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Mahùt
di Fabio Calabrese
Pubblicato su SITO


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Alberto si era appisolato sotto l'effetto ipnotico del rollio delle onde, e stava sognando.
Nel sogno, era tornato indietro di alcuni anni, era con Francesca, Riccardo e Cristina, Giulio e Monica, erano usciti in macchina da Trieste, prendendo la Costiera, avevano attraversato il lungomare di Barcola, si erano lasciati alle spalle il promontorio del castello di Miramare, ed erano entrati nella baia di Sistiana, avevano fermato l'automobile nella pineta di fronte a Castelreggio.
L'ora era tarda, e la baia quasi deserta. Riparati tra le frasche della pineta, si poteva quasi avere l'illusione di essere lontani dal consorzio umano, una piccola, primeva tribù di ominidi, con tutto un mondo ancora intatto da conquistare.
La pineta era una stretta striscia alberata fra il mare da una parte, il costone roccioso che saliva ripido verso le prime pendici del Carso dall'altra, ma questo accresceva solo la sensazione di far parte di un mondo segregato da tutto il resto.
Le tre coppie si erano separate, ed Alberto aveva attirato a sé Francesca, rovesciandosi assieme a lei sul folto tappeto di aghi di pino.
Nel sogno, la transizione dal giorno alla notte era stata improvvisa, mentre nel ricordo reale sapeva che erano trascorse diverse ore.
Quelle notti calme d'estate, la frescura del bosco, i giochi di luce lunare tra le ramaglie, le luci lontane del porto e della città, gli erano sempre piaciute. Avvertiva il lieve sentore sudato della pelle di Francesca, che il deodorante non riusciva ormai più a coprire completamente. Non era mai riuscito a capire perché le ragazze si ostinavano a cancellare con lavaggi e deodoranti i naturali, gradevoli sentori dei loro corpi, per poi sostituirli con costosi e molto meno interessanti aromi artificiali.
Lentamente le sue mani iniziarono a sbottonarle la camicetta, si soffermarono in una lunga carezza delicata sui seni, poi s'infilarono sotto la gonna...Alberto si svegliò con un improvviso sussulto.
Quella giornata, da cui il sogno aveva preso le mosse, la ricordava piuttosto bene, nonostante gli anni passati, e c'erano molte cose che non erano comparse nel sogno. Ricordava che erano scesi a Duino, al Villaggio del Pescatore, se ci pensava, sentiva ancora nelle narici l'odore del pesce arrostito sul fuoco da campo che si mescolava agli aromi della pineta ed al salso del mare, ma nel sogno tutto era pace e armonia, mentre il ricordo di Francesca e della sua grande occasione mancata, tornava a trafiggerlo doloroso come una pugnalata.
Era stato Minou ad interrompere la sua siesta pomeridiana. Il suo unico compagno si era arrampicato fino alla sua amaca, e gli era strisciato in grembo.
"Brutto briccone", gli disse affettuosamente, e cominciò a carezzarlo lungo il serico dorso peloso, da dietro le orecchie fino all'attaccatura della coda.
Minou gli rispose facendo sonoramente le fusa, era un gatto soriano dal mantello tigrato a fondo giallo, nulla di speciale, di raro o di particolarmente bello, un gatto comunissimo, l'aveva trovato vicino al molo poco prima di partire, tra vecchie cassette di frutta e immondizie; allora era stato un cucciolotto di un paio di mesi, mentre ora era diventato una bestia robusta e ben nutrita. Si era diretto verso Alberto con inspiegabile sicurezza e fiducia, in cerca di coccole. Alberto l'aveva preso in braccio e l'aveva portato a bordo dell'Olandese Volante. Da quel momento, aveva avuto un amico molto silenzioso e discreto, dagli improvvisi gesti di affetto e dalle improvvise voglie di tenerezza, a cui bastava qualche pesce, o gli avanzi dei suoi pasti.
Beh, adesso era sveglio e non c'era modo di riprendere sonno, tanto valeva mettersi al lavoro. Si alzò dall'amaca e depose con delicatezza Minou sul ponte dell'Olandese Volante. Il nome dell'imbarcazione non era stato scelto a caso, l'equipaggio era composto da due soli membri: un uomo e un gatto. L'Olandese Volante non era una nave, non era una chiatta, non era un traghetto, non era un battello, non era una lancia, non era un pontone, era un pascolante e basta. "Capitano" sarebbe suonato altezzoso per Alberto e quelli come lui, che non avevano nessun uomo alle proprie dipendenze. "Pilota", "guidatore", "driver" andavano bene per chi governava un battello, un rimorchiatore, un'imbarcazione più piccola di quei torpidi giganti. Non si sapeva chi, dove o quando, aveva pescato quella vecchia parola indiana, che si era rapidamente affermata, mahùt, come i guidatori di elefanti. Alberto la trovava appropriata, Alberto era il mahùt.
Guardò l'orologio, erano quasi le diciotto, le ore più calde della giornata erano ormai trascorse, e si cominciava a respirare.
Il pascolante aveva una struttura larga e bassa, con un baricentro talmente vicino al pelo dell'acqua, che quasi non si avvertiva il rollio.
Alberto si diresse verso la plancia, che era, in effetti, una piccola cabina addossata ad un enorme contenitore sigillato, l'alloggiamento di un complicato computer dell'ultima generazione. Osservò che in cima al pennone di maestra la bandiera bianca e rossa del Lloyd Triestino era appena gonfiata da una lieve bava di brezza. In teoria lì avrebbe dovuto esserci la bandiera nazionale, ma Alberto era stato vivamente consigliato di non esporla quando navigava nei pressi dello Shatt al Arab. Più di una volta, le motovedette irachene avevano scambiato il tricolore italiano per quello dell'odiato Iran, e quei signori, lo sapevano tutti, avevano il grilletto facile.
Il pascolante proseguiva la sua lenta corsa come un mastodonte che andasse placidamente alla deriva, ma Alberto sapeva che non c'era nulla di casuale nella sua rotta; i tempi erano quelli previsti, l'indomani sarebbe approdato nello Shatt, avrebbe preso in consegna il carico del professor Desroches, poi avrebbe iniziato il viaggio di ritorno, costeggiando lo Yemen, poi Aden, il Mar Rosso, Suez, ed una volta tornati nel Mediterraneo, ci si cominciava a sentire quasi a casa, anche se doppiare Cipro, piegare verso occidente lasciandosi a settentrione le isole dell'Egeo, Creta e il Peloponneso, risalire lo Ionio e l'Adriatico su fino a Trieste, richiedeva ancora parecchio tempo.
Giunto in plancia, controllò gli indicatori: era tutto regolare, l'Olandese Volante faceva il suo lavoro, e lo faceva bene. La chiglia piatta del pascolante era costituita da un materiale plastico poroso che includeva una serie di complessi filtri chimici. I materiali selezionati e filtrati passavano poi negli appositi serbatoi che occupavano la maggior parte del volume dello scafo. Uno dei filtri mieteva la pellicola d'idrocarburi sparsi sul pelo dell'acqua. A decenni di distanza dal 1991, dalla guerra in cui gli iracheni avevano distrutto i pozzi kuwaitiani, il Golfo Persico era ancora un pascolo remunerativo. Ovviamente, non erano solo i residui di quel vecchio conflitto, c'erano gli scarichi delle petroliere che per decenni erano transitate per Aden e Suez, ed in certi periodi quella via d'acqua era stata trafficata come un'autostrada durante un ponte primaverile. Un altro complesso filtro - serbatoio raccoglieva i materiali organici in sospensione: scarichi a mare dagli agglomerati urbani, alghe e mucillagini eutrofizzate da questi ultimi, anche resti di vita marina ed onesto guano degli uccelli di mare. Il composto che ne derivava era un ottimo fertilizzante per i terreni agricoli, rimesso in auge dalla penuria di idrocarburi che aveva reso proibitivi i costi dei concimi chimici. Un altro filtrava i metalli disciolti nell'acqua, era quello che di solito dava il raccolto più scarso, ma ogni tanto era possibile trovare nel serbatoio qualche piccola concrezione d'oro.
La tecnologia che aveva prodotto i pascolanti era tipica di un mondo come quello del XXI secolo, costretto ad economizzare ed a riciclare ogni risorsa dopo gli sprechi del secolo precedente, ed anche così, il loro esercizio riusciva remunerativo per un soffio. Per non andare in perdita, la propulsione dell'Olandese Volante e delle altre imbarcazioni dello stesso tipo era, doveva essere un capolavoro di economia. La maggior parte dell'energia era ricavata da un complesso di pannelli solari e mulini eolici, più una serie di micromotori elettrici alimentati da turbine caricate dal moto ondoso e dalle correnti, il tutto ottimizzato dal controllo di un computer efficiente e tirchio oltre l'umanamente immaginabile, e l'equipaggio era ridotto al minimo, un solo uomo, il mahùt, eppure anche così un pascolante riusciva appena a rientrare nei costi di esercizio, c'erano le entrate collaterali a consentire un lieve margine di profitto: le tariffe pagate da alcuni stati per il disinquinamento delle acque costiere, ed il trasporto a costi contenuti di merci che non avessero fretta di arrivare a destinazione, occasionalmente anche qualche passeggero. I margini erano comunque così modesti che i mahùt dovevano lavorare sempre con grande attenzione: sprecare carburante, energia e tempo, significava compromettere il proprio posto di lavoro.
La rotta dell'Olandese Volante era da Trieste per l'Adriatico, lo Ionio, il canale di Corinto, poi giù attraverso Suez, il Mar Rosso, il golfo di Aden, il Golfo Persico e ritorno.
Una rapida serie di controlli e di calcoli lo persuase che non sarebbe riuscito a giungere al suo attracco previsto nello Shatt prima del tramonto, era meglio calare l'ancora per la notte ed approdare l'indomani con il ritorno della luce.
Raccolse Minou che doveva essersi stancato di giocare sul ponte, e si era messo a strusciarglisi sulle gambe. Diede al gatto una grattata sulla nuca, ricevendone in cambio una sonora ronfata.
"Beh, micio", disse, "E' ancora presto per l'ora di cena. Cosa facciamo adesso?"

Alberto teneva in mano il foglio di carta, gli sembrava quasi che bruciasse o pungesse, eppure faceva fatica a staccarselo dalle dita, alla fine l'appallottolò con rabbia e lo buttò in terra.
D'impulso, s'infilò il giaccone ed uscì di casa, sentiva il bisogno di muoversi, di sfogare la rabbia che aveva dentro con delle ampie falcate; non provava tanta irritazione da quando aveva chiesto a Francesca di sposarlo e lei gli aveva risposto senza mezzi termini di andare al diavolo. Non aveva passato la selezione, che scemo era stato ad illudersi! La rarefazione e l'aumento dei costi dei carburanti fossili avevano messo a terra le missioni spaziali, che ormai si riducevano alla messa in orbita di satelliti, e poco altro. L'E.S.A. aveva un paio di astronauti autostoppisti che ogni tanto si facevano dare un passaggio a bordo delle shuttle americane o giapponesi, e per il resto era un pletorico organismo, il vero scopo della cui esistenza era passare uno stipendio ad uno stuolo di burocrati che non pilotavano nulla di più galattico delle loro scrivanie.
Lo sfogo puramente fisico l'aveva in qualche modo calmato, lasciandogli addosso più un gran senso di amarezza che un'ira vivace.
I suoi passi l'avevano portato di sbieco attraverso quello che i triestini continuavano imperterriti a chiamare "l'acquedotto" nonostante da più di un secolo portasse il nome di viale venti settembre. Per un'altra vecchia consuetudine locale, la passeggiata sotto i grandi ippocastani e tra i tavolini dei caffè all'aperto era chiamata "vasca" per analogia con i percorsi delle piscine, così la locuzione "far vasche in acquedotto", ermetica per chiunque non avesse familiarità con la città, Alberto l'aveva notato più di una volta con divertimento, faceva supporre agli amici forestieri insolite attitudini idrauliche o natatorie.
Oltrepassato il teatro politeama, in direzione di piazza Volontari Giuliani era possibile scorgere oltre le abitazioni la massa arruffata e inselvatichita del Boschetto. Un tempo era stato quasi un parco, ma ora faceva dubbio onore al suo nome silvano, nei punti in cui non era stato trasformato in discarica.
Alberto si fermò a riflettere. Era strano, era un pensiero assolutamente incongruo che non aveva nulla a che fare con i suoi problemi, ma "l'acquedotto" era una via che sembrava quasi collegare due mondi con il teatro politeama che sembrava un casello doganale su di una linea di confine. La parte bassa del viale era una specie di continuazione di corso Italia, il "salotto buono" della città con case nuove, negozi eleganti, bar e gelaterie che durante la bella stagione avevano fuori i tavolini protetti da ombrelloni multicolori, all'ombra dei grandi ippocastani, di solito affollati di giovani che davano un tocco di vivacità.
Sopra il teatro, l'ambiente cambiava completamente: case vecchie, fatiscenti, pochi, radi negozi dalle vetrine buie, poche persone in giro, soprattutto anziani, tutto più silenzioso, anche il cielo tra i rami degli ippocastani che lì avevano le chiome più fitte, sembrava diverso, più buio e quieto.
Adesso che era più calmo, non poteva trattenersi dal pensare: in fondo non poteva rimproverare altri che se stesso, aveva puntato tutto, il suo intero progetto di vita, su di un azzardo, sulla remota eventualità di riuscire ad entrare all'E.S.A.
Una chimera, un sogno, ma lo sapeva, non poteva essere diverso da così. Ricordava come se fosse stato pochi giorni prima, quella sera di molti anni addietro in cui la sua vita era cambiata per sempre: era un adolescente allora, doveva avere forse sedici, forse diciassette anni, era stato invitato ad una festa in casa di un compagno di scuola, uno di famiglia benestante, che aveva una villa con giardino su ad Opicina. Stordito da un mezzo bicchierino di sherry che aveva bevuto, ed anche dall'aria viziata e pesante, impregnata di fumo della sala (erano molti i suoi compagni che fumavano), Alberto era uscito in giardino, a fare due passi nell'aria fresca della sera.
Da quella parte, poco oltre la cancellata, il bordo del costone roccioso scendeva giù rapido verso il golfo di Trieste. La città era visibile da mezza costa fino al mare dalle acque buie e tranquille, come uno sfavillio di luci. Alberto alzò gli occhi verso il cielo, era terso e limpido, senza una traccia nubi, come può essere d'estate dopo una giornata soleggiata. Le stelle erano grandi e brillanti come non mai, straordinariamente vicine. Alberto le guardò e le vide, le vide davvero: non erano delle piccole luci appiccicate sulla volta del cielo, erano mondi, soli lontani, e il cielo non era una volta, ma un immenso spazio, un oceano di aria e di vuoto che cominciava un centimetro sopra le sue scarpe e proseguiva fino all'infinito, un oceano nel quale galleggiava anche lui.
Le stelle, lo spazio, da quel momento non aveva fatto altro che sognarlo, quasi senza riuscire a capacitarsi di come facesse la gente a rassegnarsi a vivere incollata tutta la vita sulla superficie di un piccolo pianeta, con tutta la grandezza ed il fulgore dell'universo davanti a sé.
Dopo il liceo aveva preso ingegneria aeronautica, ed era stata dura, aveva studiato per sei anni come un pazzo, solo per trovarsi di fronte a quel foglio di carta che aveva buttato via, ad una porta sbattuta in faccia.

Bisognava prendere per le rive, oltrepassare il nodo ferroviario e la vecchia stazione di Campo Marzio. Ad una curva della strada, il panorama cambiava così di colpo da togliere il fiato. Da dietro le siepi che nascondevano la strada oltre la curva stretta fa il mare e le propaggini del colle di San Luigi, il mutamento era così brusco da far pensare al cambio di un fondale di palcoscenico: dalla rappresentazione di una commedia intimista tardo ottocentesca (come quasi tutti i panorami di Trieste suggerivano), si passava al set di un film di fantascienza. Quando era stato realizzato verso la fine del XX secolo il complesso di edifici che i triestini chiamavano "i palazzi del Lloyd", la sua struttura era decisamente avveniristica, e tale era rimasta. Il mutamento del millennio non aveva prodotto i repentini mutamenti epocali che tutti, o quasi, si aspettavano, la vita aveva continuato il suo solito ritmo nei soliti spazi ed orizzonti.
Il mutamento sarebbe venuto, veniva, ma con la gradualità di sempre che lo rendeva difficilmente avvertibile sulla breve scala dei mesi e degli anni; da solo, il fatto di scrivere le quattro cifre di una data iniziando con un 2 invece che con un 1 non aveva nessun potere taumaturgico.
Il complesso era stato costruito negli ultimi anni del secolo precedente, solo che a quel tempo apparteneva ad un altro Lloyd. In quegli anni, mentre le attività produttive conoscevano una fase di rallentamento dello sviluppo, la borsa, le attività finanziarie, le assicurazioni, che erano allora considerate investimenti molto remunerativi, avevano conosciuto un momento di grande sviluppo anche in una città modesta e priva di tessuto industriale come Trieste, poi i tempi erano cambiati, o meglio erano tornati alla normalità, e il colosso dai pied d'argilla si era sgonfiato come un soufflé, allora, quando il Lloyd Adriatico era stato costretto a ridimensionarsi, si era fatto avanti l'altro Lloyd fino a quel momento negletto come un parente povero, il Lloyd Triestino, l'industria cantieristica da tempo languente in alto Adriatico, era stata rilanciata dalla costruzione dei pascolanti, e così i palazzi di Campo Marzio erano rimasti per i triestini "i palazzi del Lloyd".
Da quasi in riva al mare fino a via Locchi, via Maestri del Lavoro s'inerpicava con una di quelle salite che tagliavano le gambe, ma Alberto, recandosi all'appuntamento che forse avrebbe deciso della sua vita, quasi non se ne accorse, poi l'affabilità professionale e distaccata degli uscieri, un girovagare per corridoi che gli sembrarono interminabili e labirintici per approdare infine all'ufficio dell'uomo che l'aveva convocato, come davanti a un giudice lì per decidere del suo destino, una parca.
Alberto osservò con aria quasi sottomessa l'uomo che gli faceva cenno di accomodarsi: vestiva un impeccabile completo blu molto manageriale, e la cravatta con il logo del Lloyd, ma aveva lineamenti fini con un che di astratto, quasi da intellettuale, aveva la fronte alta, stempiata da una semicalvizie, un paio di baffetti cespugliosi anche se molto curati, ed uno sguardo pensoso, remotamente triste.
Sulla parete alle sue spalle c'era una carta nautica dell'Adriatico, Alberto spostò lo sguardo su di essa meccanicamente, per non fissare con troppa insistenza il suo possibile datore di lavoro.
"Lo sa", disse il funzionario del Lloyd, "perché proprio il Lloyd Triestino, quest'azienda che solo vent'anni fa sembrava destinata a scomparire, è diventata la maggiore compagnia di pascolanti del Mediterraneo e del Vecchio Mondo?"
Indicò la carta nautica alle sue spalle.
"La guardi", disse, "La guardi bene. Forse è portato a pensare che il golfo di Trieste si trovi "in alto" rispetto all'Adriatico ed al Mediterraneo, perché è così che ce lo rappresentiamo, ma è solo una convenzione. Abbiamo preso a rappresentarcelo così dall'invenzione della bussola, con il Polo Nord alla sommità del globo. I geografi arabi medioevali facevano le carte con il sud in alto, e per loro andava benissimo così. In quasi tutte le carte europee prima del XV secolo è l'est in alto, ed era logico, il punto di riferimento era il sorgere del sole. In una superficie orizzontale non ci sono un basso od un alto, un sopra od un sotto.
Guardi bene: l'Adriatico è un lungo budello, un dito fatto d'acqua lungo e stretto, che s'incunea fra l'Italia ed i Balcani. Quelli che chiamiamo l'Alto Adriatico ed il golfo di Trieste, sono il fondo della provetta. Qui, per quasi due secoli, si sono depositati rifiuti di ogni genere, o a seconda dei punti di vista, materiali riutilizzabili. Dopo quasi vent'anni di sfruttamento, l'Alto Adriatico è ancora redditizio, soprattutto il golfo di Trieste e la zona al largo di Venezia- Porto Marghera, ma tutta la linea Adriatico - Alessandria, Suez, Mar Rosso fino al Golfo Persico è remunerativa".
S'interruppe facendo una pausa, e fissò Alberto come per assicurarsi che i suoi argomenti gli fossero entrati per bene nella testa.
"Ma la ragione vera è un'altra", proseguì, "A Monfalcone qua vicino, ai Cantieri Riuniti dell'Adriatico, abbiamo maestranze altamente specializzate nella costruzione dei pascolanti, ma quelle le potremmo trovare anche altrove: il fatto è che non si trovano mahùt migliori dei triestini, quando poi c'imbattiamo in qualcuno che l'E.S.A. non ha accettato solo per indisponibilità di organici, creda che proprio non ce lo lasciamo scappare".
Fu così che Alberto udì per la prima volta quella parola dal suono gutturale che avrebbe contrassegnato il resto della sua vita.
"Le confesso", continuò l'altro, "che mi sono spesso domandato il perché. Trieste ha una tradizione di gente di mare che non è andata mai del tutto perduta, ma non è solo questo. Ad un mahùt non si chiede solo di essere un buon marinaio, ma anche di saper sopportare lunghi periodi di solitudine. C'è qualcosa nell'animo dei triestini che li rende portati all'introspezione, a vivere soprattutto interiormente. Mi sono spesso chiesto se questo non dipenda dalla situazione politico - geografica innaturale di questa città, da quasi un secolo il suo territorio è solo una piccola striscia di terra che si prolunga dall'Italia incuneandosi nella Jugoslavia prima, nella Slovenia poi, senza un retroterra, sospesa fra due mondi senza appartenere davvero né all'uno né all'altro. Per nove anni, dopo la seconda guerra mondiale, Trieste non è appartenuta a nessuno stato. Ma anche questa è solo una parte della verità. Se lei va a leggere Italo Svevo, vedrà che i triestini erano così già molto tempo prima".
"Comunque sia", concluse, "Benvenuto a bordo, se lo desidera. Le offriamo una vita dura, dovrà sopportare lunghi periodi di solitudine, ma sarà ben pagato e libero di se stesso".

Il comandante in seconda dell'Olandese Volante si era arrampicato sulla branda di Alberto, e si era messo a dormire nell'incavo dell'ascella. Alberto si alzò con delicatezza per non svegliare il gatto e si vestì, infilando sopra il giubbotto un giaccone di pelle di pecora di fattura locale: era incredibile quanto potesse far freddo la mattina nel Golfo Persico. Si diresse verso la cabina di comando e programmò il computer di bordo per un approdo lento, decise di rimanere in cabina e controllare momento per momento i dati dell'ecoscandaglio.
Proprio di prua c'era il delta dello Shatt, formato dalla confluenza del Tigri e dell'Eufrate, riceveva tutti i sedimenti che i due grandi fiumi trasportavano a valle fin dalle lontane montagne da cui avevano origine, i monti Zagros e l'Acrocoro armeno, giù lungo tutta la Mesopotamia, formando allo sbocco del delta una serie di bassi fondali la cui topografia mutava di anno in anno, era facilissimo incagliarsi se non si stava attenti.
Fu proprio ricordare questo che fece venire un dubbio ad Alberto.
"Ma che razza di scavi archeologici starà facendo il professor Desroches?", si chiese, "La zona dove lavora è proprio all'estremità dello Shatt, ai tempi degli Assiri, dei Babilonesi, per non parlare dei Sumeri, non esisteva nemmeno, era tutto mare".

Li trovò sul molo che lo aspettavano: non c'era nulla di simile ad un porto, solo delle lunghe dita di pietra semisommerse che si protendevano sul pelo dell'acqua, molte imbarcazioni, anche di tonnellaggio minore, non avrebbero potuto approdare lì, ma l'Olandese Volante con la sua chiglia piatta doveva essere abbastanza sicuro, se il fondale vicino ai moli era stato dragato di recente dal fango che il delta dei due fiumi riversava nel Golfo, il limo, l'humus dell'antica Mezzaluna Fertile, che ogni anno si faceva sempre meno fertile.
Alberto vide che c'era un solo europeo in mezzo ai nativi avvolti nei burnus svolazzanti nel vento del mattino. I burnus, le gallabja, le chamisa, i turbanti, le kefiah evocavano un clima tropicale, ma l'aria del mattino era fredda. A parte l'europeo, che indossava una stazzonata giacca d'incerato sopra una camicia di flanella ed un paio di pantaloni di fustagno che sparivano dentro due stivaloni di gomma incrostati di fango fino al ginocchio, e che era certamente il professor Desroches, tutto il personale era indigeno: la spedizione non doveva disporre di grossi stanziamenti, Alberto ricordò che era finanziata con i fondi di una fondazione privata.
Fece accostare il pascolante, pensando che l'Olandese Volante doveva apparire tale e quale lo descriveva il suo nome: una nave fantasma. Calò l'ancora, poi uscì sul ponte e gettò una cima che venne prontamente raccolta e fissata ad una dall'aria improvvisata sul molo; era strano, ma certe operazioni erano guidate dalla strumentazione elettronica ed altre non erano sostanzialmente cambiate negli ultimi tremila anni.
Calò la passerella e discese, dopo aver preso in braccio Minou.
Il professor Desroches era un ometto dai capelli brizzolati, con un paio di baffetti sottili ed un pizzetto alla moschettiera. Rivolse ad Alberto un sorriso vivace.
"Lieto di vederla, mon ami, l'aspettavo con impazienza".
Si rivolgeva ad Alberto in un misto di italiano e francese, ed ai nativi in un misto di arabo e francese, che a volte suonava un po' buffo.
"Spero che vorrà trattenersi a pranzo con noi", disse, "Abbiamo un menu vario e assortito di specialità locali: latte di capra, formaggio di latte di capra, carne di capra arrosto".
Diede alcune istruzioni in arabo ai suoi garçons, aggiungendo:
"Allez, vite, vite".
"Immagino che questo sia il suo compagno di viaggio", disse guardando Minou che se ne stava tranquillo acciambellato in braccio ad Alberto. Allungò la mano verso il gatto e l'accarezzò. Minou rispose facendo le fusa con aria soddisfatta: strano, di solito non gradiva molto le carezze degli estranei.
Il professore, con l'aiuto dei nativi, portò a bordo dell'Olandese Volante alcune casse meticolosamente imballate. Alberto pensò bene di dare una mano, per riguardo al professore, ma soprattutto ai nativi; erano ormai lontani i tempi in cui ci si poteva permettere di contemplare con coloniale distacco i non europei piegati in due dalla fatica.
Alberto rimase a pranzo: dopo una lunga dieta a base di carne in scatola, il capretto arrosto era un'alternativa gradevole, ma le verdure inscatolate erano uguali a quelle che lui stesso aveva sull'Olandese Volante.
Dopo pranzo, stiracchiando le gambe sul telo che copriva il fondo della tenda canadese che era le boureau del professore, Alberto rifiutò cortesemente una sigaretta che Desroches gli aveva offerto, ed accese una delle sue: aveva già provato le Celtique spaccapolmoni ed una volta gli era bastata.
Si decise a fare la domanda che gli ronzava nella testa da quella mattina.
"Professor Desroches", chiese, "Che tipo di scavi archeologici sta compiendo in questa zona? Per quanto ne so, nell'antichità qui era tutto coperto dal mare".
Desroches ammiccò con uno strano brillio negli occhi.
"Et bien, mon ami", disse, "Aspettavo che si decidesse a farmi questa domanda. Si è mai chiesto perché le prime civiltà umane, dall'Egitto alla Mesopotamia, all'India, alla Cina. All'America precolombiana compaiono improvvisamente circa 5.000 anni fa in varie parti del Globo più o meno attorno all'anno tremila avanti Cristo?"
"Non ne ho idea", disse Alberto, "non è il mio campo, me lo dica lei".
"La mia è solo un'ipotesi, naturalmente", disse il francese, "Almeno lo era finora, adesso ho delle prove, prove che si trovano proprio in quelle casse che abbiamo caricato a bordo. Lei sa che c'è stata l'età glaciale, terminata circa dodicimila anni fa".
"Credo di averne sentito parlare", disse Alberto.
"Et bien", proseguì il francese, "S'immagini che la civiltà umana sia più antica di quello che pensiamo. Mi dica, di solito dov'è che tende a insediarsi la popolazione?"
"Sulle coste!"
Alberto non era uno specialista di problemi storici od archeologici, ma la risposta gli era venuta istintiva, forse perché era nato in una città di mare.
"Tres bravo, mon cher ami", commentò il professor Desroches, "Perlomeno le regioni costiere si civilizzano prima delle terre interne. Pensi a cos'era la Russia, od anche la Germania solo mille anni fa. Ora non si scordi la nostra glaciazione. Circa dodicimila anni fa l'Europa, per esempio, era coperta da una sola lastra di ghiaccio che andava dalla Scandinavia all'arco alpino. Non penserà che tutto quel ghiaccio sia scomparso nel giro di una sola estate?
Comprende ora, mon ami? Il livello del mare deve aver continuato a salire per millenni. E gli uomini devono avere via via abbandonato le città costiere e i porti per ricostruirli in posizione più arretrata, fino a che, cinquemila anni fa circa, il livello del mare ha smesso di salire, ed ecco spiegata la stranezza della comparsa simultanea delle prime grandi civiltà documentate in tutto il mondo".
"Capisco, professore", disse Alberto che cominciava ad incuriosirsi di quella teoria, "ma mi permetta un'obiezione: se sono esistite delle civiltà prima del tremila avanti Cristo, non è ragionevole supporre che tutto quanto hanno costruito si trovasse oltre le attuali linee di costa, vi dovrebbero essere dei manufatti".
Il professor Desroches ammiccò in quel suo modo caratteristico.
"Chi le dice che non ve ne siano?", replicò, "Mon cher, è stato in Egitto? Ha visto la Sfinge? Se lo ha fatto, saprà che il corpo della Sfinge è stranamente allungato e basso, e la testa è sproporzionatamente piccola. Non sono il solo né il primo a pensare che si tratti di ciò che rimane di una grande scultura molto più antica della civiltà egiziana classica; tutta la parte superiore deve esser stata portata via dall'erosione, e poi qualcuno ha scolpito con un frammento residuo del suo muso una testolina ridicolmente sproporzionata con i lineamenti del faraone Chefren.
L'Egitto sarebbe un ottimo luogo per fare ricerche, se non fosse dannatamente pericoloso. Vada a parlare di queste cose con i padroni di casa, l'accuseranno di volerli espropriare della paternità dei monumenti più importanti della loro terra per attribuirli a qualcun altro, Atlantide o che so io, anzi, provi solo a nominarla, la parola "Atlantide" da quelle parti, e rischierà di trovarsi un coltello nella pancia o nella schiena. Gli iracheni non sono meno sciovinisti degli egiziani, ma devono avere per forza un atteggiamento diverso: la Mesopotamia è stata da sempre un grande crocevia di genti e di civiltà. Sumeri, Accadi, Babilonesi, Elamiti, Assiri, Ittiti, gli iracheni di oggi non si possono identificare in maniera particolare con una di esse. Lei vuole dimostrare che la loro terra ospitava insediamenti civile già prima dei Sumeri? L'accoglieranno a braccia aperte, Riuscirà a farlo? Ne saranno felici.
Ora vorrei fare una domanda a lei: se volesse dimostrare questa teoria, dove si metterebbe a cercare?"
"Non lo so", rispose candidamente Alberto.
"Il problema è semplice, mon ami", proseguì il professore, "Scavare sott'acqua richiede mezzi e strutture che non sono alla portata di un povero studioso controcorrente che sostiene idee in conflitto con l'archeologia ufficiale, né alla portata della fondazione privata che lo sostiene, alimentata solo da contributi di appassionati e di amici, ma c'è un'altra soluzione: vi sono luoghi che dopo essere stati invasi dal mare sono stati di nuovo ricoperti dalla terra, i delta dei grandi fiumi, e alcuni di questi luoghi si trovano proprio in prossimità di insediamenti umani molto antichi, naturalmente sono disdegnati dalle spedizioni archeologiche ufficiali, perché qui all'epoca delle civiltà conosciute non c'era niente, e poi bisogna scavare molto a fondo. Se lei scava qua sotto, mon ami, troverà prima depositi fluviali recenti, poi sedimenti marini, e sotto ancora strati depositatisi quando queste terre erano emerse, prima o subito dopo la fine della glaciazione".
"E lei ha trovato qualcosa?", chiese Alberto in tono impaziente:
"Si j'ai trouve quelque chose?", rispose il professore con gli occhi accesi da uno strano brillio, "Assez da rivoluzionare l'idea che gli uomini si fanno del loro passato. Si ricordi la Bibbia mon cher, gli uomini erano cresciuti in potenza e superbia prima che il diluvio li spazzasse via, e Platone con la sua narrazione su Atlantide, una civiltà enormemente progredita spazzata via dalla stessa inondazione, ma c'è dell'altro".
Allungò la mano verso uno zaino poggiato sul fondo della tenda ed estrasse un libro con una copertina rilegata in cuoio e chiuso con un fermaglio, l'aprì ed Alberto vide che non era un libro ma un grosso quaderno, una sorta di diario o blocco di appunti, carico di annotazioni.
Lesse:
"Permane un altro mistero riguardo a Bassorah, che nelle Mille e Una Notte e nel restante folklore è considerata un porto, e nientemeno che il porto di Baghdad. Bassorah non può essere mai stata un porto, poiché ben difficilmente può essere stata una città. Non è altro che una gran fetta di roccia alloggiata su di un fondale fangoso e sfregiata da antichi fuochi. E' come se fosse stata usata da flotte spaziali al pari di una rampa di lancio, prima ancora che queste cose fossero sognate da qualcuno. Si dice che una delle novelle mancanti delle Mille e Una Notte raccontasse i commerci di vari Sindbad dello spazio con i mondi esterni e con il grande califfo, ai tempi in cui la via era più aperta di oggi".
Moisha el-Gazma: Leggende del Golfo Persico.
"questa, ovviamente, è una citazione che ho trascritto, l'originale è quasi introvabile".
Chiuse l'agenda di scatto.
"Le sembra incredibile, non è vero?", disse, "Allora pensi a questo: la nostra specie ha raggiunto lo stadio di sapiens circa duecentomila anni fa, la storia conosciuta copre gli ultimi cinquemila anni, un quarantesimo di questo periodo. In quattro secoli, sedici generazioni, siamo passati da uno stadio in cui non eravamo in grado di sfruttare nessun tipo di energia meccanica, e credevamo di stare su di una Terra piatta al centro dell'universo con sopra il cielo come il coperchio di un vassoio da portata, alle astronavi ed ai computer. Quante volte si sarebbe potuto ripetere lo stesso processo, e poi decadere, sparire, essere dimenticato?"
"Non so cosa dire", rispose Alberto, "Se lei ha ragione, è sbalorditivo, ma bisognerà provarlo".
Il francese fece una strizzatina d'occhio.
"Ebbene, mon ami", disse, "Quello che ho trovato, quello che c'è in quelle casse, potrebbe non solo rivoluzionare l'archeologia, ma anche far progredire l'astronautica".
Alberto non fece commenti, troppe idee gli ronzavano nella testa, tante cose gli venivano in mente, dalle misteriose statuette giapponesi dette dogu, così simili ad umanoidi in scafandro, alla strana lastra tombale ritrovata nella piramide messicana di Palenque, col bassorilievo di un veicolo a razzo con tanto di getti di scarico che escono dall'ugello posteriore, alle straordinarie "piste di atterraggio" dell'altopiano di Nazca.
"Lei ha trovato qualcosa che potrebbe essere ciò che rimane di una tecnologia spaziale avanzata", si azzardò infine a chiedere, "i resti di un veicolo spaziale, forse?"
"Forse", rispose il professor Desroches, "ma dovranno pronunciarsi gli esperti, io sono solo un archeologo",
Alberto emise un fischio soffocato fra i denti.

Alberto si era deciso a concedere una giornata di riposo a terra all'equipaggio, cioè a Minou ed a se stesso. Dopo mesi di navigazione, era una cosa piacevole passeggiare su qualcosa di assolutamente fermo, senza sentire il rollio delle onde sotto i piedi.
Il paesaggio era immenso e vuoto. Con il mare alle spalle, la parte più vicina dello Shatt formata dai depositi alluvionali più recenti, era una brulla distesa argillosa; risalendo con l'occhio il corso dello Shatt che si biforcava nei due grandi fiumi, il Tigri e l'Eufrate, si potevano vedere le rive ricoprirsi di verde, e nella distanza si potevano scorgere sparse manciate di campi e villaggi, una piccola testimonianza, un residuo di quella che un tempo era stata la Mezzaluna Fertile. Alberto sapeva, anche se era difficile crederlo, che ancora nel Medio Evo, quando la regione non godeva certo più del clima piovoso di cui aveva beneficiato nell'antichità, essa era ancora lussureggiante grazie ad una fitta rete di canali che convogliavano l'acqua dalle montagne settentrionali, ma quando i mongoli di Hulagu Khan avevano distrutto i canali e le dighe, il deserto circostante se n'era impadronito per sempre. Era difficile credere che quella un tempo era stata la regione più civile del mondo.
Verso nord e verso est, laggiù in lontananza, la pianura terminava in una serie di ondulazioni azzurrine nella distanza, cos'erano, le estreme propaggini meridionali dell'Acrocoro armeno, degli Zagros, dell'altopiano iranico? Non lo sapeva.
Non aveva molto da fare, si aggirò un poco per l'accampamento dove i nativi si davano da fare a imballare le loro cose, ascoltavano la radio, giocavano a carte, o se ne restavano seduti all'ombra a fumare. C'era aria di smobilitazione, chiaramente, con la consegna delle casse ad Alberto, la campagna di ricerche era finita.
Man mano che il sole scendeva verso occidente ed il pomeriggio trascolorava nella sera, la temperatura, che era stata afosa, si faceva fresca, quasi pungente.
Alberto avrebbe voluto dormire a bordo dell'Olandese Volante per tenere d'occhio sia la nave che il carico, ma il professor Desroches lo dissuase.
"Stia tranquillo", gli disse, "Nessuno toccherà nulla".
Fece un gesto con la mano aperta verso i lavoratori nativi.
"Li offenderebbe, la considerano un ospite".
"E' gente difficile da avvicinare", aggiunse dopo un momento, "ma se riesce ad entrare nelle loro grazie, può fidarsi di loro come di se stesso. Li conosco da anni: sono molto orgogliosi ed hanno un forte senso dell'onore".
Per cena c'era cuscus con la solita carne di capra e verdure al tegame: piselli e zucchine che gli uomini della spedizione avevano comprato in un villaggio più a monte, una prelibatezza per festeggiare l'ospite.
Quella notte Alberto rimase a dormire nell'accampamento, nella tenda del professor Desroches, in una branda a qualche metro da quella del suo ospite, vicino al tavolo da lavoro del professore, in mezzo ad una congerie di arnesi da scavo, teli, setacci ed altri oggetti le cui fisionomia e funzione non gli riuscivano per nulla chiare.
In realtà stentava a chiudere occhio, e non perché gli mancasse sotto di sé il pigro rollio dell'Olandese Volante: troppe idee gli schizzavano nella testa dopo le sorprendenti rivelazioni del professore. Sentiva il respiro di Desroches pesante e regolare, lo scienziato dormiva con la serenità di un bambino. Alberto si alzò muovendosi piano per non rischiare di fare rumore e svegliarlo.
Fuori, sotto la luce della luna, tutto era tranquillo, tranne che per il monotono gorgoglio dell'acqua nera dello Shatt che si riversava lentamente nell'Oceano Indiano, simile in quel momento ad un immenso pozzo buio.
L'Olandese Volante, attraccato non lontano dalla riva, beccheggiava lievemente sul pelo dell'acqua.
Alberto sentiva come una nota di forte contrasto fra la tranquillità dell'ambiente e l'eccitazione che aveva dentro di sé. I discorsi del professore avevano risvegliato dentro di lui antichi sogni, una passione mai sopita; gli occhi gli si appuntavano di continuo verso l'Olandese Volante nella cui capace stiva erano ora alloggiate le casse dal misterioso contenuto, ma per ora non c'era nulla da fare o da vedere. A malincuore, tornò verso la tenda.

Il mattino dopo, Alberto salutò il professor Desroches ed i membri nativi della spedizione, fu un saluto molto caloroso, come se si trattasse di vecchi amici, il francese in particolare gli riservò un abbraccio quasi fraterno.
Dopo un ennesimo saluto, e dopo aver raccolto Minou che dormiva acciambellato nel fondo di una cassa, Alberto tornò a bordo del pascolante.

La leggera foschia che aveva accompagnato il levarsi del sole mattutino si era alzata, e la visibilità era buona, ma la costa, dalla quale l'Olandese Volante si era ormai distanziato, appariva come una sottile linea scura, una linea che, costeggiando la penisola arabica, il pascolante non avrebbe più perso di vista fin dopo aver oltrepassato Aden e Suez ed essere entrato nel Mediterraneo.
Alberto contemplò l'orizzonte con un vago senso di tristezza: all'inizio, quando aveva accettato quel lavoro, gli era sembrato di ripercorrere la scia dei grandi navigatori solitari, ma presto si era reso conto di non essere null'altro che un camionista del mare.
Si accorse che la decisione era già bella e presa, formata nella sua mente quasi a sua insaputa durante la notte insonne: lo Spazio, uscire fuori dai confini angusti del suo piccolo pianeta, il suo sogno di sempre, antico, bruciante, ed insieme la curiosità impaziente di vedere cosa aveva davvero scoperto il professor Desroches.
Prese in braccio Minou che girellava pigramente per la tolda.
"Vieni, bello mio", disse, "E' ora di andare".
Scese nella stiva e, con una spranga di ferro, prese a schiodare una delle casse.

Dal Piccolo (giornale di Trieste) del 17 settembre 2023
Per il momento, l'inchiesta condotta dalle autorità irachene in collaborazione con le autorità consolari italiane non è riuscita a fare luce sulle cause dell'esplosione e dell'incendio avvenuti l'altro ieri mattina a bordo del pascolante Olandese Volante che si trovava in navigazione nella zona del Golfo Persico. Il corpo del nostro concittadino Alberto Bressani che si trovava alla guida dell'imbarcazione, non è stato ritrovato, nonostante le affannose ricerche che sono ancora in corso. Il professor Emmanuel Desroches, l'archeologo francese noto da tempo per le sue teorie stravaganti ed anticonvenzionali, che il giorno prima dell'incidente aveva consegnato a Bressani e fatto caricare sull'Olandese Volante alcune casse di reperti archeologici ritrovati nella zona dello Shatt al Arab, e che avrebbero dovuto con tale mezzo raggiungere l'Europa, raggiunto dal console italiano a Bassorah, ha dichiarato di non essere in grado di fornire spiegazioni, ed ha aggiunto che la perdita dei reperti andati perduti nell'incidente rappresenta un danno incalcolabile per il progresso della scienza archeologica, dopo di che, si è rinchiuso in uno stretto riserbo.
Rimane tuttora misterioso un altro aspetto di questa vicenda: i radar di alcune batterie antiaeree irachene installate nella zona, ed anche quelli di una pattuglia di ricognitori americani blackbird decollati dall'Oman ed in volo di ricognizione sullo Shatt al Arab, hanno segnalato un oggetto non identificato che dalle acque del Golfo si sarebbe alzato in volo ad altissima velocità, uscendo in pochi minuti al di fuori dell'atmosfera e del campo gravitazionale terrestri. Il pilota di un blackbird ha sostenuto di aver scorto nella distanza una tenue scia luminosa perdersi verso l'alto.
Pare accertato che questo fenomeno non abbia connessione con manovre militari da parte irachena od americana, ed è incerto se si debba mettere o meno in relazione con la distruzione dell'Olandese Volante, avvenuta nella stessa zona approssimativamente alla stessa ora.

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