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Il gioco del vagabondo
di Gianni Caspani
Pubblicato su SITO


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Funziona così: si tracciano su una cartina stradale, possibilmente di scala dettagliata, due linee perpendicolari che si incontrano sul pallino della località di partenza e che finiscono in quattro punti distanti il corrispondente di cinque chilometri da detto pallino.
Si traccia quindi un quadrato, unendo i quattro sorgenti delle due linee perpendicolari, essendo il quadrilatero meno banale di una scontatissima circonferenza.
Si sceglie all’interno del quadrato, lasciandosi guidare dall’istinto, dal cuore o dalla fantasia del momento, una qualunque località, che potrebbe essere la grande città, il paese o la frazione (per questo è meglio la cartina dettagliata rispetto a quella di scala più ridotta) e si raggiunge quella località con l’automobile e ci si reca sulla piazza principale.
Anche le località più insignificanti hanno una piazza principale, fosse pure solo uno slargo mangiato dalle auto in sosta.
Anche le località più insignificanti, nella piazza principale hanno un edificio più importante: se non è la chiesa o il municipio, ci sarà pure un palazzo più vecchio o più nuovo, una banca, un bar.
Ci si mette con le spalle a quell’edificio e il gioco comincia, affidato al caso, bello proprio per la sua assurdità, incoerenza e inutilità, per la più totale inesistenza di una strategia, di un piano, coinvolgente per la rigidità delle sue regole, che possono comunque essere disattese all’occorrenza, per dimenticanze o disattenzioni, per cui non si pagano pegni.
Si parte sull’auto e si va, si va, si va, seguendo la strada, secondo questa regola fissa: si gira alla terza a sinistra, poi alla terza a destra, poi alla terza a sinistra, poi alla terza a destra e così via all’infinito.
Se la terza strada non esiste si va sempre diritto, se non è possibile imboccarla per obblighi di direzione o divieti di accesso, si devia alla successiva utile e si continua così, senza fermarsi, qualsiasi cosa si incontri, fosse l’ottava meraviglia del mondo o un’autostoppista che già prima di caricarla ti fa capire che te la darà.
Se a un certo punto la strada finisce a ti su un’altra via, senza che sia giunto il momento di svoltare a destra o a sinistra, si sceglie a caso una direzione, lasciando decidere all’istinto (con l’avvertenza che se si sceglie sempre a sinistra vuol dire essere comunisti e voler far piangere Berlusconi) e si ricomincia a quel punto la conta della terza a destra e a sinistra.
Se questo vagare porta a imboccare l’autostrada, si deve uscire al terzo svincolo, ovviamente a destra, per cui eventualmente si deroga all’obbligo dell’alternanza destra-sinistra, per girare al successivo terzo incrocio a sinistra, riprendendo le consuete regole.
Se a un certo punto uno non ricorda se è il momento della destra o della sinistra, va dove la sua buona fede gli fa ritenere giusto, tenuto conto che il gioco può durare all’infinito e sarebbe disumana una concentrazione assoluta che non falli nell’inanellare la giusta sequenza: sinistra, destra, sinistra, eccetera.
Il limite del gioco può essere temporale o spaziale: ci si prefigge di percorrere un certo chilometraggio o un certo arco orario a cui applicare le regole.
Alla fine dello spazio o del tempo il gioco è finito, ovunque ci si trovi.
A quel punto non resta che tornarsene a casa, evitando di applicare le stesse regole per non essere trasformato in un Ebreo Errante motorizzato in saecula saeculorum.
Non è una regola del gioco, ma lo rende più affascinante: è meglio partire da soli, salvo che non si abbia un compagno altrettanto disposto a lasciarsi passare sopra gli eventi e che non interferisca sulle svolte da effettuare, creando confusione e tormenti di coscienza del tipo: ”E’ ora di andare a sinistra: a destra ci siamo già andati tre incroci fa”, o “E’ solo la seconda traversa”, o “Dovevi svoltare a quella prima”.
Se si vuole allietare la guida con l’ascolto di radio o altri strumenti di diffusione sonora, è meglio optare per compilation preferibilmente di musica classica o musiche da film, per non lasciarsi distrarre da parole o dalla necessità di seguire il filo del discorso o una trama: si rischia di focalizzare la fantasmagoria di duetti alla barriera d’Enfer, senza aver colto la seduzione del valzer di Musetta, o di trovarsi a metà di un giornale radio mentre si seguiva un dibattito sulle prodezze americane in Iraq.
Il gioco si presta a tutte le stagioni: è catartico, in un’estate torrida, guidare con il condizionatore a diciotto gradi; è dolce, in una tiepida primavera, respirare tra una svolta e l’altra i colori pastello della natura rinata; è affascinante, nell’autunno, il digradare delle sfumature degli alberi dal verde ingiallito, al rosso dell’acero infuocato, al marrone marcio che riconcilia con l’idea della morte.
Ma la libidine assoluta deriva dal girovagare nell’inverno terso, quando gli inquinanti fanno discettare governatori, sindaci e assessori se fermare le pari o le dispari, le non catalitiche o tutte in una domenica prefissata, a prescindere dall’inquinamento effettivo o dalle condizioni atmosferiche, ma non dai saldi o dal calendario del Milan.
Nel rispetto formale degli astrusi divieti, si cazzeggia in giro per il mondo profondendo detriti dallo scarico, percorrendo un miliardo di chilometri in più del consueto, eccitati dal ruolo di politicamente scorretto, interpretato nella gioia della sfida trasgressiva che sommerge nel cachinno la vacua pomposità
del potere.

Ci ho provato una volta in vita mia e sono stato tragicamente eliminato da una strada sterrata, fiancheggiata da un filare di pioppi ingemmati dal favonio, una mattina scippata alla monotonia, senza sensi di colpa, solo nell’auto, con una pila di musicassette di canzoni francesi del tempo dei Deux Magots di Arlette e di Juliette Greco, la mente sgombra, l’unica attenzione prestata alla sequenza infinita di sinistra, destra, sinistra, eccetera, fino ad arrivare a quell’incrocio che avrei dovuto ignorare, secondo le regole, ma che mi evocò la visione di sito già vissuto, abbandonato con gli anni per la diaspora della gente che viveva in quei luoghi, emigrata verso altre dimore o sepolta in tombe mai visitate tra i campi prosciugati dall’espandersi della cementificazione.
Non mi era parsa dapprima diversa da una qualsiasi strada di collegamento a casali campestri, in cui sopravviveva la gramigna tenace degli epigoni di realtà rurali sopraffatte dalle mutazioni sociali che hanno trasformato il territorio lombardo a partire dagli anni sessanta; ma poi avevo avuto una fugace visione del cancello della casa padronale che rappresentava il confine (che avevo varcato una volta di straforo, per trovarmi in un parco incredibile, folto di alberi, di erbe curate, popolato di ricci e di fagiani), tra la fattoria che ospitava quello che restava della famiglia di origine di mia madre e il latifondista emigrato in residenze cittadine, lasciando la villa patriarcale alle cure sporadiche ma accurate dei suoi mezzadri, perché la conservassero idonea a saltuari festini campestri della nuova generazione padronale, sempre più distante da quei luoghi e da quella cultura.
Così mandai in vacca il gioco del vagabondo, facendo una breve retromarcia verso l’imbocco di quella vicinale tra i pioppi e inoltrandomi dopo aver sottoscritto la rinuncia al
premio.

Prima ancora che il cavallo arrestasse il suo passo infingardo, avevo scavalcato la sponda del carro per affrettare di pochi secondi il mio precipitarmi sull’aia, a scompiglio di qualche spennacchiata gallina, a fatica contenuto dallo zio di mia madre che mi accolse con il suo solito calore, ammantato da un farfuglio di misurate parole e dal sorriso vago da cui traspariva la sua sconfinata timidezza.
“Te veut mazzazz?”
Aveva la pelle del viso spaccata dal sole, quasi fosse scolpita nel legno dei tigli piantati agli angoli dei poderi come cippi confinari, alla cui ombra mi raggiungeva per mangiucchiare in fretta qualcosa nella stagione intensa della mietitura, quando non c’era neppure il tempo per risalire la breve china che dai campi portava alla cascina, e si tergeva il sudore passandosi sul volto il cuoio di quelle mani, dalle dita permanentemente incurvate, modellate com’erano state per anni intorno al legno della fienaia e della messoria.
In quei giorni lo aiutavano i figli più grandi che con i falcetti segavano il grano curvi sotto il sole della fine di giugno, nei campi infossati e troppo esigui per consentire una lavorazione meccanizzata e un sostentamento non misero alla famiglia patriarcale, la cui crescita si era solo da pochi anni interrotta in linea diretta ma cominciava ad espandesi in via collaterale, accogliendo i primi consorti dei figli maggiori maritati che, pur non assorbiti nello stento lavoro, condividevano gli spazi quasi infiniti della casa colonica.
“Sei fortunato tu, che abiti in città e studierai e troverai un bel lavoro in cui non dovrai spezzarti la schiena”, mi diceva nel suo dialetto irto e rude, scabro alla pari dei suoi tratti somatici e del suo arruffato riserbo e sorrideva a se stesso e ai campi al cui orizzonte vagava il suo sguardo, ad inseguire il ricordo di ancestrali fatiche.
E in fondo a quei campi nelle fessure dei suoi occhi luminosi si materializzava ogni volta il fantasma del fratello, mio nonno, che quasi era scappato un giorno per rinnegare quella campagna riarsa e portare multas per gentes et multa per aequora una voglia di libertà, prima ancora che di riscatto, che ritornava di rado alla cascina patriarcale, riconosciuto a fatica dagli stessi fratelli, soprattutto i più piccoli, e che aveva attraccato la nave, alla fine, in una città non distante geograficamente, ma posta agli antipodi per stile di condotta e mentalità, in cui avrebbe alimentato ancora per pochi anni la sua spensierata filosofia di vita e il cancro che lo avrebbe mangiato.

La sera attirava, come falene il lume di un’isolata candela, nello stanzone che faceva da cucina intorno a un tavolo che mi sembrava immenso, i componenti della famiglia per una cena che raccoglieva fatiche sparse ricompattate in un alone di solidarietà.
L’intimità di quell’atmosfera era accresciuta dalla fioca luce che pioveva da un lampadario essenziale, recente conquista di un progresso ritardato, dalla mensola sopra l’acquaio, su cui erano allineati paioli tirati a lucido, dai panni stesi sui ferri a raggiera posti sul cannone della stufa a legna nelle sere d’inverno in cui la nebbia avvolgeva la cascina in un involucro ovattato di silenzio e di gelo crudo.
Erano minestre traboccanti di verdure da cui scartavo i fagioli per me insopportabili, raccogliendoli in un piatto che finiva poi in quello del patriarca che mi rimbrottava con schiva ironia, o polente rimestate nel rame appeso alla catena del camino e riversate fumanti al centro della tavola e attinte a cucchiaiate da ognuno, a rinforzare pietanze di carni avare occhieggianti in intingoli appetitosi, in cui la massaia profondeva più fantasia che consistenza nutrizionale.

Erano bastati quegli alimenti poveri durante la guerra anche a una famiglia di profughi ebrei, accolta per umanità e spirito cristiano più che per insubordinazione a leggi avvertite come abnormi e disumane, al di fuori di ogni ribellione completamente estranea a un senso di valori innato e non determinata da considerazioni di natura politica.
L’accoglienza, offerta con una disponibilità incondizionata e dettata semplicemente da un inconscio senso di giustizia naturale, aveva contrapposto lo zio di mia madre al fratello monsignore che, inserito com’era nei meandri della curia vaticana e nel contesto postconcordatario, non apprezzava quella nativa generosità, ingenuamente –o deliberatamente- inconsapevole della trasgressione e dei rischi conseguenti.
Ne era nato uno scazzo, l’unico in quella famiglia che attribuiva un ruolo di naturale guida spirituale al monsignore, emigrato ad aulici lidi, ma investitosi del diritto divino di reggere la moralità della famiglia originaria e delle famiglie da essa derivate dall’alto della sua arida ortodossia, ricolma di esteriorità e rigidità formali, priva di carità di clemenza di tolleranza di pietà e di misericordia.
“Ti richiamo al tuo dovere di padre di allevare i tuoi figli al rispetto dei disegni della Provvidenza di Dio, che nella nostra miseria di esseri finiti non possiamo comprendere. Non voglio tralasciare nemmeno un accenno al pericolo a cui esponi tutti i tuoi cari, violando una legge che può sembrare crudele, ma che non sta a noi discutere e giudicare. Nella quotidiana preghiera sono sicuro che troverai l’illuminazione per risolvere al meglio il caso, senza danneggiare gli sventurati che hai accolto con una generosità disinteressata che ti fa onore, ma non giustifica la sconsideratezza e la inopportunità della tua decisione”, scriveva il monsignore dal suo tavolo di lavoro d’Oltretevere, ribadendo in forma aulica i concetti già dispensati con più grezze parole nel corso dell’ultima vacanza estiva nella cascina della sua infanzia.
“Con tutto il rispetto che si deve all’abito”, commentò lo zio archiviando la lettera nel taschino di un consunto panciotto, ”già da piccolo si capiva che Desiderio non avrebbe capito un cazzo della vita”.
“Porta su un scartozz a quei poveri diavoli”, disse poi rivolto alla bambina più piccola.
“La Provvidenza è quella che ci dà ancora da mangiare il pane, in questi tempi di guerre e leggi da scemi, a noi e a quei poveri cristi a cui riusciamo ad essere utili. Per il paradiso vale più questo che diecimila rosari”, concluse lo sfogo verbale del tutto avulso dal suo consueto riserbo, con allusione all’invito fraterno alla quotidiana preghiera da cui avrebbe dovuto trarre ispirazione.
La provvidenza si ricopriva le spalle con lo scialle dell’astuta zia Rosetta che portava le sue tessere annonarie alla posteria per ritirare le razioni, cospicue, dato il carico familiare, peraltro mai sufficienti a soddisfare il concreto fabbisogno, determinato dall’aggiungersi agli appetiti robusti degli intestatari ufficiali quello, non meno gagliardo, dei clandestini.
Con incessanti chiacchiere pretestuose, approfittando dell’affollamento che si creava nel piccolo negozio nelle ore di punta, la zia Rosetta distraeva l’attenzione della bottegaia, riempiendola di scipiti aneddoti paesani e di frivoli pettegolezzi, conseguendo spesso il risultato di farle dimenticare il taglio delle cedole relative al prelievo effettuato e di ottenere così una maggiore disponibilità di cibo con cui fare fronte ai bisogni della famiglia allargata della cui sorte nutrizionale era assurta a garante prima.
Quando il gioco non le riusciva per un qualunque motivo, era lei a sentirsi defraudata, come se il suo tentativo di raggiro fosse in realtà il semplice esercizio di un diritto sacrosanto.

Mia madre mi sollevò dalla culla rustica in cui avevo smaltito la poppata, mi pose sul tavolo per cambiarmi i panni e le fasce in cui assurdamente si involgevano ancora i neonati in quegli anni del dopoguerra, non ancora evoluti dalla divulgazione di teorie pediatriche di massa che avrebbero in futuro estinto quella generazione di orrende piccole mummie candide, di esseri viventi imbrigliati quasi per una sottintesa educazione alla vita, tanto simili alle ingenue iconografie delle Marie Bambine che ornavano immancabilmente i canterani delle camere delle giovani spose.
Esibendomi come un trofeo, volitò leggera sull’aia dove la mia bisnonna crogiolava al sole pallido dell’aprile i suoi ultimi giorni di vita, con l’intimo suo già assurto a spazialità interstellari, già in comunione con gli spiriti che l’avevano preceduta nell’esplorazione dell’ inquietante mistero.
Mia madre la richiamò con un tocco lieve e mi posò tra quelle vecchie braccia, avendo cura che mi reggessero salde e che il mio lieve peso non fosse molesto per quelle vecchie ossa.
La bisnonna mi accolse con una sollecitudine leggera, ritrovando un bagliore di luce negli occhi.
E guardando il nipote di quel suo figlio partito un giorno lontano dai campi sudati della Brianza per un viaggio che non ebbe più ritorno, sorrise brevemente, riconciliandosi finalmente con Dio.

© Gianni Caspani





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