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Il tempo di un aperitivo
di Patrizia Di Donato
Pubblicato su SITO


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Il suo aperitivo signora.
Il cameriere abbandona delicatamente la forma sferica del vassoio sul cerchio del tavolinetto. C'è del rispetto in tutto questo, un' armonica deferenza per l'universo. Detesto gli spigoli, le punte acuminate che ti fissano minacciose. L'uomo diventa malvagio quando è accolto da forme aguzze perché è una sua invenzione, e non si fida.
Attendo che il rosso penetri fra le insenature di cristallo. Mi piace vederlo lottare con le iniziali sinuosità del ghiaccio, intimorito dalle vermiglie tinte da vittoria scontata. Questione di attimi. Fra breve cederà alle algide braccia, sfinito come sangue fra le neve.
E a quel punto ne berrò un sorso, assaporando il gusto di un bitter confuso, dilapidato e offeso, proprio come me.
Ha detto signora, il cameriere intendo. Il peso della distanza nella sua minuziosa gestualità. Anni addietro, avrebbe flautato un ciao maldestro, strizzando l'occhio e inciampando sullo zaino firmato da quattro classi del liceo Curie. Oggi no.
Hai detto bene ragazzo, oggi sono una signora.
Un uomo anziano cerca sulla mia faccia un frammento di sguardo assonnato, una visione d'intorno che lo comprenda. Lo ricambio velocemente ubbidiente a un dovere reverenziale che non oso negare. L'umore che vaga dentro i suoi occhi intristisce il piombo del rancore e la memoria riappare nella sua funerea gramaglia.
Bevo un altro sorso insipido e ingoio a fatica.
Spalanco la bocca della borsa acquattata sulle mie gambe e c'infilo la faccia. Lo specchietto caduto in fondo mi rimanda la ruga verticale fra le due sopracciglia. Non ho bisogno di alcun manuale di fisiognomica per decodificare quella falda sulla pelle. Afferro la borsa e la sbatto con violenza sulla sedia accanto alla mia. Ecco, ora è occupata. Una borsa su una sedia è come un sedere, occupa spazio. Non sei mai sola.
Tu verrai.
Infilo gli occhiali da sole. In questa mattinata invernale riesco a simulare la notte, il sonno e le dimenticanze. I rivoli trasparenti scivolano silenziosi. Posso piangere o esplodere in una grassa risata, gli scudi scuri stanno di vedetta sui merli, mi difendono dalle scorrerie barbare.
Dicesti, io ci sarò, in un futuro che non riuscivo a focalizzare tanto mi appariva distante e io rimpicciolivo, ondeggiando sul bastone del sarò,
Io che avvampavo nel tuo sguardo di lava, fra la chiassosa comitiva diretta a Praga.
Scrivevo poesie, seduta sui massi del vecchio porto e la risacca trascinava granchi dalle chele rossastre al suono di orchestre primordiali. Dormi bella della mamma.
Fui più volte redarguita. L'orco cattivo si aggirava fra le vecchie reti stese, con gli strappi da rammendare, memori dell'antica lotta fra l'uomo e il mare.
Ma l'orco cattivo non è così sciocco. E' uno studioso raffinato che investe in conoscenza. E' folle solo nell'estremo tentativo di raggiungere la genialità.
Le bambine alle bambine.
Di che colore erano le caramelline abbicate dentro le tue palme? Verde erbetta, azzurro mare, bianco neve? Che animaletti spuntavano dal tuo cappello da mago?
Il copione stinto e stropicciato vive nelle tue tasche capaci ma il personaggio ormai si è lentamente impadronito dei tuoi occhi, delle tue braccia e dei suoi pensieri, tanto che spesso non sai a chi ubbidire e nel dubbio soccombi alla sceneggiatura.
Io ci sarò, e aggiungesti, per sempre. Mi viene da ridere. Noi che beffeggiamo l'eternità, pensiamo da eterni e non troviamo mai il tempo per morire, avessimo pure cent'anni. Dottore, ho un dolore all'anca, che sarà?
Per sempre. Dovrebbe essere vietato dalla costituzione, dovremmo essere perseguiti legalmente qualora qualcuno ci sorprendesse ad usare questo termine. Imputato si alzi, è vero che il giorno 10 agosto 2000, lei, steso lungo la riva del mare accanto alla qui presente Silvia, si rivolgeva alla suddetta, con la parola "per sempre"? Si, vostro onore, lo dissi. Questa corte la condanna al rogo. Bruci l'eretico e il puzzo nauseabondo ammonisca la valle.
Mi accarezzo la pancia. Il brillante sull'anello, come un inutile faro spento, si aggrappa al filo del maglione di lana.
A un certo punto della corsa, ho ansimato e ho sostato sul ciglio della strada, aggrappata all'insegna Benvenuti a.. Ti è mancato il tempo di decifrare un viso senza trucco, una faccia strana, un malore passeggero. In fondo non potevi ,non eri stato progettato per capire ma per sostituire oggetti anche apparentemente difettosi. O non era tuo padre, sarto, che diceva: datemi una stoffa nuova e vi cucirò tre mantelli ma le giacche logore, vi prego, buttatele via?
A che serviva chiedermi, che ti succede amore mio?
Fu a causa di ciò che ti confezionasti un nuovo mantello, di stoffa fine, fresca d'estate e calda d'inverno?
Sono tornata qui, in questo luogo che ci vide eterni e solleva il cappello all'amore che fu.
Tu dovresti arrivare, come ogni sabato, per il tuo aperitivo, Campari e prosecco. Infatti arrivi. Cingi i fianchi del nuovo cappotto, una splendida ragazza dai lunghi capelli rossi. E' bellissima. Lasci che ti preceda come un vaso cinese, un ballerino di Renoir, un tappeto del Pamir. Ti fa strada, annuncia la tua credibilità. Se sarai brava, metterà la tua testa impagliata a ruggire sul camino.
Vorrei scappare ma non sono qui per questo. Ho una cosa da fare, prima.
Resto girata di schiena. Il grande specchio mi rimanda, perfido, la vostra presenza. La guardi e sorridi. Fra un po' le stringerai il naso fra l'indice e il pollice ,per scaldarla dirai, per sentirti grande è la verità. Lo fai, lei si schermisce.
Ordinate l'aperitivo e sedete al tavolo che da sulla strada, quello per guardare e farsi guardare.
Afferro la borsa e mi alzo lentamente, facendo attenzione al rotondo delle mia pancia.
Infilo la giacca, mi avvicino allo specchio e premo il basco sopra gli indomiti riccioli testardi.
E' giunto il tempo e le cicale cantano.
Sosto un attimo davanti alla porta d'uscita, prendo fiato e mi avvicino al tuo tavolo. Mi riconosci, guardi la mia pancia e farfugli qualcosa. L'attricetta rossiccia non capisce, io e te si però, e questo è ciò che importa. Sfilo l'anello dal dito e lo faccio scendere dentro al tuo aperitivo. Provi ad alzarti ma con una lieve pressione sul braccio, ti costringo a tornare al tuo posto, dove resti immobile scolorando.
Lui ci sarà, ti dico accarezzandomi il grembo, ci sarà per sempre e mi allontano con un sorriso fisso, abbandonando l'inutile fardello rimasto da quel viaggio estenuante. Non era la tua risposta che cercavo, non ne hai più il tempo.
Cammino spedita come se una nuova energia fosse colata dentro le mie giunture. Largo, fate largo, passa il mio re.
Non mi giro ma se lo facessi, ne sono certa, ti vedrei accampare una scusa, abbandonare la nuova pelle e fuggire a nasconderti dentro tua tana, dove trascorrerai quella che ti illudi sia notte. O non è lì che vivono gli orchi ciechi?

Signori..il vostro aperitivo.
Isabel afferra il suo analcolico ai frutti tropicali e mette un'oliva fra le labbra. Sembra un pesce attaccato al vetro dell'acquario.
L'ho vista. Il vecchio specchio Liberty del bar continua a fare il suo dovere. Silvia sedeva, come sempre, sotto il busto di Socrate. Diceva, odora di buono. Ad un certo punto ha infilato la faccia dentro la borsa di jeans, segno che qualcuno la stava osservando con insistenza. E'uno scoiattolo, timido e introverso.
Indossava ancora il basco che le regalai a Praga, il giorno che infreddolì sotto il castello di Karlstein. Dio i suoi capelli di grano che rotolavano lungo i fianchi
Avrà bevuto il solito bitter rosso con la buccia di limone e tre cubetti di ghiaccio. E' un gioco a cui non rinuncia.
Doveva aver pianto, come tutte le volte che indossa gli occhiali da sole dentro ai bar.
Silvia scriveva poesie e me le leggeva seduta sulla sponda del letto. Ogni tanto si fermava e taceva, per vedere se dormivo. Quando la incitavo,e allora?, riprendeva con la voce tremante.
Le ricordo tutte.
Dove andrai Silvia, ora che finalmente non dovrai più infilare i tuoi occhi di luna fra le ciglia morte delle persiane, quando attendevi l'alba dei miei inutili ritorni?
Mi ha sfiorato, la tua pancia tonda, ed io ho finto di reagire. L'ho fatto per te, per darti la gioia dell'umiliazione. Sapevo che non saresti mai tornata indietro.
Mi ha accolto il tuo sguardo ad occhi socchiusi, di chi rifiuta di aprirti il cuore e si limita ad un cenno.
Avrei voluto trattenerti ma sono rimasto dov'ero a vederti rimpicciolire cullando il tuo ventre caldo. Sapevo che un figlio mio ti dormiva in grembo. Le gote spente dentro un pallore livido, il blu che schiariva oltre la tendina scostata del bagno, dove ti dileguavi all'improvviso, senza spiegare.
Stavi male come un cane senza denti. Ho rovistato nella tua borsa e ho trovato la ricevuta del ginecologo. Temevi che ti chiedessi di buttarlo via, quel tuo involucro segreto, maltrattandolo come ho fatto con la tua vita serena. Hai atteso .chiudendo la porta senza far rumore e il tuo corpo di creta si è stagliato sul muro proprio accanto alla luce fioca della mia lampada sempre accesa, quella rossa col buffo sovrano alla toletta.
Hai fatto bene.
Un nome ci spiega, dicevi. Che nome darai a quel nostro figlio bello?
Un giorno gli leggerai una poesia e lui ti amerà. Meglio così.
La tua rabbia di roccia e i miei inutili dossi su cui avrebbe inciampato.
Una fitta leggera attraversa il mio torace. Trattengo il respiro.
Mi alzo dalla sedia del bar. Devo proprio andare, scusami Isabella.
Lei non sa che fare e nel dubbio resta, imitandomi.
Sento di dover correre. Lo faccio.
Devo tornare a casa prima che faccia buio.
Un'altra fitta più forte mi fa piegare. Mi siedo sul marciapiede e premo la mano sul cuore.
Sarà un figlio fortunato. Lo accoglieranno le tue gambe di latte e i tuoi piedi buffi. Sentirà il tuo odore e ti difenderà senza riserve.
L'ultima fitta mi lacera il cuore. Non corra mai, aveva detto il dottore col taschino carico di penne.
Muovo la muleta e fisso il garrese. Uno, cento, mille tori in fila fuori dalla camera di mia madre e la plastilina , bollente e informe fra le mie dita di bimbo ossuto, a scandire un tempo malvagio.
Abbandono la testa contro l'insegna Benvenuti a..
Spalanco le fauci e lascio che la saliva penetri fra le insenature calcaree e finisca sul mio cappotto di vetrina.
I cani cattivi stanno alla catena. E lì resto.
Un'ultima fitta tuona sul mio torace, squarciandolo come un fulmine estivo. E fnalmente rido, felice di tornare a rotolarmi sulla sabbia, col tuo corpo e i tuoi capelli, giusto in tempo per poterti dire, per sempre Silvia, ti amerò per sempre.

© Patrizia Di Donato





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(1) Il tempo di un aperitivo di Patrizia Di Donato - RACCONTO
(2) Lettera a Celeste di Patrizia Di Donato - RACCONTO



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