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La vita degli altri
di Fabrizio Amadio
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LA VITA DEGLI ALTRI






All’incirca le sette di sera. Poco prima dell’orario di chiusura della biblioteca comunale. Augusto era seduto come suo solito nella fila centrale di poltrone di pelle nera: sedeva sempre sulla terz’ultima di queste, con il corpo rivolto al lungo corridoio centrale, circondato, a destra e a sinistra, da file parallele di scaffali , e con la schiena che dava alla saletta posteriore, in cui erano collocate le riviste giuridiche e i cataloghi.
Non era una scelta casuale quella del posto. A volte, se trovava occupata la sua poltrona, rimaneva impalato a pochi metri di distanza, magari fingendo di leggere i libri che aveva con sé o di ricercare dei testi in uno scaffale scelto a caso. Una sera, non molti giorni prima, dopo aver passato più di mezz’ora ad aspettare che si fosse liberata, si mise a fissare in maniera così astiosa e aggressiva il ragazzo che vi era seduto tanto che questi, dapprima cercò di evitare i suoi sguardi livorosi, poi cominciò a ricambiare, ma in maniera goffa e preoccupata, le occhiatacce che gli lanciava. Alla fine si alzò, non si sa se più infastidito o terrorizzato.
Ma Augusto non poteva far paura a nessuno e le sue dichiarazioni di guerra non erano altro che innocui mascheramenti.
Si è detto che sceglieva con cognizione di causa la poltrona da occupare, e questo per un’unica e banale ragione: voleva guardare le donne che passavano, senza farsene sfuggire alcuna. E quella era proprio la posizione strategica per soddisfare il suo desiderio. La poltrona era collocata alla fine del corridoio centrale, per cui si poteva studiare il via vai di studentesse che transitavano quotidianamente nella sala lettura; non solo, le si poteva vedere arrivare da lontano, studiandole per lungo tempo, fin quando non fossero giunte ad un passo da lui. Le fissava allora con bramosia, alternando lo sguardo ai loro corpi e alle pagine che stava leggendo, che in quei momenti sembravano insignificanti, quasi fossero bianche, tanto i suoi pensieri erano nervosi e convulsi. Soprappensiero, ignare di lui che le spiava, o concentrate, gli occhi socchiusi in uno sforzo d’attenzione, lui le guardava impegnate a camminare e intanto sfogliare una rivista, un libro, per poi magari fermarsi davanti ad uno scaffale, scorrendo veloce con gli occhi i titoli esposti; d’estate sentiva il ciabattare delle loro scarpe leggere, l’inverno il peso e la severità degli stivaletti di pelle, al di là dei quali riusciva tuttavia ad intuire l’energia dei polpacci, la sinuosità delle forme.
Quella poltrona è poi importante per un’altra ragione. E’ collocata infatti al centro di una grande T che una corsia laterale forma incrociandosi perpendicolarmente al lungo salone centrale. Alle estremità di tale passaggio, sulla destra , vi è l’ ascensore che conduce ai piani superiori della biblioteca, forniti di bar e salette dotate di computer, e a sinistra la stanza dedicata al materiale audiovisivo. Tutti luoghi di passaggio frequentatissimi: posti nei quali molte donne erano obbligate a transitare.
Quella sera, siamo in novembre, si trovava tra le mani due libri scelti a caso; tenendoli entrambi sopra le ginocchia, maneggiandoli avidamente, aprendone a caso uno, ne sfogliava un paio di pagine, leggendo la quarta di copertina, l’anno di stampa e la casa editrice, per poi posarlo ed aprire l’altro, compiere gli stessi gesti automatici per dimostrare un misterioso e convincente interesse di facciata. Ma la sua attenzione era altrove, e questa volta non dispersa tra le miriadi di braccia e gambe e visi femminili che lo sfioravano senza guardarlo, che piantavano scie di profumo attorno alla sua persona, ubriacando e corrompendo il suo fare normalmente serio e compunto: ora i suoi sguardi erano per la ragazza che lavorava in biblioteca.
Non l’aveva mai vista prima d’allora. Dal cartellino appuntato sul petto seppe che si chiamava Elisa, e studiandola capì che non poteva avere più di venti, al massimo ventidue anni.
Egli stesso non riusciva a comprendere perché fosse spinto a guardarla con tanta insistenza. Era esile, quasi priva di fattezze femminili, i capelli lunghi e ricci dietro le spalle sembravano malcurati. E poi il passo severo, la pelle bianca e smorta che aveva… Davvero non emanava nessun segno tangibile di bellezza e sensualità. Aveva degli occhi espressivi e grandi, questo si, e Augusto poteva quindi essere attratto dal suo sguardo…Ma non si trattava di questo. Era la situazione oggettiva a spingerlo a fissare la sua attenzione su di lei, la meccanica di quei momenti, il fatto che nel contesto in cui si trovava quella ragazza rappresentava l’unico essere umano che, volente o nolente, poteva stabilire un contatto con lui: perché costretta ad essere gentile con i lettori e perché se l’era vista passare di fianco almeno una decina di volte, a riordinare scaffali, fornire informazioni. Era come se, pur non ignorando il passaggio di altre donne che anzi continuava a guardare con avidità, i suoi interessi dovessero rivolgersi necessariamente a lei, non per la sua particolare bellezza, ma perché era la realtà esterna ad imporlo. Perciò seguitò a non lasciarsi sfuggire nessun viso, nessun paio di gambe, ma solo per abitudine o per una sua strana disciplina; infatti, subito dopo era spinto a cercare con lo sguardo Elisa, sia che si trovasse ad un passo da lui, dietro la sua poltrona, o da tutt’ altra parte, all’inizio del salone. Una volta si alzò anche in piedi, stirando il collo e lasciando cadere i libri che aveva sulle ginocchia, perché non riusciva più a trovarla.
La vide che si era discostata un poco, tra uno scaffale e l’altro, ferma, in piedi a parlare con un ragazzo che l’aveva bloccata e che ora le stava sorridendo imbarazzato. Augusto ora poteva distinguerli chiaramente. I due erano più o meno coetanei. Lui era alto, molto magro, i capelli rasati.. Notò che dalla tasca posteriore dei pantaloni usciva una lunga catena di ferro che andava a congiungersi con la tasca laterale. Aveva anche un vistoso portachiavi ciondolante, dalla parte sinistra, che provocava un tintinnio continuo ad ogni suo movimento. Si agitava in maniera febbrile, roteando le mani, avvicinandosi al corpo di lei per poi allontanarsene, discostarsi un poco ed assumere una posa scomposta, con la mano destra adagiata sui fianchi e le gambe divaricate. Ma questa goffaggine, invece di renderlo ridicolo, agli occhi di Augusto appariva come un segno tangibile di sicurezza e forza. Era lo sforzo della sua volontà che si esprimeva nella scompostezza degli atti, pensava tra sé, la fatica e la veemenza spese per compiere un gesto carico di significato. Augusto vide quel giovane quasi in bilico, tentennante sui suoi passi, ma comprese anche ciò che vi era sotto e per questo lo guardò quasi ammirato.
Passarono dei minuti; Elisa cominciò a guardarsi intorno, anche lei ora in imbarazzo, a controllare se qualcuno della direzione non la stesse per caso osservando. Augusto notò che ora sembrava distratta, infastidita, i suoi occhi si muovevano nervosamente, e sul suo viso cominciò a delinearsi un’espressione di evidente distacco. Era chiaro che stava cercando le parole e i gesti più opportuni per terminare la conversazione. Sembrò accorgersene anche quel ragazzo che infatti, tutto rosso in viso, costretto in un sorriso nervoso, le porse la mano esitante, pronunciando parole che Augusto non fu in grado di decifrare.
Li fissò ancora per un poco: Elisa che continuava la sua meccanica passeggiata, e quello sconosciuto che si allontanava ciondolante: Augusto cercò di distinguere il suo profilo sino all’uscita della biblioteca.
Evidentemente era rimasto molto colpito da quella scena a prima vista insignificante. Tanto colpito che indugiò con gli occhi sullo spazio vuoto lasciato dai loro due corpi, restando così, immobile, senza accorgersi che ormai Elisa era ad un passo da lui.
Rimasta sola, e dopo aver scelto, si direbbe a caso, un volume per controllarne la collocazione rimettendolo poi al proprio posto, aveva lanciato uno sguardo severo e deciso ad Augusto. Lui, che in quel momento la stava fissando con la sua solita improntitudine, sulle prime non riuscì ad interpretarne le intenzioni. Si girò, addirittura, per controllare se alle sue spalle ci fosse qualcuno. Vedendo le altre poltrone vuote, e constatando l’assenza di persone dietro di sé, tornò a guardarla, non nascondendo una certa sommessa aria di soddisfazione.
Procedeva a passi lenti ma decisi, con gli occhi, ora non più severi ma svuotati, rivolti ad un punto qualsiasi della parete di fronte. Quando fu a mezzo metro dalla sua poltrona, e con lo sguardo ancora perso, tutt’ altro che rivolto a lui, gli disse:
« La biblioteca sta chiudendo, se vuole prendere in prestito i suoi libri ha ancora pochi minuti». Solo ora lo fissò, ma di sfuggita e con la coda dell’occhio, storcendo impercettibilmente la bocca, come a squadrarlo e schernirlo.
Augusto, che poco prima aveva ascoltato le sue parole in silenzio, immobile e senza quasi respirare, si alzò con decisione, i libri da una parte la giacca dall’altra; posò poi i libri sopra un tavolino, indossò la giacca di velluto marrone, la sciarpa, i guanti, e finalmente uscì. .Lo si poteva vedere camminare con sicurezza, il busto eretto e lo sguardo concentrato, quasi a voler mostrare una risolutezza innaturale.

Fuori il cielo era fresco e l’aria pulita. Da una nuvola sola, proprio sopra la sua testa, cadeva della pioggerellina sottile, passeggera. Novembre era appena cominciato, e il rossore sfocato di quel tramonto veloce era la prova più vivida dell’inizio dei primi freddi.
Accese una sigaretta non appena fuori dalla biblioteca. Prese a camminare lentamente, ad un ritmo cadenzato. Aveva ancora del tempo a disposizione e l’animo ben predisposto a camminare senza nessuna meta in particolare. Decise allora di attraversare la piazza, tagliare poi per alcune viuzze laterali ed arrivare al caffè per il consueto bicchiere di bianco che si concedeva ogni sera prima di cena.
Augusto amava molto guardare le altre persone. Fissava ogni viso, memorizzava espressioni, smorfie degli occhi, alzate di sopracciglio, era sempre pronto, quasi al di là della sua volontà cosciente, ad ascoltare inoltre tutti i discorsi che gli turbinavano attorno. A volte erano voci spezzate, frasi tagliate a metà, che riusciva a carpire solo parzialmente, ma poi la sua immaginazione faceva il resto: completando le frasi non dette, associando visi a parole, inventando storie che riguardavano gli sconosciuti che incrociava per strada.
E qui il suo amore per le donne contava ben poco, solo incidentalmente. Nell’interesse costante che manifestava verso le persone, non vi era infatti nessun sentimento morboso e nessun desiderio espresso o latente: si trattava di curiosità, di semplice vicinanza morale ed umana. Potrebbe sembrare assurdo, ma in quei momenti, come allora che stava passeggiando ed incrociava centinaia di facce, tutte diverse, era un’ attenzione innata a sospingerlo verso di loro, una curiosità profonda, quasi un vezzo antropologico.
Ma oggi vi era qualcosa in più. Uno stimolo ed un pretesto che lo spingeva a guardare in maniera differente. Delle cose erano successe, dei cambiamenti, un insieme di eventi che avevano in qualche modo incrinato il suo consueto equilibrio. In conseguenza di ciò ed in maniera automatica, era nata nella sua testa come un’idea fissa, non dei pensieri chiari ed organici, bensì delle impressioni soffuse, impalpabili, ma che tuttavia emergevano a tratti, irregolarmente, attraverso un repertorio di gesti e posture. Come la sua camminata, mai come ora regolare, talmente impostata da farlo apparire ridicolo, quasi fosse in preda al delirio; o il modo in cui affrontava gli sguardi degli altri: tenendo gli occhi dapprima bassi, ed alzandoli poi, a scatti, non appena sentiva rumore di passi o l’avvicinarsi di una voce, e con un piglio, ora, simile più alla supplica che alla sua consueta curiosità.
La giornata era passata veloce, diversa dalle altre, un fremito di energia e calore lo aveva accompagnato per tutto il pomeriggio. Come un ronzio il dolce rumore della felicità, una felicità di sottofondo, lieve ma allo stesso tempo intensa, si era insediato profondamente nelle sue orecchie, rinfrancandogli i pensieri, dando un tono leggero e veloce ai suoi movimenti.
Sembrava privo di peso, oggi, in ufficio: e mentre camminava nei corridoi, inviava un fax o compieva anche i gesti più ripetitivi e meccanici, una smorfia sembrava affiorargli dalle labbra, quasi un sorriso. E gli occhi gli lampeggiavano.
Si trattava di questo: aveva ricevuto una e-mail importante, che aspettava da tempo. Non l’aveva ancora letta, un po’ per il ritmo caotico del lavoro, un po’ perchè aveva preferito aspettare, pregustando il momento in cui, solo in camera, al riparo da sguardi indiscreti, avrebbe potuto leggerla in tutta tranquillità.
Ne conosceva il mittente, e questo spiegava lo stato irrequieto in cui si trovava ora che camminava solo per la strada. Senza nessuno con cui condividere il suo slancio, la sua passione. Pensò che tutto questo fosse triste, vivere la felicità a quel modo, lasciarsela strozzare in gola.
Percorse via Indipendenza lentamente, ponendo una maniacale attenzione ad ogni passo, quasi volesse contarli. Bologna esplodeva a quell’ora. Tutti uscivano dal lavoro, gli studenti, gli impiegati, tutti in giro, tutti con qualcosa di preciso da fare.
E lui a camminare, dalla parte sinistra del marciapiede, sfiorando con la mano ogni vetrina, ogni portone, procedendo in senso contrario al flusso di gente che dalla stazione si dirigeva a Piazza Maggiore.
Aveva perso l’euforia del giorno e ora non c’era verso di ritrovarla. Questo lo portava a guardar smaniosamente le donne che incrociava, indugiando con gli occhi, girandosi in attesa di un segno: nulla... Le sentiva come un dolore, un’apprensione allo stomaco da far piegare le gambe, da togliere il respiro. Misurò la distanza che le separava da ciascuna di esse e non poté non pensare a Patrizia.
Non resistette, allungò il passo e dopo pochi minuti entrò in un internet cafè.


La vide la prima volta che non era ancora estate. Maggio, la saletta esterna di un locale fuori città: le gambe delle donne; un concerto jazz all’aperto.
I tavolini erano disposti circolarmente di fronte al piccolo palco ancora vuoto: un tappeto rosso a ricoprirne il pavimento; gli strumenti, nella penombra serale, riflettevano le luci di scena ancora soffuse.
Un movimento di corpi e delle voci, appena sotto la scaletta posteriore, annunciò l’imminente inizio della musica. Anche dietro la sua sedia qualcosa si animò, tutti presero posto, delle ragazze risero.
Lui sedeva solo, ma era come non esserci. Non provava imbarazzo per questo, né il chiacchiericcio di fondo, le risate che facevano capolino da tutte le parti intorno a lui, lo infastidiva o intristiva. Era come se Patrizia, anche prima di entrare e cominciare a cantare, avesse già fatto presa su di lui, e comparisse di nascosto, tra la chitarra e il piano, annunciata dalle luci che si alzavano. E infatti poteva già vederla, o meglio intuirla. Ora ne conosceva il vestito rosso di seta e i sandali neri.
Entrò e cantò di colpo, senza essere presentata o salutare. Cominciò con una canzone brasiliana, il tema conosciuto faceva canticchiare tutta la platea; poi i musicisti sviarono, nascondendo le note, aggiungendo accordi e assoli, per poi tornare alle atmosfere iniziali, ma in un crescendo di armonie che rendeva il brano del tutto originale. Patrizia cantava senza mai sorridere. Sembrava tesa: guardava davanti a sé.
Neanche il tempo degli applausi e via la seconda canzone. Una musica festosa, tutta percussioni, chitarre allegre e piano di accompagnamento. Partito il refrain, con la chitarra ora da sola ad inseguire la voce di Patrizia, Augusto la vide compiere un gesto apparentemente insignificante, ma che si impresse in maniera così vivida nella sua coscienza da farlo sussultare. Ancora oggi, pensando a lei, non poteva non ritornare con la memoria a quel preciso istante.
Chitarra, voce, ed il contrasto profondo tra gli accordi di festa e l’espressione di Patrizia, seria e concentrata, poi un movimento rapido, involontariamente scenografico, la sua mano sinistra che si liberava dello scialle rosso porpora gettandolo di lato, e i sandali che vennero via, uno alla volta. Abbandonati sui bordi del palco, grezzi, consunti, apparvero ora ad Augusto irreali e assurdi. Con Patrizia che aveva cominciato a ballare, i piedi nudi che risuonavano in tonfi sordi, le mani a sollevare maliziosamente i bordi del vestito, con gli sguardi di tutto il pubblico incollati ai capelli che le cadevano sugli occhi; in mezzo allo spazio invisibile creato dalla sua danza la consistenza materiale di quei sandali aveva un che di comico e paradossale.
Lui la guardava, attento e affascinato, e quella volta capitò un fatto strano. Una sensazione inusuale lo avvolse, una specie di moto interiore confuso che lo costrinse a pensare e a guardare con maggiore interesse la scena che gli si svolgeva di fronte.
Patrizia era una donna bellissima. Elegante, sottile, luminosa, ma nel constatare ciò, nell’apprezzare apertamente tale splendore, non cadde nella solita trappola mentale che tendeva inconsapevolmente a se stesso. Non fu spinto a costruire attorno a quella visione la consueta, scontata e lineare successione logica di pensieri opachi, vecchi, che da anni governavano e ordinavano in modo stravagante la sua vita. Di fronte a donne di tali fattezze, portatrici di bellezze nette, rumorose, Augusto rimaneva immediatamente impressionato: quasi un dolore lo colpiva, come un cedimento. Era l’impatto generale a stordirlo: non si soffermava, almeno in questi primi istanti, su particolari aspetti della loro figura. Studiava l’abito, lo sguardo, ne misurava i passi, se camminavano di fretta o fossero al contrario svampite, leggere; erano sole o stavano con qualcuno? che tipo di amici, o fidanzati o amiche avevano? questi aspetti non gli sfuggivano mai: anzi, si può dire che fossero queste caratteristiche a interessarlo in maniera più vivida. Ciò che, pretenziosamente e frettolosamente, era in grado di dedurre da quegli aspetti così sommari e parziali della loro vita sociale, gli tornava utilissimo per il passaggio successivo della sua bislacca catena di pensieri. Sia che fossero donne dall’aspetto distinto, accompagnate da uomini eleganti, o studentesse, i visi puliti, immerse in un ciarlare di amici e risate, bastava una rapida occhiata indagatrice per convincere Augusto della loro irraggiungibilità: del fatto cioè che fossero assolutamente al di fuori della sua portata. Avevano un mondo di relazioni, passeggiavano con persone in possesso di un volto, di una faccia e (qui certamente vi era un profondo pregiudizio) di un senso…Si, quelle persone che avevano la possibilità di condividere parte della loro esistenza con donne così affascinanti avevano certamente delle vite importanti. Dense.
Magari erano degli artisti, questo il caso delle donne originali, vestite con abiti anticonformisti, o degli uomini d’affari, potenti, e qui si trattava delle donne eleganti; in ogni caso, pensava Augusto, uomini che, a differenza di lui, trasmettevano qualcosa, magari solo superficialmente, a causa di un muto equivoco dettato dal sentire comune e dal conformismo delle prime impressioni: erano identificabili, fuori dal comune.
Ed ora passava in rassegna gli altri componenti del gruppo. Quattro ragazzi, poco più che trentenni, chitarra, basso, batteria e pianoforte. Quattro persone assolutamente normali. Con facce che potevano appartenere ad idraulici, impiegati o commercialisti. Facce qualunque, come la sua.
Fu per questo che si impuntò con Patrizia. Essa rappresentava uno spiraglio, una possibilità. Si circondava di persone apparentemente normali, banali, e per questo poteva accogliere anche lui.
Notò come, alla fine del concerto, con Patrizia ancora persa nelle melodie del canto, i suoi occhi tuttora concentrati ed elettrici, la schiena lievemente perlata di sudore, una schiera di persone, macchine fotografiche alla mano, si avvicinasse a passi svelti a lei, coprendola per un attimo con parole e sorrisi. Vide i suoi occhi distratti fissare gli obiettivi, le sue mani ancora tremanti dall’emozione firmare autografi, e poi i lineamenti concentrarsi e tendersi in innumerevoli sorrisi, le braccia allungarsi in veloci strette di mano. Augusto si disse che no, mai e poi mai avrebbe partecipato a quell’inutile rito, alla corsa sfrenata per accaparrarsi gli occhi di Patrizia, un suo momento di finta attenzione. Non avrebbe condiviso l’agiografica ansia di quelle persone, per la maggior parte uomini, ragazzi giovani e giovanissimi, che si stringevano ora a lei nascondendola ai suoi occhi. E questo perché la sua non era semplice infatuazione: in realtà non sapeva neanche lui di cosa si trattasse, forse quella neonata passione non era altro che ansia di salvezza, gioia, senso; ma si diceva certo che qualcosa di profondo, un abisso incolmabile, distingueva i suoi sentimenti da quelli degli altri, che la seguivano ciarlanti, tra gridolini e applausi. Ciò lo rendeva sicuro, stimolando quasi la sua mania di solitudine, perché convinto che c’era da agire al più presto e quindi pensare, appartarsi, riflettere su di sé. Compiere degli atti.
Decise di scrivergli.
Prima poche righe, uno scarno ma al tempo stesso poetico messaggio di posta elettronica: le scrisse la sera stessa, dal computer di casa, senza neanche togliersi la giacca.
I primi tempi scriveva tutti i giorni: messaggi lunghi, in cui parlava degli argomenti più disparati. Poi cominciò a mandargli anche dei testi di canzone e degli schizzi per le copertine degli album: perché scriveva e disegnava bene e si diceva che Patrizia amasse molto collaborare con artisti esordienti.
Mai una risposta da lei, ma non demordeva. Leggeva dalle informazioni riportate dal suo sito internet che era in tourne a Milano, in Francia e persino in America del Sud, Bolivia e Guatemala. Non poteva leggerli, non ne aveva il tempo materiale. E questo, invece che umiliare e indebolire i suoi sforzi, lo rinsaldava all’obiettivo che si era prefissato.
Ma passavano i mesi e quel momento si faceva sempre desiderare. Fino a quel giorno, in cui nella sua casella di posta elettronica era apparso il mittente Patrizianaqui@hotmail.it : allora ecco spiegato e chiaro il suo entrare trafelato nell’internet caffè; tradita la sua finta sicurezza e capacità di aspettare; spazzato via il contegno di fronte a quel lungo periodo di non corrisposte passioni.

Ne uscì con gli occhi sbarrati, con uno sforzo d’attenzione per i suoi passi: mantenendo un equilibrio precario, con la faccia di chi dice no ed è sul punto di attaccare a parlare da solo, per tentare di spiegarsi tutto e magari ritrovare il filo.
Si sentì respinto, come un intruso, dall’aria fredda e dalla sera della gente che parla e ride e di fretta torna a casa; intruso come poco prima, agli occhi di Elisa, che lo avevano guardato solo in ossequio alla procedura, al garbo di facciata da mostrare a qualsiasi cliente.
Qualcuno di forte e nerboruto lo aveva strattonato, preso per il bavero, schiacciato contro il muro e poi sbattuto fuori; e lui, stordito, non si era voltato a guardare il suo carnefice. Lo conosceva, o meglio ne intuiva il volto. Ogni volta che la vita era sul punto di emergere lui appariva e lo sbatteva fuori. Un dolciastro sapore di sangue, le gambe che filavano leggere, prese da una primordiale ansia di fuga e da una morbosa voglia di camminare, ed eccolo filare verso quella “cosa” che lui conosceva a perfezione ma che nascondeva a sé e al mondo nonostante fosse la sua unica ancora di salvezza.

Prese la bici come sempre, per mischiarsi coi vecchi e passare inosservato. Scelta una macchina parcheggiata sul piazzale gli girò attorno per cercare il momento più opportuno e trovare il coraggio. Preferiva le vetture di media cilindrata: di solito i proprietari erano dei ragazzini e non c’era da temere per gesti inconsulti.
Si decise per una Fiat Punto nero metallizzato col muso attaccato al muro di cinta che divide il parcheggio dalla tangenziale.
Ora si trovava a meno di dieci metri dalla macchina ma era ancora seduto sulla bici, indeciso se avvicinarsi o meno. Da dentro nessun segno, nessun rumore e movimento.
Era costretto a farlo e questo rinsaldò la sua volontà. Il gestore del sito lo aveva invitato molto pacatamente ad interrompere la sua corrispondenza con Patrizia. Non che non avesse mai letto i suoi messaggi, diceva, ma non era quello il canale adatto per comunicare con lei.
D’un tratto ripensò a quei mesi di vane speranze e si fece cupo in viso. Ma era incredibile come riuscisse sempre a uscirne fuori, a fare tabula rasa di ogni sconfitta subita. Gli eventi lo segnavano di nascosto, nelle viscere, ma lui trovava sempre il modo di rifarsi. Il riscatto era là, in quel parcheggio, nel suo respiro convulso, nell’attenzione maniacale riposta in ogni gesto, nel corpo che poteva controllare fino all’ultima terminazione nervosa, e nella sua faccia, mai come ora presente, intuita in una pozzanghera, in un’ombra per terra o sul muro.
La macchina ad un passo, sceso dalla bicicletta, ora distingueva un piede nudo, non sapeva se di donna o uomo, e degli abiti gettati alla rinfusa sul sedile posteriore.
Spesso in quei momenti ripensava a quando era un ragazzetto, nella preadolescenza, e dopo aver giocato un po’ con gli altri, sempre rincagnato e immusonito, si allontanava a raccogliere bastoni, a spezzare la punta delle alte erbacce, a prendersi tutto il sole delle tarde mattine di agosto sulla nuca, sentendo alle spalle svanire a poco a poco le urla dei compagni, che divenivano fruscio di sottofondo e rumore d’insetti. C’era odore di feci, di urina e di ferraglia arrugginita. La notte la gente faceva l’amore dietro le baracche a pochi metri dal campetto di calcio. Lui allora non ne sapeva molto ma era come se intuisse qualcosa. Di giorno immaginava di trovarsi in un campo di battaglia ancora caldo di sangue e sudore di cavalli e per questo era teso ed emozionato. Concentrato su ogni centimetro di terra camminava a testa bassa, eccitato, perché tutta quell’erba incolta sapeva di avventura e cose proibite, e allo stesso tempo triste, perché un lampo di lungimiranza gli diceva che quello sarebbe stato il suo posto, lui sarebbe sempre entrato in scena a battaglia conclusa, a raccogliere le macerie e i frammenti della vita degli altri.


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