della tua bassezza ti elevi. Ti prego: smettila. Non ho mai stimato la tua anima: lasciami almeno un po’ di stima per il tuo cervello.”
Rimasi in silenzio. Passò poco e mi rituffai tra le sue cosce. Per l’ultima volta. Lorenza.


12.

I latrati del cane si concludevano con un lungo ringhio. Sfondarono il muro del mio sonno.
Avevamo fatto l’amore, io ed Anna, quella sera. Le cose stavano andando gradualmente meglio dopo che le avevo raccontato di Lorenza. Lei dormiva accanto a me. Teneva un braccio disteso sotto il cuscino mentre l’altro poggiava la mano tra i suoi seni. I capelli stavano, composti, alla destra del suo volto chiaro colorato all’altezza del naso da efelidi arancioni che si avvicinavano discrete ai suoi occhi chiusi.
Il cane del vicino ( Merenau ) abbaiò nuovamente con rabbia. Ero ormai sveglio così mi alzai, senza fare rumore. Feci per andare in bagno, ma già sapevo che la mia passeggiata notturna mi avrebbe condotto da loro. Arrancai al buio. Entrai, accesi la luce e mi sedetti sul cesso. Anche illuminata la casa a quest’ora aveva un non so che di tetro. E le mura erano impercettibilmente più alte… Allora fu una impressione ma ora so che era vero.
Mi alzai senza aver fatto nulla. “A letto, Antonio” mi dissi ma disubbidii.
Arrivai da loro.
Questi libri si capiscono meglio di notte: così cercai di giustificarmi.
Merenau squarciò l’aria ferma del salotto con un altro urlo. Strano: non aveva mai abbaiato di notte… e poi mai così.
Lessi. Lessi ciò che pazzi avevano scritto per altri pazzi. Ciò che sadici avevano scritto per altri sadici. Ciò che Satana aveva dettato ai suoi fedeli discepoli.
E lessi ancora. Per altre notti. Prima della fine.

13.

- Durante l’adorazione del Signore delle Mosche, il discepolo deve ben sentire ancora vivo nel suo corpo il dolore inflitto e subito nel Rito della Catarsi. Le lesioni del corpo saranno la strada per cui l’Apostolo Nero donerà potere al discepolo, mentre le nocche doloranti per le percosse inflitte allontaneranno la molle influenza del debole e patetico…-
“ Papà, la mamma non sta tanto bene “
Mi voltai infuriato. Sentivo il naso arricciato mentre la pelle degli zigomi tirava su i lati delle mie labbra. Non riconobbi la forma che stava in piedi davanti a me, tanto grottesche ed esasperate erano le sue fattezze. Ed in fondo in quel momento non importava tanto l’identità di quel corpo: per me era solo un fastidioso disturbatore che aveva interrotto le mie letture.
“ Quante volte ho detto in questa merdosa casa che non voglio che nessuno, nemmeno lo strafottutissimo demonio in persona, venga a disturbarmi quando sto leggendo nel mio cazzo di studio! “
Il nano dalla pancia gonfia prese a piangere sommessamente. “ Papà, non scherzare. La mamma non si sente bene. ”
“ Vai a farti fottere, sgorbio! “.
Il mio interlocutore scappò via con passi corti. Prima scomparve dalla mia vista, poi, pian piano smisi di udire i tonfi che i suoi piedi producevano contro il pavimento.
Ero finalmente libero dal ronzare da mosche dei miei seccatori e ricominciai a banchettare con le mie letture.
La mia mente era aperta e ricettiva. Trangugiai con voracità le pagine fitte finché mi accorsi che le parole si erano man mano opacizzate e sfocate. Guardai il polso oltre il velo di lacrime ma non riuscii a leggere l’ora dall’orologio. Asciugando gli occhi provai un acuto bruciore. Erano le 4:19. Avevo letto solo per un quarto d’ora? “ No, Ho letto per 12 ore! “. Incredibile. Incredibile ed affascinante. Ma ero stanco. Decisi di andare a letto: poche ore e sarei dovuto andare a lavoro. Richiusi il libro con cura e lo riposi sotto una pila di fogli nel cassetto della scrivania. La chiave era in tasca. La tirai fuori e mi stropicciai nuovamente gli occhi per riuscire a mettere a fuoco il lato della filettatura. Le palpebre pulsavano ed erano gonfie, la testa sembrava costretta da un cerchio metallico. Chiusi a chiave il cassetto e andai verso la camera da letto. Avevo bisogno di dormire un po’.
La porta era aperta e la luce era accesa ( strano Anna non mi aspetta mai sveglia, non fino a quest’ora ).
Entrato vidi sul letto Fabrizio. Dormiva su un fianco. Le gambe tirate al petto e strette tra le braccia. Che tenerezza i bambini. Accanto a lui sua mamma dormiva ancora vestita. Si era addormentata con le scarpe da tennis. Pazienza, vuol dire che dormirò sul divano per questa notte. Feci un passo nella stanza per portar loro un silenzioso bacio della buona notte ma mi colpì un acuto odore che sembrava artigliato anche alle pareti della stanza ( “ Papà, non scherzare. La mamma non si sente bene. ” ). Anna non sta bene. Anna non sta bene!
In un attimo fui accanto a lei. Respirava. Ma il suo respiro tirava su, ritmico, la torre pendente stampata sulla sua maglietta insozzata di vomito. Uno zigomo aveva acquisito la colorazione bluastra del livido. Il letto aveva alcuni schizzi che mi costrinsero ad abbassare lo sguardo. La scia conduceva, prima frastagliata poi sempre più netta, al bagno. ( Fabrizio. Fabrizio l’aveva trascinata e sollevata sul letto. Oddio, un bambino. E’ solo un bambino di otto anni ). Entrai nel bagno. Il lavandino era disgustosamente pieno di vomito la cui superficie si era ingiallita. In mezzo, quasi sommersa, stava una mosca. Morta.


14.

“ Non voglio più che tu legga quella robaccia lì! “
“ Quale robaccia? “
“ Quella merda sul satanismo. “
“ Non la sto leggendo più. “
“ Non dirmi stronzate, Antonio. Fabrizio ti ha visto leggere ancora quel libro. “
“ Ok, ok. Ma è per l’articolo. “
“ Antonio… Hai finito quell’articolo tre mesi fa. “
“ Si… Ma… Sono un giornalista… ”
“ Antonio. Ti prego. Smettila è diventata un’ossessione. “ La sua voce era diventata quasi supplichevole. Piagnucolosa.
“ Poi ieri… ” Si mise a piangere. Cercai di abbracciarla. “ No! Adesso mi ascolti. Non si può risolvere con un bacio sulla fronte. Ieri… “
“ … “. La guardavo, colpevole, mentre cercava di fermare i singhiozzi.
“ Ieri ho vomitato fino a svenire. E tu non sei venuto. Fabrizio mi ha messo sul letto. Fabrizio! “. Lo zigomo era diventato sgradevolmente nero. Una tale bellezza compromessa da tanto approssimativa asimmetria.
“ Amore, non ti ho sentito. “
“ Fabrizio è venuto a chiamarti! “
“ Non è vero! “
“ E’ venuto a chiamarti e mi ha raccontato che lo hai cacciato via. Mi ha anche raccontato che gli hai detto delle cose orribili. “
Oddio. “ Non è possibile. “ A bassa voce. Ma già sapevo che stavo mentendo.
Anna aveva gli occhi rossi dal pianto. La pelle era ancora pallida; da ieri sera. Le lentiggini apparivano come macchie sulla sua pelle. Ma ciò che più mostrava i segni della sofferenza era il suo cuore. Io l’amavo: non potevo vederla così triste. Cosa le stavo facendo? Cosa stava succedendo in questi mesi? Prima la confessione del tradimento. Ora questo. Dovevo smettere.
Ma non lo feci.


15.

Devo reagire come non ho fatto per mesi. Non può tenermi qui dentro fino alla morte. Sono già ridotto ai limiti estremi. Il braccio destro ormai pende privo di ogni segno di vita contro il fianco. La pelle si è fatta livida fino a sotto il gomito. L’intero arto è gonfio in maniera innaturale e lucido per la tensione. Un liquido trasparente e vischioso lo bagna in rivoli che hanno appiccicato i peli alla cute e che in prossimità della mano si incrociano per poi scomparire tra le nocche che ora sembrano olive pallide. Non guarderò più la spalla. I miei escrementi e l’urina appesantiscono il cavallo dei pantaloni e sento un fastidioso formicolio sulle natiche e intorno all’ano. Le ginocchia mi fanno un male da impazzire. Ho un bisogno disperato di distenderle. Ma ho paura ad issarmi in piedi: il suo braccio potrebbe proiettarsi all’interno dello stanzino dallo squarcio sulla porta e strappar via la mia gola.
Tendo le orecchie. Ho bisogno di sapere dov’è… Ma non si sente. Non si sente nulla.
La sensazione di un esercito di milioni di formiche si spande lentamente sulla parte destra del mio busto. E’ la cancrena ( sei sicuro, Antonio ? No, ma qualunque cosa sia mi condurrà alla morte ).
Forza…
Forza, Antonio…
Senza pensare mi lancio in piedi. Le gambe quasi cedono ma la disperazione è troppa.
Urto con la spalla la mensola ( idiota, te ne sei scordato ) che lancia un urlo di legno contro cemento. Non sento nessun dolore ma solo la resistenza di quel corpo che ha cercato di opporsi alla mia salita.
Sono in piedi. L’apertura nella porta illumina, come un bersaglio irregolare, la mia pancia.
Cristo! Mi strapperà gli intestini!
Senza aspettare che la mano entri dal buco per estrarre con ferocia le mie budella, lancio un urlo che, arrugginito, mi raschia la gola e con il braccio ancora funzionante spalanco la porta che non era mai stata chiusa a chiave.
I miei occhi erano preparati a ricevere uno schiaffo di luce ma la stanza è appena in penombra. Il letto matrimoniale ( io ed Anna ) sta zitto, mantenendo stoico il suo peso. Alla destra il comò decorato con la specchiera di mia madre appare di un marrone bruno alla luce del lampione. L’armadio dalla parte opposta della stanza custodisce gelosamente al suo interno i vestiti di Anna, come gli era stato ordinato di fare prima che tutto ciò accadesse. La porta alla sinistra della testata del letto è completamente aperta. Se non fosse per le chiazze di sangue ( le mie orme; solo le mie! ) che dalla porta giungono al mio nascondiglio, la stanza sarebbe in perfetto ordine…
Dov’è?
Dove sei?... Dove sei, cazzo?
Fermo il respiro: niente. Nella stanza non c’è alcun rumore.
Che fine ha fatto?
Ed io? Che faccio ora?
Sono bloccato ancora all’interno del ripostiglio e non ho il coraggio di fare quel passo che mi condurrebbe fuori dalla mia gabbia. Ho il terrore di staccare la schiena dal muro. Non voglio affrontare l’ignoto delle pareti della stanza da letto che il mio sguardo non riesce a raggiungere.
E aspetto. Per più di venti minuti.
Non succede nulla.


16.

Accade qualcosa.
Merenau, il cane dei vicini abbaia ad una macchina che passa.
Ce la posso fare. Faccio un passo fuori dalla stanza…

Nulla. Sono salvo. Salvo?
Non c’è più? Non è possibile. Non ha senso. Sono quasi indispettito come un bambino che a nascondino, dopo aver trovato il nascondiglio perfetto, ne esce e scopre che i suoi amici hanno smesso di giocare da un pezzo.
Vago inebetito per la stanza. Non mi sembra vero di essere fuori e non so gestire la mia da poco acquisita libertà.
Oscillo. Le orme che lascio sono l’unica prova dei miei inutili spostamenti. Mi accorgo solamente che tutto sono imbrattato di sangue.
Come per un tocco di bacchetta il telefono si impone alla mia vista. Polizia. Ospedale. Forse prima l’ospedale e poi la polizia.
Mi avvicino. Allungo il braccio. Finché la mia mano sinistra si ferma sulla cornetta. Ce l’ho fatta… Vedi, Antonio, non c’era nulla da temere.
Poggio la cornetta sul marmo del comò e schiaccio l’1.


17.

Leggevo. Leggevo di Satana, del Sommo Demonio, dei suoi infiniti nomi e delle sue infinite forme, di tutti i mali che la sua eccelsa mente era in grado di partorire e di come il suo multiforme gusto riuscisse ad assaporarli tutti, dal più sublime al più basso e volgare. Leggevo quando lo vidi per la prima volta. Ero riuscito a procurarmi ( per sua volontà e non per mia bravura, ora lo so ) un manoscritto. Non era altro che una pila di fogli di scarsa qualità riempiti di una scrittura fitta e incerta. Alcune volte, parti del testo mi risultavano incomprensibili. Altre volte interpretavo con estrema facilità gli stessi passaggi: le lettere non si aggrovigliavano più in uno stridente scarabocchio ma tracciavano nette pensieri blasfemi che ora non riesco più a ricostruire.
Poggiai il dito sul foglio come a sottolineare i segni tracciati. Come era vecchia la mia mano. La pelle ricadeva floscia, aggrappata disperatamente ai tendini che disegnavano raggi ben evidenti sul dorso, e, quasi totalmente glabra, lasciava emergere solo alcuni grossi peli neri. Le unghia erano esageratamente allungate e chiazzate di nero. Un leggero tremolio scuoteva debole il mio arto.
Non pensai alla orrida metamorfosi del mio corpo e continuai a leggere.
Poi una mosca si posò sulla pagina che stavo leggendo oscurando con la sua innaturale grandezza la parola “vivo”. Le ali ripiegate sul suo corpo erano di un blu iridescente rigato a tratti da riflessi verde acqua. Le zampe proiettavano una sensazione di immutabile stabilità anche se erano ricoperte da orrendi e rivoltanti peli neri. La proboscide era un ferro acuto e duro dal colore del sonno di un morto. Ma ciò che calamitò la mia attenzione, in quel corpo al contempo disgustoso e sensuale, furono gli occhi. Erano gialli. Sfaccettati in modo ipnotico. E intelligenti. Troppo.
Fermo. Rimasi immobile ad osservare: o meglio a guardare, poiché non vedevo.
Poi disse: “Tuo figlio”.
Mi bloccai inebetito, incredulo. Avevo sognato?
Così disarmato fui travolto da un urlo acuto. Mi scossi. L’urlo si ripeté, più lungo e acuto. Dimenticai tutto e scaraventai a terra la poltrona dello studio per andare a soccorrere Fabrizio. Le grida divennero sempre più fitte e disperate e a queste si erano assommate quelle di Anna che era giunta nel giardino prima di me.
La scena in un primo momento mi risultò difficile da mettere a fuoco. Una massa nera si dibatteva a terra, scalciando e sbracciando. Un ronzio infernale quasi assordava.
Un urlo di disperazione di mia moglie mi costrinse a metabolizzare ciò che stava accadendo anche se non riuscii a darne una motivazione sensata: Fabrizio era ricoperto interamente da mosche.

Corsi dentro. Urtai con violenza il quadricipite sul bordo del tavolo. La fitta acuta e il brivido che mi sollevò i capelli all’attaccatura non rallentarono lo scatto. Spalancai con forza eccessiva le ante del mobiletto sotto il lavello e infilai deciso una mano tra le bottiglie di detersivo per i piatti e sapone per il pavimenti. Le dita si strinsero con sicurezza ( l’avevo posato io là ) sulla fredda superficie di una bomboletta metallica. La estrassi lanciando flaconi e confezioni sul pavimento. La bottiglia di olio oscillò pericolosamente sul bordo all’estrema destra del mobile, quindi si frantumò repentinamente a terra. Lessi sulla superficie colorata di ciò che avevo in mano “MOSCHE E ZANZARE” e senza un sorriso corsi fuori.
Fabrizio giaceva immobile ancora immerso in quel sudario nero. Anna spazzava a due mani le mosche dal corpo del nostro bambino, ma queste come per una fatale attrazione verso quella pelle delicata tornavano a riattaccarsi sul lembo di rosa che rimaneva a vista.
A quel punto ebbi un attimo di cedimento di fronte alla mostruosa irrealtà della scena. Ma fu breve.
Mi lanciai schiacciando l’ugello dello spray. Ebbi come l’impressione di colorare di rosa quella superficie nera cangiante: le mosche investite dall’insetticida volavano via o cadevano in traiettorie elicoidali sul terreno dove rimanevano agonizzanti a dibattere le ali in un convulso riflesso al pericolo.
Fabrizio ora giaceva su un lenzuolo nero ondeggiante. Lo guardai mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime. Ma non ebbi il tempo di rilassare le spalle, che vidi con un orrore che mi paralizzò interamente la schiena che la sua bocca, spalancata in un tragico grido strozzato era traboccante di mosche. E il petto di Fabrizio era fermo.
Violentai la rigidezza delle mie membra ( una atroce lama di dolore lacerò l’attaccatura del collo alla spalla ). Presi il corpicino, lo rivoltai a pancia in giù sostenendolo con il braccio sinistro sotto il petto mentre con la mano destra estraevo indelicatamente manciate di insetti dalla bocca.
Di colpo Fabrizio si scosse con violenza e emise un grido lungo, raschiante, rauco mentre rigettava le ultime mosche che gli avevano invaso coi loro corpi morti la trachea. Solo allora mi accorsi che anche Anna, inginocchiata con le mani al volto, stava gridando. Quindi, sommerso dalle urla della madre, cominciò a piangere sommessamente mentre sotto i brandelli di vestiti la pelle puntinata di rosso cominciava ad infiammarsi.
Rosso stagliato su un mare nero…


18.

C’è qualcuno dietro di me?
D’istinto guardo lo specchio e il terrore mi attraversa lacerandomi l’intestino. Solo un mostro compare nell’immagine riflessa: io.
Gli occhi. I miei occhi verdi sono opacizzati dai riflessi grigi del pianto troppo prolungato. Ma anche questo colore riesce a stento a tirarsi fuori dai baratri neri delle orbite. Le labbra sono secche e spaccate. Il gonfiore le spinge all’infuori in una espressione di demente stupore che lascia alla vista un arco di denti bianchissimi macchiati a tratti di rosso. Un rivolo di sangue rappreso è colato da un taglio sul dorso del naso e disegna una linea incerta sulla parte sinistra del volto. Tra i capelli stanno aggrappati i frammenti di legno della porta come orridi fermagli per l’acconciatura di un pazzo. Sono senza maglietta e questo mi permette di vedere la tragica condizione della mia spalla. Ormai a peso morto il braccio pende appeso a qualcosa di irregolare. Noto solo come i lembi di carne induriti hanno assunto una colorazione bluastra.
Sono completamente inzuppato dal sangue della mia famiglia coperto solo sul ventre dai resti gelatinosi del vomito. Un brivido parte dall’inguine e risale fino ai capelli.

Riprendo in mano la cornetta e la porto all’orecchio, pronto all’insistente tuu tuu tuu della linea caduta. Ma l’apparecchio tace.
Cazzo.

Riabbasso la cornetta. La poggio sulla superficie del mobile ( sfioro con le dita il legno ). Alzo lo sguardo e lo punto nei miei occhi riflessi allo specchio. Sto sudando copiosamente. La mia sicurezza si sta sgretolando velocemente. Sento le gambe deboli. Le ginocchia si fanno sassose. Sento, impietosi, i brividi della febbre messaggeri di morte. Il formicolio si è esteso dalla parte destra del busto fino alla pancia. E la testa pulsa talmente che sento scoppiare il collo.
“No, non è ancora finita” mi dico sottovoce e, come un leone che, avvicinatosi alla sua preda, scatta all’attacco dopo essere stato scoperto, un urlo ( un tuono ) feroce, come un fuoco di gas, travolge tutta la casa riempiendo di terrore ogni singolo angolo… ogni singolo interstizio.
Il mio respiro si ferma. Il cervello lascia il controllo al corpo. E il mio corpo, reso folle dalla stanchezza, dal dolore e dall’orrore, si lancia alla ricerca di un nascondiglio. Mi trovo sdraiato a terra mentre con i piedi calcio il mobile e con il braccio ancora vivo cerco di trascinarmi sotto il letto ( sto facendo rumore! sto facendo rumore! ). Sento l’altro mio arto, divenuto ormai un peso, arrotolarsi sotto di me. Sento la pressione della mano gonfia sotto la mia pancia. Sotto il ventre. Preme dolorosamente i testicoli. Sono completamente nel mio nascondiglio: ritraggo la gambe schiacciando il fianco contro gli uncini della rete al di sotto del materasso. Trattengo il fiato.
Non sta venendo. Non si muove. O non è qui.

“Non ti crederanno quando dirai loro che sono stato Io.” Dietro di me…


19.

Non è possibile.
Mi volto.
Sono lì. I suoi occhi gialli, e sporchi e liquidi come il pus di una ferita infetta.

Voglio morire. Non ce la faccio più.
Ma per la seconda volta il corpo, o forse un primitivo istinto di autoconservazione bypassa la mia volontà: le gambe si contraggono, la mano raschia il parquet ( non sento un’unghia saltare ). Il corpo si tira su impattando la massa flessibile del letto sopra di me che sobbalza pesantemente ricadendo con un rumore furioso sulla schiena. Gli uncini della rete mi entrano nella carne. Spingo per fuggire. I muscoli tesi della schiena si lacerano. Qualcosa fa resistenza. Poi la cintura si divincola dall’uncino che l’aveva agguantata. La carne cede definitivamente e rimane appesa a brandelli sotto il letto.
Ma io sono fuori.
Un tonfo di legno spezzato echeggia di fronte a me, ma non riesco neanche a notarlo: sento solo l’alito del predatore. Alle mie spalle.

Corro per il corridoio un tempo conosciuto. Verso la cucina ( a che serviva quello spazio? ). Urto contro i muri, contro oggetti. Qualcosa cade e si frantuma alle mie spalle. Corro. Senza guardarmi indietro. Poi un impatto troppo violento mi scaraventa a terra.

Gli occhi sono offuscati. Davanti a me solo una figura scura ed il riflesso di qualcosa di metallico. Urlo, urlo, urlo.
“Fermo o sparo!”



20.

Le mura attorno a me sono bianche. L’aspetto riposante si abbina alla morbidezza dei cuscini di cui sono rivestite. Per il resto la stanza è completamente vuota. Senza finestre.
Abbasso gli occhi verso il punto in cui un tempo era attaccato il mio braccio destro. Ora c’è solo un camice con la manica ricucita su se stessa.
Ho detto loro che non ero stato io. Ho detto loro che io ero la vittima. Ho detto loro che, però, la colpa era stata mia. Ma non mi hanno creduto.
Hanno detto che c’erano solo le mie impronte. Hanno detto che c’erano le mie impronte sul matterello con cui è stata sfracellata la testa di Fabrizio. Hanno detto che c’era la carne della mia spalla in bocca ad Anna. Hanno detto che ho tagliato i cavi del telefono. Hanno detto che sono stato cinque giorni con i cadaveri della mia famiglia. Hanno detto tante cose. Ed io ne ho dette poche. E non mi hanno creduto.

Ora ho fame. Tra poco dovrebbe arrivare il pasto. Ho fame.
La porta riceve uno scossone e si apre.
“Ciao Antonio. Tutto bene?”
“Non sono stato io.”
“Lo so. Però ora, come sai, vai in fondo alla stanza se non vuoi che sia costretto ad usare la scossa.”
Mi allontano.
“Bene, buon appetito. E non mangiare di fretta. Tra un po’ vengo a prendere il piatto.”
La porta si richiude alle spalle di Carlo. E’ un omone. Gentile. Anche se a volte mi punta addosso quella strana pistola che spara elettricità e mi fa paura.
Vado verso la mia ciotola. Non mi danno più il cucchiaio da quando me lo sono conficcato in gola. E la ciotola è di legno.
Speriamo che anche oggi non sia brodo di carne.
Guardo. Lo è. Pazienza.
Incrocio le gambe. Mi siedo. Prendo la scodella e la porto alla faccia.
Mentre bevo i pezzi di carne franano dolcemente verso la mia bocca.
Una piccola forma nera viene a galla. Cos’è?

Una mosca.

Mi fermo. Il brodo mi scotta dolorosamente il labbro superiore.
Ecco. Non è ancora finita per me.
Poggio la ciotola, che non fa rumore contro il pavimento imbottito.
Una mosca.
Scoppio a ridere. Forte.

Tanto, cosa ho ancora da perdere?

© Marco Battiato





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