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Diario dal deserto
di Alessandra Paganardi
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I
Ieri sera, quando sono tornato a casa, Saida mi ha detto che stavolta sarà un maschio.
L’ho trovata particolarmente bella con il velo color verde acqua: lei non lo dichiara, ma in tutti questi anni l’ho vista indossarlo soltanto quando era molto felice. Scherzosamente le dico sempre che con quel velo e quel sorriso rappresenta assai bene il nome che porta(1). Mi risponde pacatamente, senza parole, prolungando il sorriso in un’eco luminosa. In genere parliamo ben poco, io e mia moglie: forse per questo, in trentaquattro anni di conoscenza e ventisei di matrimonio, non abbiamo mai litigato neppure una volta.
Saida mi fu promessa quando aveva otto anni e io sedici. Mio padre aveva acquisito una certa agiatezza con il commercio dei profumi e con le gite dei turisti in cammello: perché qui il deserto sembra di toccarlo, ma a piedi non ci si arriva. Io ero rimasto l’unico figlio maschio. Le mie due sorelle maggiori si sono sposate prima di compiere vent’anni e sono andate a vivere in città, in un quartiere che adesso è pieno di negozi e ristoranti. L’unico fratello, più giovane di me di cinque anni, se l’era appena portato via una febbre cerebrale. Naturale che venisse scelta per me la figlia di un ricco commerciante di semi, tanto più che passava per essere una delle più belle bambine del villaggio. Suo padre non era ambulante, aveva una piccola bottega ben avviata. Sul contratto di fidanzamento scrisse che l’avrebbe venduta e avrebbe dato la metà del ricavato in dote a Saida. Gli acquirenti c’erano già: una coppia di giovani sposi che all’epoca avevano due figli piccoli. Il marito era ambulante, vendeva un po’ di tutto, e la ragazza per il momento doveva occuparsi dei figli; ma aspettava che fossero un po’ cresciuti per poter costruire un’impresa di famiglia insieme con il suo uomo.
La cessione del negozio rese molto bene. Non tutti sono poi così entusiasti all’idea di andare a vivere in città. Dopo otto anni dalla promessa, io e Saida eravamo marito e moglie.
Ho comperato altri dieci cammelli, assunto tre nuovi cammellieri, allargato la fabbrica; ho chiamato un mastro profumiere da Assuan. Le nostre condizioni economiche sono andate sempre migliorando, anche grazie alla parsimonia e alla diligenza di Saida. La nostra casa è diventata un porto di mare. E’ a metà fra abitazione e negozio, una specie di grande salotto per tutti, pieno di profumi esposti ovunque in fiale fantasiose; la gente si siede, si trova a proprio agio e alla fine compera molto volentieri, quasi senza che glielo si chieda. Saida appare di rado, come avvolta da un mistero che non fa male. Stende la stuoia sui tavoli bassi, serve il tè, posa il vassoio con il falafel che ha preparato dietro la tenda, come sa fare lei. Si muove con la delicatezza di un gatto e con la fedeltà di una colomba gentile. I miei genitori, che sono ormai molto anziani, si vedono ancor meno. Ma io capisco che i turisti apprezzano queste presenze silenziose, quasi spettrali: si mostrano e scompaiono, come forme di una bella donna dietro la biancheria ricamata, e sembrano dire che la casa non è di tutti, che è un dono offerto per un’ora o un giorno al ricordo di chi dovrà tornare a casa. Forse la gente non viene qui per me ma per loro, i custodi invisibili.
Io intrattengo le persone, presento loro il mastro profumiere, parlo moltissimo: con le mani, con gli occhi e con l’inglese che sono riuscito a raccogliere in tutti questi anni, spesso dagli stessi turisti. S’impara e s’insegna, si consegna e si prende. Sono piuttosto basso di statura e non molto scuro di carnagione: questo rassicura le persone, mi rende simile ad un piccolo occidentale inoffensivo. Certo non faccio del male a nessuno, ma da quando entrano a quando si siedono ho già calcolato chi sono, da dove vengono, cosa vogliono da me, quanto denaro sono disposti a lasciarmi. Alcuni sono annoiati e hanno voglia di novità, di fare cose che non faranno mai più; altri sembrano portati quasi soltanto ad osservare, a riflettere, al limite a non fare assolutamente nulla. Lo capisco da come muovono gli occhi e soprattutto le mani. Non me l’ha insegnato nessuno, ma ci azzecco sempre. Sto bene attento ad offrire appena un poco di più di ciò che vorrebbero: non di meno, certo, ma neppure in eccesso. Servirebbe soltanto a confonderli e
magari ad irritarli. Alcuni provengono da grandi alberghi del Cairo e sono stupiti dall’agiatezza discreta che si respira qui. Le donne, soprattutto, mi dicono spesso che da me ci si sente in famiglia.
Saida e io abbiamo avuto quattro femmine. Le prime tre sono sposate, l’ultima ha dieci anni ed è entusiasta della nuova nascita. Credo che questo evento l’abbia fatta sentire improvvisamente più grande e più sicura, quasi come se il figlio fosse suo.
Io invece mi sono sentito ancora più piccolo. Per tanti anni, ad ogni gravidanza di mia moglie, ho sperato di non dover mai allevare un figlio maschio. Non posso dirlo a nessuno: nella mia posizione, in particolare, tutti mi prenderebbero per pazzo e nessuno più si fiderebbe di me. In qualunque casa l’erede maschio è un orgoglio per il padre. Ancor meno posso dirne il motivo, che deve restare più segreto del mio disappunto.
Questa notte non ho chiuso occhio. All’alba, al momento della preghiera, ho rischiato di mancarla per lo sfinimento. Allora ho deciso. Mi sono alzato, ho pregato come se niente fosse e poi ho deciso di affidare le mie parole a questo diario. Le pagine non hanno un cuore, è vero, ma in fondo nessuno ha davvero un cuore, quando si tratta di ascoltare ciò che non si accetta e non si vorrebbe mai sentire. E se non riuscirò ad essere un buon padre, dopo la mia morte, forse, qualcuno leggerà e comprenderà; oppure, assai più probabilmente, mi condannerà come ingiusto.

II
Mio figlio non dovrà mai sapere che io sono così. Preferirei che lo sapesse chiunque altro.
Fino a quattordici anni sono andato a scuola nel villaggio. Eravamo soltanto fra ragazzi e passavamo molto tempo all’aria aperta. Sono sempre stato bravo nella corsa e nella lotta e non ho mai avuto paura a salire su un cammello, neppure quando ero molto piccolo. Non avrebbe potuto essere diversamente, con il lavoro di mio padre.
C’erano ragazzi che invece avevano paura di fare molte cose e tutti li deridevano. Dicevano loro che erano femminucce e a volte li facevano piangere. L’ultimo anno, però, qualcosa è cambiato anche in questi timorosi: guardavano le ragazze un po’ più grandi, le servette che passavano svelte come cavalli con il cercine del pane sopra la testa. Loro se ne accorgevano e facevano apposta a passare proprio di lì, anche se allungavano la strada. I miei compagni, anche quelli che erano stati più paurosi, lanciavano loro piccoli sassolini e le chiamavano. Loro fingevano di spaventarsi e di cadere, ma era solo una schermaglia. Il giorno dopo sarebbero ripassate di lì senza il cercine, prima a gruppi di tre o quattro, poi da sole. E prima o poi si sarebbero fermate a parlare.
Io sapevo che sarebbe dovuto accadere anche a me ciò che accadeva ai miei compagni: quel richiamo acerbo, l’odore caldo di una donna, un limo portatore di vita che ti avvolge come una promessa, come una mancanza da colmare. Ma per me le donne erano qualcos’altro: non che ne avessi paura, al contrario. Anzi mi era facile parlare con loro, spesso i compagni mi chiedevano di fare il primo passo. «Hai la parlantina sciolta e ci sai fare», mi dicevano. Può darsi che, per qualche dono di questa nostra bizzarra natura, ci sapessi davvero fare con le donne, come adesso ci so indubbiamente fare con gli ospiti: in fondo è soltanto una questione d’esercizio e di stile. Ma non sentivo la loro mancanza, sentivo soltanto la mia. Non avevo nessun bisogno di loro; niente mi faceva sognare in quelle curve, troppo invadenti anche sotto la galabia lunga e ampia, in quei capelli scuri e segreti, dietro la cortina impenetrabile dei veli. Quello che davvero sognavo, anche se non osavo neppure immaginarlo, era un corpo asciutto, essenziale; era il sudore agro e muschiato delle nostre corse, delle nostre risate senza misteri. Era l’errore impossibile di un altro uguale a me.
I mesi passavano e facevo spesso sogni notturni, sempre interrotti molto presto: prima che potessi vedere, sapere, accettare. Spesso sognavo incontri furtivi con la fornaia, pieni d’eccitazione e di trepidazione: tutti gli umori si mettevano in moto, dalla testa alla schiena il pudore si piegava sotto il giogo del desiderio. Poi, al momento di spogliarla, la donna si trasformava come un serpente nel compagno che le aveva lanciato i sassi il giorno prima. Allora mi svegliavo, ancor prima d’essere certo di aver visto.


III
Saida arrivò molto presto, dopo quel periodo difficile. Non mi creò nessun problema; anzi, con la sua età così acerba, era perfetta per un amore soltanto a parole. Anche più tardi, quando cominciammo a vederci in casa dei suoi genitori, aveva molto pudore e diffondeva attorno a sé una bellezza non invadente, quasi severa. Tutti apprezzavano la mia cortesia e il mio saper fare. Ero davvero il marito ideale per lei.
Fu una buona cosa fidanzarmi così presto perché, dopo un periodo d’apprendistato da mio padre, cominciai subito ad imparare il suo mestiere. Lavoravo moltissimo, giorno e notte, e non pensavo più a nulla se non ad offrire alla mia futura moglie una vita degna di lei, della sua grazia e della sua educazione. Le mie sorelle rimanevano incinte a turno e venivano a trovarci con i nipoti, sempre più rotonde e più morbide. Io scherzavo con tutti, facevo salire i bambini sui cammelli. Mio padre, invece, cominciava ad arrotolarsi su se stesso come un papiro vecchio e mi affidava i lavori più pesanti, che io poi avrei affidato ai cammellieri e ai servi. Era fiero di me, era felice che stessi prendendo il suo posto.
Ho quasi finito per dimenticarmi dei miei sogni. E’ facile: basta viverli come se non appartenessero a noi, ma ad un sognatore qualsiasi. In fondo, chi può affermare che i sogni abbiano un padrone?
Con Saida mi sono trovato bene anche dopo le nozze. Il suo pudore rendeva tutto più facile e dava una parvenza di rispetto al mio disinteresse per lei in quanto donna. Posso dire d’averla capita, non certo d’averla amata: in fondo è molto facile comprendere, e quindi anche rispettare ciò che non si detesta, ma neppure si ama. Chissà che cosa sarebbe accaduto se avessi sfidato tutto, la nostra legge e il mio destino famigliare, per poter avere accanto un uomo. L’avrei certo amato, almeno in qualche momento, e avrei quindi rischiato di rovinare tutto. Prima o poi, uno dei due se ne sarebbe certamente andato.
La mia vita scorreva tranquilla: sognavo un sogno che non era più mio. La nostra famiglia era cresciuta ed era quasi naturale che non toccassi ormai più Saida. Qualche mese fa, però, è successo qualcosa d’imprevedibile.
Nel mese d’aprile è venuta a trovarci una famiglia francese. Ho conosciuto persone di tutti i tipi, ma sono rimasto subito colpito da loro. Dal più grande dei due ragazzi, soprattutto. Poteva sembrare uno di noi, sottile e scuro di carnagione: forse aveva qualche goccia di sangue africano nelle vene. Parlava pochissimo in un inglese perfetto, cosa rara per un ragazzo francese così giovane. Poteva avere al massimo sedici anni: la pubertà alquanto tardiva lo accompagnava senza chiasso, con la dignità di una pianta ad alto fusto, di cui non puoi conquistare l’ultimo ramo. Era molto legato alla madre, non tanto nell’atteggiamento esterno, ma per una somiglianza sorprendente dei tratti, che superando la differenza di genere diventava quasi uno strano sincronismo gestuale. Erano due facce di una moneta e si aveva quasi l’impressione che lo stesso pensiero si fosse incarnato in due menti, o che una specie di calamita animale attirasse entrambi in una sola direzione: non per caso, ma necessariamente. Erano la stessa vita con in mezzo una pausa, una storia.
Per le due ore in cui si sono fermati qui, prima di salutarmi e passare dai cammellieri per il giro turistico, io ho parlato come sempre, ho presentato loro il mastro profumiere, ho sorriso e aspettato il tè di Saida. Ma più i minuti passavano, più sentivo che il sogno spodestato ritornava lentamente mio. Non mi sono mai sentito così sorpreso e così felice. Gli occhi del ragazzo, gli stessi occhi grandi e profondi della madre, esploravano la stanza come se volessero parlare con tutti i custodi vivi e morti della casa, con tutti i fantasmi e le parvenze che apparivano e scomparivano. Non riuscivo a guardarlo e neppure a non guardarlo. Non ho fatto niente d’illecito o di strano, se non forse versargli il tè una volta in più rispetto agli altri, o tacere un istante quando roteava lo sguardo in tondo, come fosse un sole accelerato. Ma qualcosa era cambiato in me. Mi sentivo infinitamente grato ai miei genitori, alle mie figlie, a Saida, per essere stati involontari tutori del mio sogno senza rubarlo.
Ci salutammo tutti. Il ragazzo uscì dopo gli altri membri della famiglia, attardandosi un istante di più per sistemarsi il giubbotto. Io stavo ritornando verso la cucina, ma non potei fare a meno di voltarmi per seguirlo un ultima volta con lo sguardo. Lo vidi aprire la porta e, altrettanto irragionevolmente, volgersi indietro verso di me. Ci siamo guardati per un solo istante, credo di averlo salutato con un gesto goffo della mano, prima che il suo incarnato olivastro tradisse un raro rossore. Poi la porta si è richiusa. Non lo rivedrò mai più. Spero che qualcuno sappia custodire il suo sogno senza impadronirsene, com’è accaduto per me.
Quella notte mi sono avvicinato a Saida dopo molto tempo; abbiamo concepito questo figlio, che ora cresce in lei e che mi fa tanta paura. Ho paura che possa somigliare a me, al ragazzo francese, a tutti coloro che hanno sbagliato sogno. Ho paura di non sapergli insegnare ad essere un vero uomo, io che per tutta la vita sono riuscito a fingerlo così bene.

(1) In arabo “Saida” significa “felice”.

© Alessandra Paganardi





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