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Il senso della vita
di Patricia Wolf
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Casacca e pantaloni giallo-oro di lino. Capelli mossi da un po’ di vento. Salivo su per il percorso un po’ sconnesso che andava verso la collina, con la mia cabrio annaspante. Era quasi sera e mi scatenava una tempesta dentro, tornare sui luoghi del delitto. Ci avevo campato infanzia e adolescenza per quelle bande. Oltre la ferrovia, il mare e le grandi distese azzurre già un po’ inquinate ai tempi, le feste sul molo col mangiadischi ed ogni sera una conquista nuova, lì fra il verde i nostri nascondigli di bimbi e ragazzi. Il nostro fortino, il nostro campo apache, le nostre case disabitate dove nasconderci per sognare tempi antichi o viverci passioni vive, palpabili, pelle contro pelle. Qualche luce accesa, forse un fuoco messo su in modo rudimentale. Scalavo marcia e mi fermavo. Scendevo titubante. Sentivo l’odore forte di fumo che saliva alto, in quel capanno dirupato. Mi sa che c’era qualcuno.
Avanzavo un po’ sconvolta. Temevo brutti incontri. Mi assaliva il profumo di bistecche cotte alla brace assieme a quello dell’erba alta e un po’ incolta. Qualcuno s’era cucinato la sua cena. M’affacciavo al di là del vecchio muro, oltre un gradino franato. Vedevo un ragazzo un po’ scarmigliato, camicia con disegni etnici e jeans svasati, sdraiato fra le erbacce. Naso in su a meditare con gli occhi verso le stelle. Mi avvicinavo.
Avevo come un tuffo al cuore. “Freddie...tu sei Freddie”.
Si girava. Aveva gli occhi più infossati, il viso più marcato, un po’ scottato dal sole. Era più adulto, più forte, quasi avesse fatto tutta la vita lo spaccamontagne e gli fossero venuti i muscoli a forza di sollevare macigni. Ma era lui.
Freddie, il mio compagno di giochi d’infanzia. Eroico e vagabondo come me. Quel capanno era stato nostro per un po’. Prima che lui se n’andasse in giro per l’Europa a fare nuove esperienze, attratto dalla cultura anglosassone, smanioso di assaggiare le birre di tutte le nazioni, ascoltare musica dal vivo suonata dalle sue band preferite, stufo dei ragazzi di provincia che venivano in villeggiatura qui solo per rimorchiare e far finta di sentirsi avventurosi. Avevamo stanato fantasmi e fantasticato su mondi inesistenti, qui in collina. E quando ormai la febbre dell’adolescenza era salita alta come i fuochi che accendevamo da vecchi indiani emancipati con tronchi d’albero sfregati, c’eravamo dati amore ancora acerbo, accesi dalla rabbia contro la stupidità dei grandi, assaggiando fumo e whisky come fossero nettare d’eterna saggezza. Fino a veder spuntare l’alba.
Lui non era mai stato come Jonathan, Cocker e Samuel. Non l’avevo mai considerato un figlio di papà che giocava a fare l’avventuriero. Lui era nato zingaro e sarebbe rimasto fedele al suo ruolo a vita. “Che vuoi fare da grande?” gli chiedevo quand’eravamo ragazzini. Lui si stringeva nelle spalle e diceva che voleva fare il viaggiatore. Scoprire il mondo. Magari fare l’inviato per qualche giornale. Forse lo scrittore. Ma non restarsene a marcire lì, in quel mondo che sapeva di muffa appena costruito. Si voltava verso di me, in un sorriso dolce.
“Ciao...Ti aspettavo...” Scuotevo il caschetto chiaro e scoppiavo a ridere. “Ma cosa dici? Tu aspettavi me...Dopo tutto questo tempo? Ma se io sono capitata qui per caso, solo per fare un viaggio fra i ricordi e tutto pensavo tranne che stanare ancora qualche faccia nota, dopo tanti anni..” Lui continuava a sorridermi e si tirava su, appoggiandosi al muro sporco del capanno. “Devi credermi. Me lo sentivo che venivi. Anch’io sono qui da poco. Sono stato fuori...all’estero...Lo sai che faccio l’inviato per un giornale inglese, ormai? N’è passato di tempo eh..”
Lui mi aspettava. Ci sdraiavamo sull’erba a fumare.
E gli raccontavo la mia vita forse non vagabonda e zingara quanto la sua, ma abbastanza avventurosa. Tante storie, un paio di convivenze, lotte col mondo ottuso, amicizie da contarsi sulle dita, il mio incontro con le radio e Internet, i nuovi media. Il mio amore per la musica che non si era mai esaurito del tutto. Lui diceva dei suoi viaggi e le sue peripezie.
Una specie di matrimonio su in Scandinavia con una sventola bionda. Poi la fuga ed il ritorno verso terre più calde.
L’incarico d’inviato per raccogliere impressioni di vita qua e là, a raduni artistici, ritrovi underground col fotografo che lo seguiva ad un’incollatura. Un libro pubblicato con le sue storie di vita vera, attraversata senza indugi. Ci scambiavamo i nostri ideali, rimasti limpidi e mai stravolti dalla paura di farsi inglobare in un mondo ipocrita che era il nostro nemico da combattere. Ce ne stavamo così in due a spiare la luna.
Fratelli d’avventura come un tempo. Poi lui mi parlava di Jonathan, Cocker e Samuel che per quella sera avevano organizzato una serata sul vecchio terrazzo che dava sul mare. Potevo raggiungerli lì, sentire com’erano diventati, i loro progetti. Poi tornare da lui, ne avremmo discusso assieme. Non m’andava di lasciarlo. Ma lui continuava a sorridere a dirmi di andare. M’avrebbe aspettato. Ormai conoscevo la strada.
Tornavo giù per il sentiero della collina, riprendevo la via sull’asfalto fino alla stradina verso il mare. Spegnevo il motore e scorgevo tre sagome allungate sul terrazzo. Quello che era stato il nostro terrazzo sul mare. Il quartier generale dei nostri raduni, le cocomerate, le sfide con l’altra spiaggia a pomodorate o a calcetto. Delle nostre feste. Dei flirt strusciandoci coi balli lenti. Quasi troppi in due, per una mattonella.
Eccoli lì. Jonathan in un completo da lupo di mare, abbronzatissimo. Cocker in pantaloncini di tela grezza e maglietta verdeoliva. Samuel tutto in jeans. Ma vestiti griffati, si vedeva che era roba di marca e il tono casual era solo apparente. Erano bei maschi resuscitati dai Solarium e le palestre, qualche basetta corretta col colore, qualche borsa sotto gli occhi cancellata dal chirurgo, che portavano bene i loro quarantacinque anni passati e stavano con le antenne dritte ad aspettare il rimorchio di ventenni assatanate con la fissa dell’uomo maturo e navigato. “Hey, allora ho fatto bene a venire qui”. Piombavo fra loro con un’aria aggressiva. Non potevo temerli. L’incontro con Freddie m’aveva gasato. Mi guardavano stravolti. “Ma sei Lara, vero? Che diavolo...” “T’ho sentita in radio, sai? Accidenti che grinta...” “Ehehe…mi sa che t’ha riconosciuta dalla voce sexy…Però...sai che con gli anni ci hai guadagnato? Dai...ti sei rifatta qualcosa...Lasciati guardare meglio...” Mi dicevano di loro.
Jonathan nel giro delle barche a motore, separato e sempre in giro per mari più azzurri, in cerca d’emozioni vorticose.
Cocker preso nel suo giro d’affari, marketing e grossi nomi della pubblicità.Uomo arrivato. Mai stato sposato. Ricercatissimo nelle discoteche d’altobordo.
Samuel proprietario di un grosso locale nella riviera romagnola. Vita notturna assicurata. Una moglie giovanissima dopo aver zittito l’altra con un buon assegno mensile. Un altro figlio in arrivo.
S’erano ritrovati lì tanto per dirsi che non s’erano persi granché, abbandonando quell’età di conquiste difficili con fighette minorenni che non mollavano facilmente la verginità nelle mani di ventenni poco abili a stuzzicare le loro sensazioni più nascoste. Ne dicevano tante su Belinda, Sara, Deborah, Violette, le ragazze del giro di allora. Tutta scena con loro ch’erano squattrinati all’epoca, pronte a darsi completamente a chi le sistemava con appartamento e vita comoda. A guardarsi indietro e pensare che la vera vita era quella che assaporavano oggi. Fatta di soldi, successo, belle donne, notti di whisky guarite poi da lunghe sedute terapeutiche di massaggio, solarium e palestra.
Dicevo qualcosa di me. Ma non avevo poi questa voglia di farmi vivisezionare da loro tre che s’erano buttati anima e corpo nella vita concreta, appartenevano a quel tipo di mondo da cui
scappavo come un’ossessa. Convinta com’ero che quel che contava, erano i sentimenti. Non si sarebbero certo tirati indietro se c’era da distribuire una partita di crack ai ragazzi in discoteca.
Ce ne stavamo lì a ricordare qualche serata particolare, qualche amore durato appena un attimo oltre l’estate rovente quando Jonathan se ne uscì all’improvviso. “Hai saputo di Freddie, vero?” Il silenzio piombava sul terrazzo sulla spiaggia. Cocker e Samuel si stringevano nelle spalle. Io li fissavo, sguardo a punto interrogativo. “L’hanno trovato sui binari, una mattina di fine estate. Non s’é mai capito ma tutto faceva pensare ad un suicidio. O forse s’era addormentato immaginando un nuovo viaggio. Aveva voluto farla finita così dopo una vita un po’ allo sbando...Sempre in giro col suo saccoapelo e una vecchia moto sconquassata, la sua fissa di fare l’inviato…” “E’ tornato qui per farsi portare via da un treno, lui che diceva che era troppo stretta per lui la vita in questa piccola provincia dove tutti avevano addosso gli occhi di tutti...” E giù un ghigno. Bevevano passandosi una bottiglia.
Mi scrollavo di colpo. Freddie s’era ucciso sotto un treno.
Chissà quanto tempo fa. Quell’aria d’eterno ragazzo, quegli ideali, quei racconti febbrili. Ma cos’avevo visto, con chi avevo parlato qualche ora prima...Era stata solo un’apparizione? Poi, mentre i tre continuavano a farneticare del bel mondo che frequentavano, dei loro giri di modelle e attricette, dei cocktail, delle conoscenze altolocate, capivo.
“Eh...meglio parlare di vita. I morti, lasciamoli dove sono...” diceva Samuel.
Ed io, staccandomi dal muro dove m’ero appoggiata ad ascoltarli e passando lo sguardo su di loro, come a soppesarli tutti e tre, scuotevo la testa, accendendomi una Kim. “Avete ragione...I vivi siete voi...Inequivocabilmente. Non lasciatevela scappare mai di mano, una vita così...“ Poi lanciavo in aria un saluto a tutti, voltavo la schiena e me li lasciavo indietro che mugugnavano fra loro e qualcuno azzardava ancora qualche giudizio su come m’ero tenuta bene, quasi quasi ci facevano un pensierino su.
Pensavo di saperlo, cosa voleva dire essere vivi. Che sapore forte aveva, il senso della vita. Tenevo i pugni ben stretti nelle tasche, come a proteggere dalle folate di vento i miei ideali che erano stati fino in fondo anche quelli di Freddie, risalivo in macchina e me ne tornavo verso città.

© Patricia Wolf





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