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Baita n. 66
di Alessio Iarrera
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BAITA N. 66
di Alessio Iarrera

– Anche gli animali impazziscono in questo posto dimenticato da Dio! – disse la fidanzata del campeggiatore, levandosi lo zaino di dosso.
– Hai forse visto conigli scappare alla cieca, cervi buttarsi nei burroni e lupi sbranarsi a vicenda? – chiese Mario raggiungendo la baita.
Era un tardo pomeriggio dei primi di luglio. I due ragazzi erano arrivati sulla cima di quella collina isolata partendo all’alba e facendo il lungo tragitto a piedi. Si erano fermati soltanto due volte per fare una piccola colazione e una pausa. La baita di legno era stata affittata a prezzi stracciati per l’intero periodo estivo.
– E’ molto meglio della tenda, non trovi amore? – chiese Mario, guardando il tetto di legno del rifugio.
– Sì certo, ma questo posto…
– Sono tutte leggende dei montanari, Elisa… sono storielle di fantasia…
Elisa guardò il tetto della baita ma il viso schizzato di lentiggini aveva già un’espressione preoccupata.
– E’ un posto strano. I pastori non portano mai le pecore a pascolare qui. In paese dicono cose su questo posto, brutte cose. Poi è da tre chilometri che ti vedo andare avanti col coltello in mano e mi prende il terrore se mi guardi in quel modo e ti passi il filo della lama sull’indice. Devi smetterla di farmi paura, Mario. I pastori già parlano di grosse aquile che in primavera strappano i conigli appena nati dal ventre materno, di volpi affamate che si spingono fin sotto alle finestre dei pollai per andare a squartare le galline e i pulcini e durante l’inverno, questi maledetti lupi che divorano la carne dei cerbiatti appena allattati per saziare la loro fame infinita.
– Ti hanno impressionato per bene laggiù in paese, eh? Sono cazzate, Elisa… grosse cazzate…
Un vento leggero e morbido accarezzava le rocce della montagna sollevando i piccoli ciuffi d’erba dei poggi. Il sole del tramonto buttava spruzzi di rosso fuoco intorno ai picchi di granito e alle poche nubi che li accerchiavano in una specie di abbraccio bianco. La baita n. 66 pareva un piccolo e desolato tronchetto di legno in mezzo a quel mare di smeraldo, tanta era la foresta fluttuante che circondava la collina.
Man mano che passavano i giorni, in Elisa cresceva il terrore per l’abitudine del fidanzato di accarezzare la lama del coltello, e se non scappava dalla baita era perché si sarebbe perduta nel bosco senza la guida esperta del compagno.
Diventava un po’ tranquilla solo quando Mario usciva a fare qualche escursione, a raccogliere fossili o minerali per le sue bizzarre collezioni, e piuttosto tesa quando la sera erano di nuovo tra le pareti di legno della baita.
Il numero 66 aveva, per colmo di superstizione, una storia agghiacciante: un boscaiolo aveva ucciso la moglie e la figlia poi s’era suicidato con lo stesso fucile, e una ragazza era morta in un incidente domestico provocato dal fornello a spirito.
Le settimane in cui il silenzio diventava pesante come un incubo, il sorriso spariva dalle labbra di Elisa. Mario parlava poco, restava a guardarla parecchi minuti, come sprofondato nell’inquietudine.
Elisa aveva notato che Mario l’osservava troppe volte in modo così strano da provocarle i tremiti alle mani. Ma anche il fidanzato aveva lo stesso problema; era un brivido che iniziava a molestarlo con lentezza, partendo dalla schiena fino a schiacciare il cervello in una pressa idraulica, oscurandogli la visuale.
Una mattina che l’orrendo silenzio della montagna veniva a impregnare i boschi e le colline col suo acuto fetore, Mario incagliò il coltello nella parete di legno della cucina e si mise a spaccare una delle sedie, come se fosse preda d’un crollo di nervi.
Passò una settimana di sole cieco, senza vento, di giornate silenziose. La noia diventò sempre più intensa; alcune volte pareva che un lieve fruscio, appena udibile, uscisse dalle grotte e dal bosco, come il battito d’ali d’un cardellino. Fuori dalle finestre della baita si vedevano le poche nubi sui picchi dei monti, appese a un cielo basso e color rubino, e tutto ciò non faceva altro che aumentare l’ansia.
Mario iniziava a chiedersi se quel posto era davvero maledetto. La totale desolazione del paesaggio penetrava nell’animo degl’uomini per scalfirne l’autocontrollo rendendoli selvatici, fino a stregarli come una sorta di magia nera? Era questa allora la fine del taglialegna e della ragazza precedenti?
Nient’affatto, non era possibile che l’isolamento e la noia spaventosa della baita avessero dominato il progresso dell’umanità.
Ma intanto che cercava le risposte alle domande, la testa gli doleva e le tempie pulsavano. Da qualche parte nel cervello aveva nidificato l’idea dell’omicidio, chissà da dove era venuta, da quale segreto anfratto della mente, e s’era stabilita lì, all’interno del cranio, come un tumore.
Era stato contagiato e attratto dall’abisso come se una sorta di voragine gl’avesse inghiottito l’anima. Quando Elisa si avvicinava e lo guardava, era come se la voragine lo chiamasse; solo un veloce raptus e, l’avrebbe uccisa! Sarebbe bastato un colpo di coltello alla gola; ma si bloccava sempre in tempo, tremando come un epilettico.
Una mattina estrasse il coltello dalla cintura mentre lei preparava la colazione in cucina e gli stava dando le spalle, senza accorgersi di nulla; lui brandì il coltello con una certa violenza e, urlò come un demonio piantando la lama sul tavolo.
– Ma che ti piglia? – chiese lei, con un sussulto.
– Non ragiono più, non ragiono più! – singhiozzò Mario, coprendosi la faccia con le mani.
Cercava disperatamente di uscire dalla voragine ma il pensiero lo martellava con insistenza, inseguendolo come una preda.
Da giorni ormai nella sua mente risuonavano sempre le stesse parole: – Oggi la uccido! – Era come il motivetto macabro e spaventoso di una canzoncina dei boschi che lo faceva tremare fino allo spasmo. Un’atroce rabbia deturpava i lineamenti del viso. – La uccido, basta! – diceva al bosco con assoluta freddezza, ma poi lo prendeva una grande paura, al punto che singhiozzava come una bambina smarrita.
Non ce la faccio più.
Alla fine, una notte cadde nella voragine e non ne uscì: mentre Elisa dormiva nel sacco a pelo aperto come un lenzuolo, lui prese il coltello e le tagliò la gola.
Trascinò il cadavere nel bosco e lo buttò giù da una rupe, dove sotto scorreva il fiume e una piccola nebbia vaporosa illuminava a malapena quella notte senza stelle. Sentì che il vento lo solleticava dandogli piacere, come se gli avesse soffiato via un macigno dal cuore.
– E’ questo che volevi? – chiese al bosco. – Adesso lei è tua. Appartiene alle tue radici, alle tue foglie… e al tuo silenzio.
Le giornate estive ripresero a passare con assoluta tranquillità. Mario usciva spesso di buon mattino per passeggiare tra i boschi, senza preoccuparsi di fare tardi. Percorreva avanti e indietro i sentieri del CAI, andava a caccia di farfalle rare e minerali.
La montagna, col suo silenzio estivo, era diventata più seducente, e la baita n. 66 un luogo ameno dove non si poteva stare senza sentire una certa eccitazione nel cuore. Quella casetta di legno fresco, giorno dopo giorno, perse del tutto l’aspetto accogliente e domestico che aveva all’inizio dell’estate diventando una catapecchia ostile, dalla quale Mario usciva spesso di malavoglia, come se quelle quattro pareti lo tenessero prigioniero.
Cercava di non pensare alla sensazione di angoscia aggrappandosi ai rami degl’alberi; ma un pomeriggio alle sue orecchie arrivò qualcosa e non poté più far finta di nulla: era un sussurro, tra il fogliame delle frasche, portato dal vento leggero della montagna attraverso le rocce, il muschio alpino e le correnti del fiume. Un soffio stonato della brezza estiva.
Prima di sentire quella voce aveva detto al bosco che Elisa apparteneva al suo silenzio, alle sue radici, al suo maledetto mondo vegetale. Adesso, sentendo quel repentino sussurro, gli era venuto un colpo al cuore: Elisa, la sua fidanzata, l’aveva uccisa lui!
Cominciò a uscire dalla baita solo per ascoltare la voce del vento. All’inizio la confuse col cigolio delle porte di legno, delle persiane delle finestre, col crepitio delle assi del pavimento di quel rifugio maledetto da tutti… ma poi il suono finì per essere udito perfettamente e per sovrastare tutti gli altri rumori. Di solito il vento estivo della montagna era leggero, attraversava le colline con il canto dei grilli con il quale ci si poteva cullare davanti al portico della baita e guardare le stelle cadenti della Notte di San Lorenzo.
Ma adesso il vento raccoglieva dentro di sé un richiamo, una voce lamentosa di donna che gli faceva tremare le ossa.
Quella voce solcava le frasche degl’alberi, rizzava i ciuffi d’erba della collina come antenne, faceva rotolare a valle i piccoli sassi della montagna. Mario si rigirava sul sacco a pelo in preda agl’incubi. Piano piano quella voce d’oltretomba diventò un urlo di rabbia, più distinto del tuono e, a un tratto, una notte di luna piena, Mario si alzò dal sacco a pelo con gli occhi spalancati dal terrore sentendo pronunciare quelle parole in modo chiaro:
– Ti uccido! Ti uccido! – diceva la voce di Elisa. A ogni colpo del vento contro le persiane semichiuse delle finestre della baita quell’urlo orrendo tentava di perforargli la testa per entrargli nel cervello.
– Ti uccido! Ti uccido!
La voce dura come una mannaia della sua fidanzata squassò la porta d’ingresso e i cardini arrugginiti cedettero sotto quell’urto. Con un movimento velocissimo, Mario abbandonò il sacco a pelo e corse a prendere il coltello. Entrò allora una nebbia simile a quella che aveva visto dalla rupe quando andò a buttare il cadavere di Elisa. Lui arretrò di qualche passo, ma all’esterno regnavano soltanto la notte senza stelle e quell’orrendo silenzio infinito. Un muro nero di tenebre e vapore, e quel vento troppo forte e strano per poter essere definito brezza estiva.
Mario chiuse la porta e le finestre e sentì la testa ronzargli per lo sfinimento. La voce di Elisa riprese a picchiare contro i battenti socchiusi per entrare:
– Ti uccido! Ti uccido! Ti uccido!… – Finché Mario non ricadde sul sacco a pelo sfinito e in lacrime mentre l’alba faceva il suo ingresso sulle pareti di legno filtrando dalle imposte delle finestre malamente chiuse.
Mario smise così di andare nei boschi, diventò sempre più fiacco e scarno. Quando usciva dalla baita, vi rientrava subito dopo in preda al terrore. All’esterno, aveva come il presentimento che il bosco volesse inghiottirlo, che l’immensità della montagna fosse un enorme ciclope che volesse divorarlo, e si sentiva perduto, piccolo come uno scarafaggio, e impotente; si abbandonò alla fame e alla denutrizione, tremando ogni giorno in preda al delirio. Aveva il terrore di scappare via perché quel posto maledetto l’avrebbe perseguitato per tutta la vita, e la voce di Elisa l’avrebbe fatto impazzire presto. Il vento che portava quella minaccia di morte lo torturava notte e giorno, e Mario smarrì presto la cognizione del tempo; vagava tra le quattro pareti di legno della baita n. 66 come un fantasma, gli occhi arrossati per l’insonnia. La voce di Elisa lo flagellava senza sosta, il sussurro rabbioso gli scavava il cervello consumandogli l’anima a fuoco lento.
Era ormai ridotto a uno straccio, affamato, con la barba lunga e le occhiaie nere scavate dalle rughe.
Una notte di fine estate il vento aumentò d’intensità. Era così forte che pareva volesse sfasciare la catapecchia al numero 66. Mario, completamente impazzito, si accucciava all’angolo di una parete, attaccandosi al pavimento, tremando e piangendo.
All’improvviso, tutto finì e ritornò il silenzio sepolcrale all’interno della baita e, quando la luce dell’alba cominciava a illuminare il pavimento, una voce di donna risuonò tra gli alberi del bosco:
– Ti uccido! Ti uccido!
Perseguitato dalla follia, raccogliendo le ultime energie rimaste, Mario uscì dalla baita e tentò di correre fino alla rupe, proprio nel punto dove aveva buttato il cadavere di Elisa; ma non riuscì a restare in piedi a lungo sul ciglio del burrone e cadde giù, sotto le urla sferzanti di quelle parole velenose portate dal vento:
– Ti uccido! Ti uccido! Ti uccido!

© Alessio Iarrera





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(1) Baita n. 66 di Alessio Iarrera - RACCONTO
(2) CATER di Alessio Iarrera - RACCONTO
(3) QUESTIONE DI TEMPO di Alessio Iarrera - RACCONTO
(4) La visita di Alessio Iarrera - RACCONTO



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