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Lo scopritore diventato una palla di gomma
di Salvatore Romano
Pubblicato su PB12


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Mi sono sempre piaciute le soffitte, quelle di una volta, basse, appena illuminate da piccole feritoie, piene di polvere. Quelle, per intenderci, patrizie cadute in disgrazia. Mi hanno sempre attirato, soprattutto se da tempo nessuno ci mette più piede. Si, perché il bello è proprio questo, devo essere il primo ad entrarvi dopo anni di abbandono, per scoprirvi qualcosa. Cosa di preciso non so, ma qualcosa. Forse l’essenza! L’uomo è un animale terribile, dovunque va deteriora, manomette, compromette. Soprattutto se si intromette in cose non sue. Tante volte ho visitato cantine e soffitte ormai private del loro fascino, del loro mistero perché qualcuno mi ha preceduto. Qualcuno privo di poesia, un rude ricercatore di tesori, non un raffinato scopritore di cimeli pieni di storia come me. Perché io in realtà sono un poeta di antichi oggetti, un cultore di antiche tracce dell’uomo nascoste nei più umili oggetti. Questa passione la scoprii da piccolo, durante le vacanze estive che passavo in campagna dai nonni ospitato nella loro vecchia villa. Durante il riposo pomeridiano dei “grandi” io ne approfittavo per andare su in soffitta a rovistare tra le antiche cose conservate. Rimanevo incantato di tutto ciò che scoprivo, giocattoli, libri, porta gioie, medaglioni, vecchie cornici tarlate, dipinti ormai anneriti e così via, fino agli oggetti più bizzarri. E’ una fortuna che i nostri avi amassero conservare ogni cosa, adesso questa caratteristica l’abbiamo persa. Siamo schiavi del consumismo, si butta via tutto e si ricompra nuovo. E abbiamo perso una cosa importante: la forza che gli oggetti immagazzinano nel corso degli anni. Il risultato è che non riusciamo più a dialogare col nostro passato, con i ricordi, perdendo di conseguenza la profondità dei sentimenti. Ma io ho continuato a cercare tra le cose antiche e abbandonate. Di lavoro infatti faccio lo scopritore. Lo scopritore è una professione, in effetti, non nuova né originale. Scopritori sono gli archeologi, gli storici, i ricercatori. Ma non come lo sono io. Sono uno scopritore suigeneris, uno scopritore speciale, oserei dire unico. Perché di scopritori se ne contano a centinaia, scopritori di cose umili e scopritori di cose pregiate. Ma non scopritori di sensazioni imprigionate o, custodite, all’interno di oggetti, i più svariati. Io sono uno scopritore di sensazioni, di sentimenti, di stati d’animo. Sono uno scopritore di cianfrusaglie e attraverso oggetti che possono apparire insignificanti ne traggo la storia che li ha attraversati. C’è stato qualche conoscente che ha voluto cimentarsi nella stessa attività ma, ahimè, fallendo completamente. Perché non è cosa di tutti, bisogna averci una certa predisposizione. Bisogna nascerci. E’ una vocazione, è missione, è il cardine del proprio vivere. Bisogna avvertire il bisogno interiore di capire per cercare, per trovare perché, poi, in definitiva si cerca se stessi. Non sto a raccontarvi oltre cosa mi ha spinto in questa attività, vi annoierei. Però sento il bisogno di raccontarvi ciò che mi ha causato questa attività. E quello che mi ha causato non so definirlo né un fatto positivo né un fatto negativo, non lo so, forse tutti e due le cose, anzi sicuramente. Perché in ogni azione della natura c’è un pro e un contro, e anzi gli aspetti che più ci sembrano negativi nascondono spesso aspetti benefici. Dunque, tempo fa mi recai in un vecchio casolare la cui soffitta era chiusa da un centinaio d’anni. Il proprietario affermava di non esservi mai entrato perché ne aveva paura. Durante le notti, asseriva, da sopra giungevano strani rumori. Dei topi, probabilmente, ma aveva egli paura pure dei topi. Aprii con molta fatica la vecchia porta di legno poiché i cardini erano talmente arrugginiti da formare un unico blocco di ferro. L’interno era pieno zeppo di cianfrusaglie, piccoli mobili, statue, quadri, tutto ricoperto di ragnatele e polvere. Iniziai a spostare qualche oggetto, qualche soprammobile quando la mia attenzione fu attratta da un grande specchio. Era uno specchio alto circa due metri e largo uno, con intorno una cornice di legno finemente lavorata con teste di leoni e aquile e volute stile liberty. Mi ci avvicinai e provai a pulirne la superficie opacizzata dal tempo ma esso andò in frantumi all’improvviso cadendomi addosso e…zac, un taglio netto e la gamba si staccò. Zac, un altro taglio e andò via il braccio. Altri due colpi e mi ritrovai solo con il busto. * Giro la testa in direzione di uno specchio e non mi vedo male. In questa nuova condizione decido di andare un po’ in giro e come se fossi una pallina da ping pong mi avvio tutto allegro. Riesco a procedere saltellando e non avverto dolore, come se fossi di gomma. La gente si scosta, mi guarda incredula, magari pensa d’essere ubriaca, ma io non me ne curo, sono totalmente assorbito dal piacere di salterellare. Mi ritrovo davanti al negozio del barbiere, entro e mi faccio sbarbare. Intanto una folla si riunisce per osservarmi dalla vetrata, li guardo e sorrido. Come mai sono allegro? Come mai tutta questa gente curiosa non mi infastidisce? Di solito sono un solitario, riservato, forse un asociale. Probabilmente questa nuova condizione fisica mi è congeniale. Intanto mi distinguo dagli altri essendo diverso e poi, devo ammetterlo, questa situazione mi consente di andare dovunque senza fatica. Praticamente mi limito a dare un breve colpetto in avanti, col busto, quel tanto che basta da darmi la spinta. Essendo elastico comincio a rimbalzare e di salto in salto vado in ogni direzione. Se trovo percorsi più difficili mi avvolgo in me stesso, a riccio, assumendo la forma di una palla e con la stessa rotazione riesco ad evitare ogni ulteriore fatica. Sto apprendendo nuove cose, che prima ignoravo, di cui non facevo caso. Rifletto su come per la maggior parte di noi le cose ci passano davanti senza che le notiamo. Eppure basterebbe fermarci un secondo e osservarci intorno. Ad una attenta analisi, se ognuno di noi lo facesse, si accorgerebbe di cose che prima ignorava. Io mi sono ritrovato particolari che prima, pur essendoci, non vedevo. Ma questo è l’uomo, il grande uomo che vanta la supremazia su ogni cosa, anche sul proprio simile. E poi si lascia sfuggire particolari, cose, momenti, situazioni che avrebbero potuto, allora, cambiare la sua vita. Stolto di un uomo, osservatore soltanto dell’unopercento di ciò che ti circonda, stolto che non sei altro, sai costruire soltanto vapore… Dal barbiere sono uscito, sbarbato e aromatizzato. Mi sento fresco, pulito e contento. Agile come non lo sono mai stato più che camminare il mio è un rotolare. Procedo piano, poi più veloce, mi arresto, curvo, mi innalzo e quasi sempre senza toccare l’asfalto. La velocità mi fa stare ad un paio di centimetri dal suolo, costantemente, per cui con la irregolarità della superficie stradale ad occhi attenti do l’idea di un tracciato cardiografico. Quando vado più veloce sento l’aria passarmi sotto leggera e mi provoca un leggero solletico che mi piace molto. Ho iniziato ad andare più velocemente, mi sembra quasi di andare con la velocità della luce. Mi piace fare arresti immediati, comparire all’improvviso davanti alle facce terrorizzate della gente, fermarmi ad un millimetro dal loro naso, uscire loro la lingua e poi scappare. Gli ignari, dopo un primo momento di sbigottimento vorrebbero pure acchiapparmi, schiacciarmi, ma io sono più veloce di loro. Qualcuno, di quelli che prima mi stavano antipatici, ho iniziato a terrorizzarlo. Praticamente gli turbino davanti distraendolo dalla guida, dalla lettura, dal lavoro. Ma il divertimento maggiore ce l’ho quando vado sotto le gonne delle belle donne. Che delizia, che meraviglia, ritrovarmi tra quelle cosce che con un dolce tepore mi accolgono con benevolenza. Sono le uniche, queste donne dalle cosce calde, che non rifuggono la mia presenza. Per la verità non sanno nemmeno di cosa si tratti entrando io all’improvviso sotto le gonne, ma ne sono contente. In una stradina di periferia, un po’ isolata, in un vecchio muro di pietre con calcina che cade a pezzi, noto una crepa, attraente e senza pensarci tanto faccio un piccolo balzo e mi ci poggio davanti. Con destrezza insospettabile sfrutto un piccolo rilievo a mo’ di virgola e così posso restare sospeso. Lentamente inizio a penetrare la testa dentro la crepa ed essa assume la forma dell’apertura penetrandovi dentro senza fatica. Mi ritrovo in uno spazio buio e infilo, quindi, il corpo, almeno quello che ne rimane. Nella nuova nicchia mi ci ambiento bene e scopro che la mia testa, il mio busto, oltre ad essere come di gomma, “palleggianti” e quindi leggeri sono anche deformabili, malleabili, duttili, senza che avverta il benché minimo dolore. Le ossa sono semplici cartilagini e come i topi riesco a penetrare le fessure più piccole. Praticamente è come se fossi fatto di cera, di silicone fresco, di mollica appena sfornata, di creta. Inizio a percorrere i vari anfratti, percorsi tortuosi che l’interno di quel muro mi offre. Vedo chiaramente tutto perché le pietre riflettono all’interno la luce attraverso un gioco di piccole superfici oblique come succede con pezzetti di specchi che variamente inclinati e disposti riescono ad illuminare cavità profonde. Come le fibre ottiche con la differenza che qui è tutto casuale e per questo più bello. Ed io mi ritrovo all’interno di un prodotto dell’uomo costruito chissà quanti anni prima, costruito da uomini che erano stati e che adesso non sono più. Morti e sepolti, con le loro gioie, dolori, con tutta la loro triste storia di uomini comuni senza importanza, con il loro anonimato tanto è che non hanno lasciato traccia, nemmeno con questo muro che è importante soltanto perché ci sono dentro io. Procedo, rotolando lentamente perché gli spazi sono piccoli rispetto al mio corpo e devo rimodellarmi continuamente. E’ bello ritrovarmi all’interno di questo muro antico, sento su di me il peso leggero di centinaia d’anni, sento ancora il calore delle mani che hanno toccato le pietre, sento persino le voci, le risate, le bestemmie e…, adesso percepisco delle voci anche da fuori. Vado a vedere, fuori delle persone stanno conversando ignari d’essere spiati. Ma i loro discorsi non mi interessano, sono più attratto dal perlustrare e quindi riprendo a vagare. In effetti continuo a svolgere la mia attività di scopritore, magari non più di cantine ma di qualunque cosa mi offra degli orifizi, delle aperture da poter penetrare con tutto me stesso. Ad un certo punto trovo un formicaio. Le formiche non si curano di me, hanno il loro lavoro ininterrotto. Vanno, vengono, portano cibi sulla schiena, in modo apparentemente caotico, frenetico, ma con un rigore tutto loro. Se l’uomo fosse laborioso allo stesso modo…, ma se lo fosse cosa cambierebbe? Si dovrebbe vivere in funzione soltanto del lavoro? Adesso un centinaio di formiche sta trascinando uno scarafaggio semimorto. Agita, il gigante, le zampette, le antenne ma trovandosi a schiena in giù ha poche difese a sua disposizione. Le formiche a centinaia lo assalgono, lo mordono, lo ricoprono. Lo scarafaggio è completamente immobilizzato e lentamente le zampette si fermano. Le formiche cominciano a staccargli parti del corpo e ricominciano quel loro caotico andare e venire lasciandomi come svuotato. Riprendo il mio cammino all’interno del muro che procedendo comincia ad offrirmi radici saldamente ancorate alle pietre. Evidentemente il muro all’esterno è pieno di piante e mi torna la voglia di uscire all’esterno. Eh sì, un po’ di sole e d’aria fresca non mi farà male. Intravedo una fessura illuminata ed esco da lì catapultandomi fuori. Con giravolte veloci vado in direzione del mercato, a quell’ora troverò qualche amico e potrò gustarmi un buon bicchiere di birra. Trovo Enrico che appena mi vede lancia un urlo e sviene. Accorre gente che gli presta soccorso, riescono a farlo rinvenire, adesso si è calmato. Ci rechiamo ad una vicina taverna, sempre dalle parti della Vucciria e ci sediamo ad un tavolino. Ma come ti sei conciato? Mi chiede. Niente, rispondo, è successo ma non ha importanza. Gli spiego che anzi, stranamente, questa condizione nuova mi aiuta nel mio lavoro e che, in fin dei conti, forse mi ci godo di più la vita. Enrico sembra non capire il mio discorso e alla fine dice: beh, se a te va bene così…, continuando a bere il bicchiere di birra. Io mi servo di una cannuccia, altrimenti non saprei come fare. Guardo Enrico che ha due gambe e due braccia più di me eppure mi sembra più spoglio di me, più debole nei confronti del mondo, con meno armi. Gli chiedo come gli vanno le cose e mi risponde che meglio non potrebbero andare. Il suo matrimonio è stabile, il lavoro lo soddisfa, per come può essere soddisfatto un netturbino, e che non saprebbe cosa desiderare di più. Poi mi guarda e comincia a piangere. Piange, il povero amico, perché gli faccio pena. Lo rassicuro che sto bene anche così, cerco di fargli capire che anche se sono senza gli arti vado dovunque e faccio tutto ma non mi capisce: per lui sono un anormale. Dopo aver salutato Enrico, rotolando e saltellando arrivo in un parco dove andavo sempre da piccolo, Villa Giulia. Un gruppetto di bambini sta giocando a nascondino dietro i cespugli, li osservo e ricordo quando ero io bambino. Tanti anni sono trascorsi e devo ammettere che preferisco la mia attuale condizione. Non sono stato un bambino tranquillo, non ho conosciuto il gioco collettivo, la spensieratezza infantile, il calore familiare delle lunghe giornate invernali. Adesso felice starnazzo per le vie come un aquilone e mi cullo leggero nell’aria respirando il profumo dei fiori. Perché dovrei rimpiangere il tempo passato se quel tempo mi dona soltanto tristi ricordi? Di solito si ripensa al passato con nostalgia, io no, io vivo bene il presente, senza gambe e senza braccia, ma con una energia nuova, una carica interiore che si sprigiona esternamente come lava da un vulcano. Adesso io esisto e prima ero solo un curioso di cose morte. Scopritore sì, ma di me stesso. Cercavo le mie origini atomiche, la forza centripeta del mio essere, volevo un propulsore nucleare e l’ho trovato. Adesso vado ovunque senza nessuno temere. Villa Giulia mi è sempre piaciuta, spesso vi andavo con mio nonno e mi raccontava aneddoti che ancora ricordo. Vi è la storia dei due compari dei quali uno per scommessa si infila dentro la gabbia del leone e viene sbranato. Adesso il leone non c’è più, la gabbia è vuota. Faccio due passi (se così posso dire) per i viali alberati. Mi godo questa giornata di sole, normale per una città come Palermo, l’unica città che io conosca dove vale la pena vivere. Per la gente sono un tipo anomalo, mi vedono saltellare e si chiedono del perché sia senza arti. Pensano ad un incidente, oppure ad una deformazione prima della nascita. Vedo una panchina sotto una vecchia quercia e mi ci metto. Alcune foglie mi solleticano il naso, mi giunge leggero il profumo dei fiori e sento il ronzio di api laboriose. Mi tornano alla mente le formiche, sono insetti da ammirare entrambi. Due anziani si siedono accanto a me e dopo avermi dato un saluto cominciano a parlarmi. Certo deve essere terribile trovarsi senza braccia e senza gambe. No, rispondo, cosa c’è di terribile? Beh, non camminare agevolmente, non poter portare nulla, non poter amare. Eh no, posso accettare il non “poter portare nulla”, ma non il “non camminare agevolmente” e meno che mai il “non poter amare”. Perché non potrei amare? Cosa mi impedisce di amare? Ho un cuore anch’io, ho una mente, provo sentimenti, anzi tutto ciò è acuito, più degli altri io avverto sensazioni. Vado via, non posso rimanere ancora lì senza incavolarmi. Mi ritrovo per via Maqueda, la strada, i marciapiedi, tutto pullula di gente che vanno, che vengono, che entrano ed escono dai mille negozi. Città viva, come dicevo prima, e questo ne è un esempio. Svolto a sinistra e scendo per via Cavour, voglio andare verso via Roma, verso la Vucciria. Appena giunto mi viene in mente il grande dipinto di Guttuso in omaggio a questo grande mercato e mi sento orgoglioso di essere siciliano. La Vucciria, grande affresco di una Palermo sempre uguale dove attraverso la tela si sente l’odore del pesce fresco e della verdura appena colta. Questa è una Palermo secolare ed eternamente stabile nei propri valori ma non per questo negativa. Siciliani bistrattati da altre culture ma proprio per questo fondamentali nella civiltà umana. E gente incompresa da chi non vive con loro. Ma pure gente testarda nel perseguire il vecchio, timorosa di ogni cambiamento, timorosa di perdere la propria identità, forse uno dei valori a cui tengono di più. Lungo il mio andare vado a finire dentro un tombino. Vado giù per metri e metri e finisco in una pozza di fango. E’ tutto buio, soltanto una leggera luce giunge dall’alto. All’improvviso sento delle voci, vado in quella direzione e vedo decine di persone, uomini e donne e bambini. Sono allegri, ridono, scherzano, per nulla imbarazzati dalla mia presenza. Mi avvicino ad un anziano signore dalla folta e lunga barba bianca. Salve, gli dico, cosa ci fate tutti voi qui? Il vecchio mi guarda con i suoi occhi tristi e una lacrima gli scende lentamente facendo illuminare per un attimo la pupilla. Lo guardo con più attenzione, una strana sensazione mi prende: sono proprio io, non vi sono dubbi. Allora rivolgo lo sguardo agli altri componenti, saranno una trentina in tutto, e sono sempre io in ognuno di loro. Ma come può essere possibile? Cosa può significare? Il sudore comincia a scendermi dalla fronte, comincio a temere il peggio. Non si curano di me ma mi vedono, mi sentono, impassibili continuano il loro dialogare. Cerco di parlare loro ma non mi rispondono, è come se li osservassi da dietro un vetro: vedere ma non comunicare. Mi vedo bambino e ragazzo e anziano e tutte e tre le visioni mi rattristano, preferisco mettere un telo nero sopra e non guardare più. Sì, meglio godermi questo presente e andare oltre. Rigirandomi su me stesso velocemente risalgo la parete del tombino e risbuco attraverso le grate sulla via, affollata come tutte le vie di Palermo. Con alti salti repentinamente mi allontano dirigendomi verso la mia abitazione, avverto un po’ di stanchezza. Si, un riposino è quello che ci vuole. Ma arrivando trovo un impedimento: come entro? Non ho mani per aprire con la chiave. Faccio un giro intorno alla casa alla ricerca di una fessura sufficientemente grande da potermici infilare ma non trovo niente di meglio che andare al piano superiore dalla Roberta e chiedere a lei di venirmi ad aprire la porta. La Roberta è distesa sul divano e non sembra per niente meravigliata di vedermi. Ciao, mi dice, entra pure. Con un salto vado dentro, mi fa sdraiare accanto a lei e mi domanda: cosa ti è successo agli arti? Nulla, rispondo, per ora mi piace stare così. Anch’io voglio essere così, dice la Roberta, anch’io. Più tardi, forse, più tardi. Mi sei sempre piaciuto, mi dice, e comincia a passarmi le mani sul corpo, comincia a stringermi, ad appallottolarmi, come se fossi mollica di pane. Comincio a prendere consistenza, spessore, durezza ma rimpicciolendomi. Essa affonda le dita su di me con virulenza ma non provo dolore, anzi, ogni volta ne godo. Divento così quanto una pallina da ping pong e Roberta comincia a strusciami sul suo corpo, sotto la gonna e in mezzo alle cosce. Mi ritrovo davanti una grande grotta con le pareti umide e appiccicaticce, vi entro dentro. Un pulsare ritmico mi accoglie e un calore mi infonde un piacere mai provato. Faccio qualche rotolamento in avanti ma all’improvviso sento avanzare violenta l’acqua di qualche fiume sotterraneo. Vengo investito, travolto, ma non è acqua, è uno strano liquido biancastro, amarognolo, dall’odore acre e appiccicoso. Dal mio corpo espello a mia volta altro liquido che si mescola a quell’altro e poi vengo scaraventato fuori. Mi ritrovo tra le dita della Roberta, che adesso ad occhi chiusi mi accarezza, mi passa sul suo corpo, mi bacia dolcemente. Sono a casa mia, Roberta è scesa ad aprirmi. Adesso sì che mi sento appagato. Quando ero normale non mi notava adesso … sono strane le donne. Mi lascio un po’ prendere dai pensieri, mi capita a letto, prima di chiudere gli occhi. Normalmente ripercorro la giornata trascorsa, a volte rifletto su cose più profonde. Adesso per esempio la mia nuova condizione mi esalta e devo dire che dei miei mali io non soffro perché sono un guerriero. Sono stati proprio i mali a formarmi la corazza che adesso mi protegge; sono state le batoste della vita, le delusioni, che mi hanno reso forte e coraggioso. E adesso armato come un antico cavaliere vado avanti senza più fermarmi. Non temo niente e nessuno anzi penso che debbano essere gli altri a temermi. Non perché io posso far loro del male fisico, no, ma perché li appesantisco, li schiaccio col peso della mia personalità. Eh sì, sono un uomo dal carattere forte, deciso, a volte rude. Niente e nessuno può sbarrarmi la strada, quando decido una cosa vado avanti imperterrito, costi quel che costi. E costa, indubbiamente. C’è sempre un prezzo da pagare, per tutto. Se vivessi da solo in una città ipotetica agirei senza eccessive conseguenze. Ma vivendo in una città con all’interno una sua comunità, è naturale che le mie mosse coinvolgano direttamente o no altre persone, non vi pare? Comunque vado avanti, imperterrito e il risultato qual è? Che gli altri, i tutti, la gente, la massa, la feccia dell’umanità mi ha ghettizzato, additato, emarginato. Potrei dire di essere quindi il “cavaliere del cazzo”, perché chi devo difendere se non me stesso? Ma essendo un corazzato mi difendo, è sicuro. Sono un solitario o, meglio, un “solo-forfato”. Tutti mi evitano, tutti spariscono al mio apparire. Sulle prime non avevo afferrato il significato delle loro scuse per eclissarsi, non capivo come mai la strada ben presto si svuotava o perché non rispondevano al telefono ma ben presto tutto mi fu chiaro. Per la verità fu la mia compagna che mi spiattellò in faccia le cose come stavano. <> - mi disse - <>. Anche lei mi lasciò appesantendo ancor di più l’isolamento. Non mi rimase altro da fare che adattarmi alla situazione ma senza dare da vedere più di tanto agli altri. Così mi sono “ricostruito” in modo tale da poter fare a meno degli altri, in tutti i sensi. Desidero toccare il cielo con una mano, afferrare le nuvole e giocarci plasmandole. Desidero spaziare nei cieli infiniti, visitare i monti, inoltrarmi negli anfratti, percorrere le distanze nel tempo di un battito di ciglia. Nella forma a palla di gomma posso fare cose prima a me precluse. Posso ad esempio farmi risucchiare dalle eliche degli aeroplani o dei ventilatori o delle navi e farmi girare vorticosamente con quella sensazione bellissima che solo la velocità può dare. Ma non è solo questo il mio nuovo gioco. Adesso mi lascio risucchiare dall’acqua del vaso e comincio a percorrere chilometri e chilometri di fogne dirottando all’improvviso su per tombini che sbucano chissà dove ed è proprio questo il bello, non sapere dove sbuco. L’odore non è dei migliori ma imparo tante cose. Inoltre con questo sistema riesco a conoscere la città per come è strutturata, dalle sue fondamenta, e… dalla sua merda capisco gli abitanti. Sbuco in una piazza della zona portuale e un gruppetto di ragazzini si accorge di me. Subito abbandonano il loro pallone e cominciano a giocare scalciando me. Sulle prime me la prendo ma dopo un paio di palleggi e vedendo il loro gioioso divertimento, mi abbandono anch’io al gioco. In fin dei conti questi ragazzi stanno solo giocando e poi anch’io gioco, anzi ne sono l’artefice, il perno. In lungo e in largo scorrazzo per tutta la piazza, devio, mi arresto, entro in porta. Non gioco passivamente ma mi oriento a secondo di chi tira. Agevolo i componenti della squadra con meno punti, almeno sono più umano. Mi diverto da morire, persino quando mi beccano sul naso, tanto sono come una spugna, assorbo senza traumi. E’ molto bella la sensazione che ho quando fanno un tiro secco perché mi sollevo da terra con molta velocità girando su me stesso e mi investe una notevole quantità di aria fresca che mi giova. Infine anche loro si stancano e mi lasciano sul ciglio del marciapiede. Adesso sono nuovamente solo. Mi srotolo e barcollando riprendo il mio girovagare. Mi ritorna prepotente la voglia di scoprire, eh sì, la mia è una vocazione innata, se no che scopritore sarei? Dunque, vediamo, cosa potrei scoprire? Ecco, voglio scoprire me stesso davanti a uno specchio. Specchiandomi creo un riflesso, che è la mia immagine virtuale. Attraverso il riflesso mi analizzo, mi scopro. Entro dentro un grande negozio di abbigliamento, vado dove c’è uno specchio e comincio l’autoanalisi. Mi osservo davanti, di dietro, di profilo, di tre quarti, non mi vedo male. Naturalmente il volto non è più quello di cinque-dieci anni fa, ma comunque mi ritengo sempre un bell’uomo. Sono sempre stato un uomo pieno di dubbi, lo sono tuttora, è una cosa congenita. L’unica certezza è che prima o poi morirò. Sì, morirò anch’io come altri che mi hanno preceduto e i tanti che mi seguiranno. Moriremo tutti. Soltanto questa è l’autentica certezza dell’uomo. Questa certezza dovrebbe rendermi tranquillo, tanto è destino di tutti. E invece no! Non accetto questa fine perché io non voglio proprio finire. Ma perché dovrò morire? Possibile finisca tutto sottoterra? Possibile non ci sia una continuazione? Questo pensiero nel corso degli anni è diventato un tormento tant’è che non riesco più a gioire. Di cosa dovrei gioire? Di dover un giorno morire? Allora, mi chiedo, vale la pena costruirsi una casa, un lavoro, degli affetti se poi tutto dovrà finire? Non sarebbe più logico lasciarsi andare? Distendersi nel deserto e lasciarsi coprire dalla sabbia? Magari lasciarsi trasportare dall’acqua di mare o calarsi nella bocca di un vulcano che dà segni d’impazienza. Ma l’uomo chissà perché continua la sua vita come se niente fosse, come se quel momento non toccasse mai a lui. E’ proprio questo il problema: non ci pensiamo mai. Soltanto quando qualche persona vicina a noi viene a mancare per qualche ora, giorno, ci rattristiamo ma poi nuovamente ce ne scordiamo. Io però non me ne scordo, anche adesso che sono una palla di gomma e mi diverto. Anzi, ci penso più di prima. Mi chiedo e vi chiedo, ha senso cercare di costruire qualcosa che poi si dovrà lasciare? Si costruisce attraverso sacrifici, ed io dovrei sacrificarmi per costruire qualcosa che poi gli altri si godranno? E ne godranno in parte poiché anche loro dovranno lasciare ad altri. No, non ha senso tutto ciò. Trovatemi un senso, almeno voi “credenti”. Voi che siete sicuri di un’altra vita, a voi mi rivolgo, perché non mi regalate la vostra certezza? Ma non potete! Col pretesto che mi manca la fede sgattaiolate via e io rimango con i miei dubbi. Non mi rimane che non pensarci più e cercare di assaporare il più possibile i piaceri della vita. Godrò del sorso fresco d’acqua di sorgente e del bacio profondo di una bella donna. E’ già mattino, i primi raggi di sole riscaldano il mio volto. Mi risveglio già con il sorriso sulle labbra. Mi sento contento, forse felice. Non capisco cosa stia avvenendo in me, sarà perché ogni alba rappresenta una nuova speranza. Sono contento. Oggi voglio scoprire tante nuove belle cose. Oggi voglio perlustrare zone a me sconosciute, vedere volti nuovi, toccare nuovi oggetti, magari strani, ma antichi. Oggi voglio fare lo scopritore, il mio vecchio mestiere, chissà che non mi imbatta in qualcosa di sorprendente. Esco, saluto la gente che incontro, anche chi non conosco. Buongiorno, e buongiorno. Buongiorno, rispondono, chi sorridendo, chi additandomi, chi sorprendendosi. Una bambina mi chiede del perché la saluto pur non conoscendola. Perché non dovrei salutarla? E’ creatura della terra e la sua strada si incontra con la mia, essa adesso fa parte della mia vita, dei miei conoscenti, anche se magari non la incontrerò più. Ma rimarrà viva nella mia mente, come ogni cosa che incontro, che vedo, e sarà una piccola esperienza costruttiva, necessaria alle mie mosse future. Tante volte guardiamo con noncuranza cose che poi, inaspettatamente, ritornano vive in noi. Anche le cose più insignificanti nascondono aspetti che ci colpiscono, pur non avvedendocene. Il problema è saper ascoltare tutto ciò che vediamo, con la mente, con il cuore. Tutto fa parte di questo macrocosmo come energia, con una propria forza, con una propria volontà. Anche le cose che ci sembrano inanimate hanno una propria carica, le pietre, il vetro, le piante. Probabilmente siamo tutti la stessa cosa, facciamo parte di una stessa sostanza con aspetto esteriore diverso. Con queste convinzioni filosofiche mi avvio per la strada principale, via Roma, dirigendomi verso piazza Don Sturzo e sbucare così in piazza Politeama. E’ tanto che non ci vado ed è sempre piacevole poter ammirare la facciata del grande teatro con le belle statue situate in alto. C’è un gran via vai di gente, i negozi pullulano di clienti, per strada si vedono venditori ambulanti di ventagli, cornici, stampe, accendini. Donne che leccano il cono gelato mi guardano con fare ambiguo, ragazzi galletti inseguono ragazzine promettenti, poliziotti sornioni osservano incuranti e poi, si, la cosa più caratteristica di una Palermo in pieno giorno, voci concitate, grida, rumore di auto, tram, clacson, da morirci. Quasi esausto giungo in piazza Don Sturzo, all’angolo c’è il vecchio caro Bellotti, negozio di articoli di belle arti, poi P.zza Politeama. Qui entro in un bar e ordino un cono gelato. Me lo faccio sistemare nel collo di una bottiglia, così posso leccarlo anche non potendolo tenere. E’ buono questo gelato, Palermo per me è la patria del gelato, e poi ne servono tanto, coni enormi, non gelati striminziti come usano da Firenze in su. Il barista mi dice se è bello vivere nelle mie condizioni, sacrificarsi ogni giorno per tirare avanti senza poi avere nemmeno la possibilità di godersela, la vita. Hai ragione, figliolo, rispondo, ma a me va bene così come mi va, sono pur sempre un uomo che va, che viene, che ragiona. Sono anzi un uomo libero, gli spiego, quindi un uomo vivo, perché un uomo senza libertà è un uomo morto. Io vado dove voglio, saltello, mi infilo nei buchi, non ho da dare spiegazioni a nessuno, cosa mi mancherebbe? Tu invece sei già con un piede nella fossa, devi star qui a servire, non puoi fermarti, non puoi decidere della tua vita, e il giorno dopo ti tocca ritornarci, qui. E non cambierai mai, farai sempre la stessa vita, e sai perché? Non vuoi rischiare e se si vuole qualcosa bisogna rischiare. In fondo la nostra vita è cosa insignificante nella vastità del mondo, una piccola stupida vita, perché allora non rischiare per renderla diversa? Più grande, preziosa, imprevedibile? Il barista mi guarda imbarazzato, del mio discorso ha capito poco, scrolla poi le spalle e va a servire un nuovo cliente. Da Piazza Politeama vado in direzione della via Maqueda, ho intenzione di andare ai Cappuccini, è dai tempi dell’Accademia che non mi ci reco. Quelle ossa, quegli scheletri, mi hanno sempre attirato. Saltello, contento, giulivo come non mai. Chi mi tiene? Nessuno, sono libero come una foglia prima di morire. Forse la mia ora si avvicina, ma non subito, non adesso, almeno credo. Sto bene, non credo mi manchi niente, anzi, mi sento addirittura ricco. Ma non alludo alla ricchezza per la quale tanti uomini sono pronti ad ammazzare perfino il proprio fratello o padre, no, sono ricco perché ho dei valori in cui credo. Vi siete mai chiesti come mai gli uomini di cultura, gli artisti, i poeti, possono vivere anche di stenti senza soffrirne più di tanto? Perché essi vivono per un ideale di bellezza, fatto di poesia, di note, di colori, di forme. Io credo nella bellezza della natura, di ogni singola pianta, di ogni creatura vivente e credo pure nella perfezione delle pietre, dei monti, dell'aria. Credo nella uguaglianza degli uomini, credo bisognerebbe eliminare i prepotenti, i ricchi, tutti gli sfruttatori dei bambini, delle donne, dei popoli. Credo in una società multirazziale, credo alla possibilità di un mondo più giusto e più bello, con più verde e meno cemento. E finché credo vivo, perché vivo credendo e nulla potrà fermarmi. Adesso mentre rotolando vado per la via potrebbero mettermi sotto una macchina, morirei, probabilmente, il mio corpo, non io con le mie utopie, con il mio credo. Continuerei a vivere attraverso le mie azioni, attraverso le mie utopie, acquisite nel corso degli anni attraverso gli oggetti antichi scoperti nelle soffitte. Oggetti disparati carichi di energia che mi hanno infuso alti sentimenti umani, che mi fanno adesso capire come sia tutto labile, tutto di passaggio, che soltanto le idee rimangono perché le trasmetti ai posteri. Il tuo corpo si decompone, viene riassorbito dalla terra ma le tue opere, le tue azioni, le tue idee le trasmetti, le inculchi, le arricchisci con gli altri che a loro volta vi aggiungono le proprie utopie. Così vado avanti, pur senza braccia e senza gambe. Vado sospinto da una forza, da una energia ancora più forte di prima, perché credo ancora di più nelle mie idee, nelle mie convinzioni. E sono un uomo libero di pensare, e questa libertà sarà sempre mia, nessuno potrà mai togliermela. Sono dentro il cimitero dei Cappuccini. Percorro le solitarie vite eterne con un po’ di apprensione, se tutto si esaurisce così è davvero misera, questa nostra esistenza. In ogni cranio, in ogni scheletro ravviso ciò che poteva esser stato da vivo. Così comincio a scoprire volti, fatture, colori, caratteri. Qualcuno mi appare arcigno, altri severo, altri ancora umile. Qualche teschio mi dice egli esser stato un dotto, altri un patrizio. Per lo più gente della Palermo bene, ricchi o monaci, svuotati delle loro viscere e imbalsamati a vantaggio dei posteri. Centinaia di vite passate, tra cui la famosa bambina imbalsamata sottovetro, ancora intatta. Basta, devo andar via e vado. Sull’uscio un monaco mi ferma e mi chiede l’obolo. Che obolo le devo dare, dico, anche sui morti volete guadagnare? Non vi bastano più i vivi? Per secoli avete lucrato, ammazzato e ancora volete spadroneggiare? Il monaco rimane interdetto ma poi decide per un calcio e mi arriva prontamente in faccia. Un dente mi salta, mi fuoriesce un po’ di sangue ma subito dopo la ferita si richiude. Comincio a sciogliermi liquefacendomi sul pavimento fino a diventare una pozza di liquido violaceo. Il monaco scappa a chiamare aiuto. Io vengo assorbito dal pavimento, attraverso le sue screpolature centenarie, fino a sparire. I monaci accorsi non vedono nulla e prendono per pazzo il monaco che, chino a terra, tasta il pavimento per trovarmi. Io sono arrivato sotto il pavimento attraverso le sue crepe sbucando in una cripta con cinque scheletri. Un ghigno amaro sembra disegnarsi nel loro giallo biancore ed io repentinamente continuo a farmi assorbire ancora più giù. Poi mi fermo e decido di procedere in avanti. Lungo il mio cammino soltanto terra, sassi e, si, adesso risalgo. Trovo una conduttura naturale, uno stretto passaggio attraverso i vari strati fino alla crosta terrestre e all’improvviso esco fuori. Un getto improvviso diventa il mio e chi mi vede comincia ad urlare:<>. In effetti sono un liquido nerastro a causa di tutto il percorso sottoterra e sbucando all’improvviso non potevano pensare diversamente. Ma proprio non ci voleva, questi qui possono complicarmi la vita. E me la complicano. Immediatamente arrivano forze dell’ordine, strani personaggi che vengono chiamati ingegneri, vigili del fuoco. Isolano la zona per almeno un chilometro di diametro, innalzano steccati, strani pali. Poi arriva pure una trivella che comincia a sprofondare da dove io esco. Mi procura un po’ di solletico, rido a crepapelle, soprattutto immaginandomi le loro facce appena andrò via. Arrivano dei giornalisti con le telecamere, iniziano una diretta dal titolo: petrolio sotto Palermo. Decido di stare un po’ al giuoco. Una famosa giornalista, Bianca Cordaro, inizia a parlare mentre inquadrano il getto continuo. Signori siciliani, dice, finalmente la Sicilia e con essa i siciliani conosceranno il boom economico che aspettano da tanto. Intervistiamo il Sindaco, bene Signor Sindaco, ci dica cosa vi proponete di fare. Come siciliano dico di essere orgoglioso di amministrare una Palermo che si riscatterà di anni di incuria e di denigrazione razziale. E’ giunto il momento che anche al Nord dovranno portarci maggiore rispetto…adesso non sto più ad ascoltarlo. Questo gioco è diventato fin troppo pesante, non posso illudere più di tanto la mia gente, già provata dalla mafia, dalla burocrazia, dall’incuria. Ricomincio a prendere forma fino ad essere nuovamente testa e busto e con un gran rotolare scappo via lasciando tutti interdetti. Il petrolio, ci mancava solo il petrolio. Però è strano, come è potuto accadere che venissi scambiato per petrolio? Certo da solido sono diventato liquido, il cuore, i polmoni, il cervello, gli occhi, tutti i componenti, insomma, come hanno continuato le loro funzioni? Boh, non so rispondere. Dipenderà tutto dallo spirito forte che mi appartiene, dalla famosa energia che si sprigiona in me. Devo provare ad assumere una nuova forma, chissà che non ci riesca. Mi trovo in Piazza della Vergogna, dei turisti stanno scattando fotografie, vado tra le statue e divento anch’io statua, donna, testa, gambe e braccia. I turisti mi fotografano, dicono che sono la più bella. Avverto una strana sensazione, come di pelle unta, sono bloccato nel marmo ma mi sento vivo. Appena gli stranieri si allontanano riprendo la mia forma a palla e vado via. Nuovamente sento la voglia di vivere, sento il bisogno d’amici, di una compagna e sento pure la voglia di ritornare normale e tornare a scoprire. Prontamente mi dirigo verso la stazione ferroviaria. Mi trasformo in valigia e vengo posto nel vagone merci, sul treno diretto dove risiedono i miei nonni. Appena giunto di volata vado nella vecchia abitazione paterna e ritorno su in soffitta, la stessa soffitta dove sono stato privato degli arti. Per terra ci sono ancora i pezzi di specchio causa delle mie amputazioni. Comincio a perlustrare dentro la cassapanca e vedo un carillon finemente intarsiato con figure in rilievo e volute alla rococò. Apro il coperchio e fuoriesce una piccola giostra con cavalli che comincia a girare e una dolce musica vecchio ritmo inonda la stanza. Sento addosso una grande stanchezza e lentamente mi adagio sul pavimento e mi addormento. Mi risveglio probabilmente dopo un paio d’ore e mi accorgo di avere nuovamente le gambe e le braccia. Il carillon sta ancora lì, con il coperchio chiuso. Guardo e vedo un grande specchio, lo stesso che si era frantumato, integro all’interno della cornice dorata. E’ stato tutto un sogno? La realtà è che lo specchio non è più in frantumi ed io ho i miei arti. Strana è la vita, a volte avvenimenti che credi reali possono soltanto essere dei viaggi fantastici per mondi sconosciuti. Da tutta la vita vado alla ricerca di cose da scoprire e ho scoperto, in effetti, che nulla cambia, tutto è sempre uguale, siamo noi che vediamo in modo diverso. Le cose non ci appaiono a tutti allo stesso modo. Ogni uomo ha una visione diversa. Un po’ come un paesaggio visto attraverso varie altezze di una stessa montagna. Più si sale e più si rimpiccolisce e allarga, diminuendo i particolari ma aumentando la visione globale. Adesso che ho braccia e gambe sono nuovamente un normale ma io non mi ci sento, oramai mi appartiene un’altra condizione. Ho subìto su di me una trasformazione temporanea che mi ha fatto strisciare, percorrere condutture, fogne, crepe di muri. Per un breve periodo sono stato una palla di gomma, deformabile, malleabile, conducibile, duttile…ho potuto essere tutto ciò che volevo. Adesso sono nuovamente come gli altri ma io continuo a sentirmi diverso. Riprendo la mia solita vita, con il solito lavoro di scopritore. Ogni tanto incontro qualcuno che mi chiede notizie di quell’altra condizione, ma oramai me la sono lasciata alle spalle, rispondo.

© Salvatore Romano





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