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Il piano di volo
di Carlo Santulli
Pubblicato su PBSA2008


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Il discorso era venuto fuori una domenica a pranzo, siccome Lorenzo aveva giocato tutta la mattina con un trenino di legno, cosa che secondo i genitori era già arretrata per la sua età. Quattro anni e mezzo, pensate un po'. E Chiara aveva detto, con quella grazia senza sforzo che brillava di piccole frasi, quasi le cadessero da un'invisibile borsa di Mary Poppins: "Sai, papà, che Lorenzo su un treno vero non c'è mai stato? E sì che abitiamo proprio di fronte alla stazione..."
Suo genero aveva mandato nell'etere uno di quegli sbuffi da locomotiva in manovra, sussurrando: "Treno? Che idea!"
Il mondo è bello, perché è vario, e non puoi aspettarti molto da uno che passa la domenica mattina a lustrare il fuoristrada (che fuori dalla strada non c'era mai andato, perché la terra sporcava i paraurti), quella specie di furgone colorato a morte coi finestrini da agguato terroristico. Ma intanto, quella frase di Chiara, e lo sguardo curioso e svelto di Lorenzo, avevano fatto riflettere, o forse sognare Teodoro, che aveva cominciato a cullare qualche breve pensiero. Si poteva fare, Lorenzo lo desiderava: si sarebbe fatto!
E ancora sorrideva nascostamente, mentre il genero gli magnificava i fascioni laterali ed il doppio cruscotto con controllo operazionale totale e più spie di un aereo da caccia: sapeva bene che quelle lucette non si accendono mai quando servono, e che Chiara andava in giro, anche in autostrada, con l'indicazione di freno a mano inserito. Perché era un contatto, e i contatti non si risolvono, a meno di non scollegare e ricollegare una montagna di circuiti integrati o di cambiare una centralina, che veniva da Taiwan. Finché un giorno frisse le gomme come sardine, perché aveva davvero scordato uno scatto del freno a mano inserito, e l'uomo del fuoristrada aveva fatto una scenata, dimenticando che chi aveva detto che i contatti non si aggiustano era stato lui.

Così, il giretto in treno con Lorenzo cominciò ad occupare tutti i pensieri di Teodoro. Occorreva convincere Chiara, e quello era forse possibile, con un discreto marketing: sapeva che gli occhi di sua figlia gli annuivano, anche quando la logica e la politica (nonché le labbra) gli dicevano no.
Perché la passione ferroviaria non la puoi uccidere, farla nascondere sì, come i ghiri quando vanno in letargo, o come i carbonari all'epoca delle cospirazioni. Il mondo parlava di airbag, navigatori satellitari, fari a quattro inclinazioni e TAEG negativo, e Teodoro assentiva compitamente, perché non sta bene contraddire il genere subumano, ma pensava ad altro, altro che spesso andava sui binari e fischiava ai passaggi a livello. Così, presumeva, la passione, anche rintanata e timida, si era trasferita arcanamente da lui a Lorenzo, e l'occupazione, entusiastica e fervida, del bimbo quella mattina lo dimostrava. Per inciso, il trenino gliel'aveva regalato lui a Natale: per qualche tempo Lorenzo aveva fatto un po' di conoscenza con il suo giocattolo, profittando della brutta stagione (che a Roma è relativa, ma Teodoro, da nonno, doveva far finta di darle molto peso). Ora, però, la primavera aveva fatto il suo ingresso trionfale, ed era il momento di passare alla pratica, che era poi quella che Teodoro prediligeva.
Con il marketing, appunto, che è poi quello che anticamente si chiamava buon senso o savoir faire , era riuscito a strappare una piccola ed incerta promessa a Chiara: "Non più di un'ora, papà. Non perché non mi fidi, ma sai, il tuo cuore... Poi non vorrei che camminassi troppo"
L'aggiunta, per quanto breve e leggera, riuscì indigeribile a Teodoro, e un po' dolorosa; gli sembrava di camminare, anzi marciare, meglio che da ragazzo: dosava con più saggezza le forze, sicché non arrivava quasi mai stanco, e men che mai sudato, per quanto il clima perfido, l'ingombro del traffico, e lo smog della metropoli gli consentisse.
"E continui a prendere il caffè del bar, che lascia quel fondo nero, anche se sai che non dovresti": a Teodoro il gusto bruciaticcio eppure piatto del decaffeinato non piaceva, ma disse ugualmente: "Hai ragione", e lei lo guardò per un attimo lunghissimo con quegli occhi chiari, che erano di Lorenzo, ed erano stati anche di Doretta, poi gli schioccò un bacio tra la guancia e il mento sbarbato di fresco, ma già un po' grigio.
Un'ora: non aveva ottenuto di più. Teodoro pensò e ripensò, per far sì che un tempo tanto breve includesse un po' di treno. Le circostanze lo aiutavano: suo genero abitava (immeritatamente) nei pressi della stazione Ostiense; e da Ostiense, volendo, in tre minuti si può arrivare a Trastevere col treno metropolitano, che la mattina del sabato sarebbe stato forse semivuoto. "Non toccare il finestrino: è sporco" gli avrebbe detto, tirando fuori le salviette profumate, ma sarebbe stato contento che si affacciasse un attimo.
Fece un programma di massima, ma dettagliatissimo, un vero piano di volo: uscire di casa alle 9.40 per il treno da Ostiense delle 9.55, con possibile breve visita al padiglione presidenziale (mettendo il naso come due curiosi, uno vecchio e bianco, l'altro piccolo e biondo), arrivo a Trastevere alle 9.58, con gelato (cono piccolo, era solo mattina) ed edicola (giornaletto da colorare a scelta). Riprendere il treno alle 10.36 con arrivo ad Ostiense alle 10.39, e ritorno a casa alle 10.45. Un'ora e cinque, massimo un'ora e dieci, stava nei limiti dell'ansia di Chiara, ed in ogni modo aveva con sé il cellulare. Avrebbe avuto i biglietti in anticipo, solo da timbrare.
Poi ci sarebbe stato il viaggio: tre più tre fanno sei minuti, ma in mezzo ci sono un fiume e duemila anni di storia. Si passa da una stazione-monumento ad una stazione-stazione, talmente diverse che si faticherebbe ad immaginarle nella stessa città. Andata su un lato, quindi via Ostiense con la Piramide in fondo, il cimitero inglese, la cima piana e stempiata di Monte Testaccio con la croce, e il fiume verso la città; ritorno sull'altro, la chiesa con la cupola a zuccotto ed in fondo San Paolo, i vecchi mulini, l'ex saccheria, la centrale elettrica e il gasometro, il ponte di ferro. E ci sarebbero state domande, cui si sarebbe preparato, come ogni guida che si rispetti, scendendo (o chissà, forse salendo) al livello di un bimbo di quattro anni e mezzo. Naturalmente, avrebbe dovuto anche rispondere ad un'interrogazione sul treno, sperando la memoria non lo tradisse: un nonno deve sapere tutto, anche se ha solo un'ora a disposizione.
Tra quella domenica ed il sabato successivo gli accaddero tante cose, molte delle quali dileguarono senza dargli il tempo di prenderne nota: ad un certo punto, nella vita, la memoria diventa selettiva, un setaccio con maglie molto strette e soltanto un forellino più grande, che è dove un po' d'amore passa ancora. Tutti gli eventi che di quella settimana gli rimasero impressi, erano più o meno collegati col viaggio programmato. Andò in stazione a fare i biglietti: recentemente avevano messo delle distributrici automatiche di biglietti, che sono di solito il terrore degli anziani, che vogliono parlare con qualcuno in carne ed ossa, e magari non distratto. A Teodoro invece quei grandi cassoni con lo schermo azzurro illuminato piacevano, ed era disposto anche ad aspettare qualche istante per avere il resto. Quella volta però, ingoiata la banconota con un sgusciante rintocco e sortito il biglietto, la macchina si piantò muta e sorda, poi gli regalò un foglietto, scritto piccolo piccolo: Teodoro si spense gli occhiali sul viso per poterlo leggere, ed occhieggiò, o forse intuì la parola rimborso.
Salì nell'atrio grande coi lampadari a cannolo, e si accostò al finestrino forato. Dietro lo sportello, l'impiegato, con la barba a chiazze disinvolte sulla faccia porosa, non lo guardò neanche: stava parlando col vicino di sportello, momentaneamente inoperoso, di una storia di parate e di rigori, di quella roba che Teodoro, senza capirne nulla, ricollegava al calcio. Lui ricordava vagamente qualche nome di altri tempi, gente come Lovati o Bernardini, che avevano allenato, e dovevano prima ancora essere giocatori. Recentemente, solo quel tipo alto un po' scucchione, che parlava in romanesco, Protti, Cotti, boh... Porse il fogliolino, e quello, sempre senza guardarlo, e girato di tre quarti, gli disse seccamente: "Documento".
Teodoro ci rimase un po' male: poteva darsi che avesse il documento nel portafoglio, anche se non lo entusiasmava la prospettiva di tirarlo fuori, tant'è vero che si era preparato il biglietto rosso in tasca da casa, ed ogni dieci o quindici passi se lo contava con i polpastrelli, piegato in quattro tra le due piccole vele di stoffa. Sussurrò imbarazzato: "E' che ero qui sotto, alla macchinetta, che mi ha dato questo"
"Perché per un rimborso ci vuole sempre il documento"
Teodoro rimase muto per un attimo: tutta la sua fiducia di poco prima si era come spersa. Balbettava.
L'altro si soffiò nelle chiazze nere sul mento: "Vabbé, metta una firma qua sotto allora" e gli porse una penna con le due metà mal avvitate. Teodoro mise una T tremante, e qualche altra cosa, ed ebbe indietro una gragnuola di monetine canterellanti nel piatto girevole di alluminio. L'impiegato tornò a spiegare al collega come l'avrebbe parato lui, quel rigore, che invece era entrato nel sacco di patate, rovinandogli quella giornata: per fortuna, le vacanze erano vicine e purtroppo la fine del campionato. Ma su Sky avrebbero ridato tutti i gol degli ultimi dieci, o forse cinquant'anni.

Però nella piazza, tra le canadesi dei profughi afgani e le promesse senza vento di qualche politico, c'erano gli alberi. Teodoro si stupiva spesso della loro persistenza: intorno a casa sua, aveva contato molte palme, dei limoni, quattro nespoli quasi ai quattro angoli del quartiere, una magnolia dai fiori bianchi, ed estese alberate di tigli e robinie. C'erano poi anche i pini, che erano alberi ideologici, nel senso che dicevano di un'epoca e di un pensiero, e del perpetuarsi un po' criptico di tracce di quel pensiero in un'altra epoca, che era quella in cui lui si trovava a vivere. E dei banani, chissà piovuti da dove, in un cortile appartato davano grappoletti di frutti lunghi sì e no qualche centimetro.
Si riprese, e tornò ad organizzarsi: un'ora e cinque, massimo un'ora e dieci. Duemila anni in un chilometro e mezzo, e due bandiere della pace impilate l'una sull'altra, mai così luminose, sull'ex mattatoio. Era bello invocare la pace, in un luogo dove un tempo le bestie morivano tra angosce che non possiamo neanche immaginare: perché siamo crudeli, in fondo, noi umani. Anche se fingiamo. Anche se abbiamo creato il treno, ed il treno è bello.

Così, il tempo volò fino al sabato, quando il piano di volo, preciso e dettagliato, era ormai completo. Teodoro era pronto a qualunque domanda del nipotino, anche se si sarebbe accontentato di tenerlo per mano e girare un po' per la città: ma lui, Lorenzo, si sarebbe divertito?
Purtroppo il suo telefono era isolato, quella mattina: e non poteva confermare (ma cosa c'era da confermare poi? Non aveva mai mancato un appuntamento in vita sua). Era isolato, perché aveva dato retta a quella signorina gentile, che con grandi discorsi di liberalizzazione ed Unione Europea (anzi UE) gli aveva spiegato che, benché in TV magari dicessero cose diverse, bisognava staccarsi dall'idea del monopolio (che Teodoro ricollegava al sale e, non sapeva più perché, alle banane) e poi anche dall'altra idea dello Stato imprenditore. Teodoro per anni aveva votato liberale, finché esisteva ancora una possibilità del genere, perché era un partito che gli dava l'idea dell'educazione (non della cortesia), della sottigliezza (non del sofisma). Ma era roba vecchia, poi anche quelle idee lì si erano turbate ed increspate, sicché non valeva più la pena parlarne: però liberalizzare era una cosa che gli poteva andare, specialmente proposta da una signorina con buone maniere, seppure solo telefoniche. Per cui aveva avuto la nuova linea, che ora (per la terza volta in un mese) non funzionava: la signorina gli aveva anche promesso un portatile nuovo e gratuito, che non era mai arrivato. Doretta non avrebbe certo approvato tutte queste interruzioni del servizio, men che meno la storia del cordless perso nei meandri dei corrieri nazionali. Ma si sapeva che lui l'oro l'aveva dentro il nome, che non si vedesse, mentre lei ce l'aveva in superficie, e splendeva. Lei certo non avrebbe accettato il genero un po' gradasso col fuoristrada e quattro airbag, come fossero parafulmini: lui invece abbozzava. Però quel giorno finalmente, anche se per solo un'ora e cinque, forse un'ora e dieci... (Certo, poteva fingere un breve ritardo, e prendersi un altro quarto d'ora di viaggio e specialmente di Lorenzo, e magari offrirgli anche qualcos'altro, oltre al gelato: un bigné, un ventaglio? Però...se avesse finto il ritardo, tutti, e l'uomo del fuoristrada in primis, ne avrebbero incolpato le ferrovie, quindi il treno, e questo Teodoro non avrebbe potuto permetterlo).
Sotto il palazzo di Chiara c'era una luce di sole obliquo, che faticava a ritornare: ma era forse perché vi si recava sempre il pomeriggio, o in sogno, e i sogni non sono mai sbiechi. Il portiere aveva lasciato un mucchio di buste in guardiola, e la porta tenuta aperta da una ramazza. Un vecchio malconcio discese dall'ascensore, che sembrò a Teodoro nell'ascesa puzzare vieppiù di fumo e malattia (un pensiero di cui si vergognò molto): cercò di concentrarsi sull'idea del viaggetto e del nipotino, che finalmente avrebbe potuto conoscere un pochino suo nonno. Già le nove e mezza, giusto in tempo...

Suonò a lungo, ma nessuno venne ad aprire. Si socchiuse invece la porta della vicina, che avrà avuto la sua età e gli disse con un certo malgarbo: "Sua figlia è dovuta andar via col bambino, un'idea del marito. Dice anche che ha provato ad avvertirla per tutta la mattina, ma che lei stava sempre al telefono. Anzi" soggiunse dopo un attimo "era davvero preoccupata, povera ragazza". Pensava che forse avrebbe dovuto spiegarle del piano di volo e della signorina della compagnia dei telefoni, e anche che a volte le bandiere della pace sono al posto giusto. Ma era solo una vicina un po' scorbutica, uscita in pantofole e vestaglia un sabato mattina.
Non volle accettare un caffè, che lei senza molta intenzione gli offerse, ricordandosi che gli faceva male al cuore (e forse, ripensandoci, poteva essere vero). La signora in pantofole ebbe uno sguardo un po' incerto: non era tipo da avere in casa l'orzo, e cercava una scusa per richiudere la porta, scusa che le venne dallo squillare insistente del telefono. Da dentro, qualcuno, una voce d'uomo infastidita, gridava. Disse anche una parolaccia, che Teodoro finse di non udire.

Scendendo a piedi i due piani di scale, notò che la luce obliqua stava pian piano tornando più diretta. Non sarebbe stato l'ultimo sabato di primavera.

© Carlo Santulli





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