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Il sogno di Ahmose
di Cinzia Baldini
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Il fiume rapido e silenzioso scivola dolcemente verso il delta, dove, dopo un viaggio infinito, frastagliandosi in vari rami, congiungerà le sue acque a quelle del mare.
Il sole che per tutto il giorno ha dardeggiato implacabile su ogni essere vivente e su ogni cosa inanimata sta scivolando oltre la linea dell’orizzonte sfumando di arabeschi gialli ed arancio il cielo turchese. È primavera, la stagione della semina. La piena del sacro fiume si è ritirata e ben presto lo sbocciare di piccoli germogli gratificherà il faticoso lavoro del vecchio contadino. Egli con il volto annerito dal sole e scavato dal tempo è fermo ad osservare quel miracoloso prodigio che ogni sera si rinnova. E mentre le ombre iniziano ad allungarsi sulla rossa terra d’Egitto, a capo chino innalza una muta preghiera a Ra, l’eterno, fulgente, signore dei cieli. I verdi papiri chinano i flessuosi piccoli fusti al leggero tocco di una mite brezza notturna. La luna, regina del buio, indossa la sua veste regale trapunta di minuscole gocce d’argento e risplende nella notte odorosa di essenze profumate, di mirra, di cedro. Sono le fragranze che si sprigionano dalle preziose mercanzie scaricate dalle navi, nel porto ancora fremente di attività come un alveare ronzante e si spandono verso le povere capanne dell’estrema periferia della città di Tebe.
Gli occhi del giovane sono guizzanti mentre avanza con circospezione tra le canne sull’argine del fiume. Le sue vesti non sono preziose come quelle dei facoltosi mercanti siriani che ha visto aggirarsi nei vicoli alla ricerca di taverne e bordelli. Nè di lino pregiato, come quelle indossate dai ricchi e dai nobili del suo paese, che si sollevano fruscianti ad ogni leggero spirare di vento. I piedi calzati in umili sandali dimostrano con chiarezza le sue modeste origini. Eppure in tanta semplicità c’è una dignità quasi solenne, un portamento fiero ed elegante. Il suo fisico è asciutto e ben sviluppato. I muscoli, sotto la lucida pelle dorata, sono torniti e guizzanti. Essi danno alle movenze di quel giovane corpo un’agilità felina, quando, come ogni sera, al tramonto del sole, avanza verso l’argine del fiume. Qui, nascosto tra i cespugli di acacia e i giunchi ingialliti dove di giorno le lavandaie alzano i loro canti mentre stendono ad asciugare la biancheria appena lavata, con sguardo avido, osserva affascinato le barche attraccare ai grandi moli di pietra. Esse, provenienti da terre lontane, ondeggiando, sembrano dover affondare sotto il peso dell’ingente carico trasportato. Il ragazzo ascolta le varie lingue intrecciarsi in una cacofonia di suoni che la sua giovane mente assetata di conoscenza assorbe con avidità. Prova pena alla vista degli schiavi intenti allo scarico delle stive traboccanti. La loro pelle arsa dal sole è grinzosa e irruvidita e le spalle curvate dal peso di ceste, sacchi e contenitori di ogni tipo e dimensione sono percosse ad ogni minimo indugio dalle verghe delle guardie. Tra un po’, alla fine di una dura ed interminabile giornata di lavoro, potranno tornare nei loro squallidi tuguri di mota, attraversando vicoli sporchi e angusti e strade buie e malfamate ai cui bordi piccoli canali di scolo, vere e proprie latrine a cielo aperto infestano l’aria con i loro fetidi miasmi. Affogheranno lo sfinimento del corpo e la stanchezza della mente in ciotole ricolme di scadente e densa birra amara e placheranno i morsi della fame con un tozzo di pane rancido e una cipolla.
Il giovane sospira. Lui è un uomo libero e la sua esistenza anche se modesta è gratificata dall’affetto dei genitori e dalla presenza di amici devoti. Non gli importa se la sua casa non è circondata da splendidi giardini in cui volano esotici uccelli dalle piume coloratissime o da un laghetto in cui nuotano pesci dalle strane forme e dimensioni. Nè se le serate non sono allietate dalle melodiose voci dei cantori, accompagnati dalle dolci note dei flauti e dai suoni degli strumenti a corda.
Quando ormai il dio Sole sulla sua barca divina è pronto ad oltrepassare i confini del mondo reale, Ahmose avverte in lontananza un fragore improvviso. Il rumore, velocemente si avvicina e rimbomba nelle sue orecchie come un rombo di tuono durante un violento temporale. Un cocchio da guerra con le insegne imperiali sfreccia sulla strada. Alla guida, in tenuta da combattente, c’è il Faraone in persona. Altri carri lo seguono in formazione perfetta, condotti da aurighi orgogliosi e impettiti nelle loro uniformi risplendenti. Costituiscono l’avanguardia delle truppe che, vittoriose, rientrano in città e trasportano l’ingente bottino sottratto al nemico sconfitto. Lasciandosi alle spalle una densa coltre di polvere la sfilata rapidamente, così come era giunta, si allontana. Il giovane Ahmose si avvicina alla strada fissando affascinato i solchi paralleli lasciati dalle ruote. Una chiazza bianca semisommersa dalla sabbia attrae il suo sguardo. È un piccolo oggetto. Il ragazzo si china a raccoglierlo e con stupore si accorge che è la figura, scolpita nell’avorio, di un soldatino della guardia reale. Mentre stringe nel pugno quel dono inaspettato, sussulta accorgendosi che la statuetta è priva di un braccio. Proprio come lui! Lo cerca smuovendo con delicatezza il terreno circostante ma del piccolo arto amputato non vi è traccia. Evidentemente le ruote dei carri lo hanno frantumato, disperdendolo nella sabbia. Il ragazzo alza gli occhi verso il grosso disco solare e commosso ringrazia il dio Ra. “Se questo è il segno della tua volontà” pensa tra sé, “farò di tutto perché il mio sogno di entrare nell’esercito del Faraone si realizzi!”
Il giorno successivo tra lo scherno e la derisione delle guardie in servizio al Palazzo Reale cerca inutilmente di essere ricevuto ed ascoltato dal comandante della guarnigione. Ben presto si accorge, che nessuno in quel luogo è disposto a perdere tempo con uno storpio. Anzi, alcuni graduati lo redarguiscono in malo modo e per farlo allontanare lo minacciano di una severa punizione agitando nell’aria la frusta di comando. Ahmose ne è dispiaciuto, ma la sua tenacia è superiore alla delusione tanto che da quel giorno, ogni pomeriggio, dopo aver terminato di insegnare alla scuola popolare, si ripresenta nell’ampio piazzale ed osserva la vita che si svolge all’interno della caserma.
Il tempo passa. Torna l’autunno e con esso le rondini che intrecciano giocondi voli nel cielo. Una nuova piena colma il letto del fiume e straripando feconda quella terra benedetta da Horus. Nella piazza d’armi, tutti si sono abituati all’assidua presenza di Ahmose e conoscono il suo sogno. Per questo, i soldati della guardia reale, spesso, si rivolgono a lui lasciandogli svolgere piccole mansioni o gli permettono di partecipare alle esercitazioni di combattimento e ad allenarsi alla lotta. Il fisico già atletico del ragazzo è rafforzato dagli estenuanti allenamenti. Ahmose diventa molto forte e spesso nei corpo a corpo anche gli istruttori dimenticano la sua menomazione. Ma, impietose, le leggi ed i vecchi codici parlano chiaro: il requisito per entrare nell’esercito o nella guardia reale è l’integrità fisica. Il giovane lo sa e non vuole rassegnarsi. Ha fiducia, Ra è con lui!
Anche quella sera, come fa sempre prima di coricarsi, tira fuori da una piccola nicchia ricavata da un’asse sconnessa del pavimento la preziosa statuina d’avorio e la osserva al riverbero della luna. Una mossa maldestra la fa scivolare ed il moncherino annaspa inutilmente nell’aria cercando di afferrala al volo. Integra, la piccola immagine rotola ai piedi di Ahmose che avvertendo acuta la disperazione per la sua invalidità afferra in un impeto di scoraggiamento, con l’unica mano, il mozzicone di candela ancora accesa utilizzato per guidare i suoi passi. Vuole scagliarlo lontano ma si scotta le dita al contatto con la cera. Quella sostanza bollente e oleosa, resa molle dal calore, è divenuta docile e malleabile. Assecondando i movimenti della sua mano sembra assorbirne lo sconforto. Affascinato, alla fioca luce della luna, Ahmose la manipola con delicatezza, ricavando da quel contatto quasi un vago senso di piacere. Sfumata la rabbia, plasma tra le dita, con ritrovato entusiasmo figure reali e forme fantastiche. Continua ininterrottamente, finché non si accorge di aver dato a quella materia l’aspetto di una piccola statuina dalle sembianze femminili. Gli sembra una giovane fanciulla in procinto di spiccare un agile balzo mentre il vento scorrendole sulle vesti gliele modella sul corpo ancora acerbo. Il giovane la osserva pensoso e smette di toccarla nel timore che il contatto con la pelle accaldata sciolga quel piccolo capolavoro dove è racchiusa la sua speranza. Dopo qualche tempo l’avvolge nello stesso panno in cui ha raccolto il soldatino d’avorio. Essi, insieme, da questa notte guideranno i suoi passi. Li cela nel piccolo rifugio sotto al pavimento e si sdraia sulla stuoia di canne intrecciate addormentandosi immediatamente.
Il giorno successivo non c’è scuola e lui portando la cesta della spesa accompagna la madre al mercato. Non ci va spesso. Non gli piace essere additato con compassione o sentirsi scrutare come un animale in mostra, ma adora osservare tutto quel brulicare di gente, ascoltare le grida dei mercanti, deliziarsi gli occhi con i gai colori dei banchi delle stoffe provenienti da Biblo e Sidone. Si ferma aspirando gli o-dori delle bancarelle che vendono focacce di miele, datteri canditi, melograni e ogni altro tipo di frutta dolcissima. Ad un certo punto grida di terrore si alzano dalla folla ed il tumulto di una rissa prevale su tutti gli altri suoni attirando la sua attenzione. Le donne urlano fuggendo, gli uomini atterriti cercano di proteggerle o di mettere in salvo i bambini, i venditori ritirano velocemente le mercanzie. Alcuni loschi individui cercano di sopraffare un giovane fanciullo e i due accompagnatori che sono con lui. Nessuno interviene ad aiutarli. Solo Ahmose, senza pensare al rischio che corre, si getta nella mischia e approfittando dell’attimo di sbalordimento che provoca il suo intervento con colpi rapidi e bene assestati mette fuori combattimento due degli aggressori. I rimanenti tre sono troppi per le sue forze e proprio quando pensa di soccombere alla superiorità numerica, gli uomini che erano con il fanciullo si riscuotono ed iniziano una violenta colluttazione. Il delinquente che sembra essere il capo del gruppo, estrae un affilato pugnale e si getta sul bambino. Ahmose con un guizzo improvviso si scaglia su di lui e prendendolo alle spalle afferra la mano armata. Facendo leva con tutto il peso del corpo la tira all’indietro, aiutandosi anche con il braccio mutilato. L’uomo stupito da tanta audacia trasforma il ghigno di scherno apparso sul viso, in una smorfia di dolore. Contorcendosi, si dibatte nel vano tentativo di liberarsi finché non sente il rumore dello schianto secco di un osso che si spezza: quello del suo braccio. Urlando per il dolore e maledicendo il nome degli dei ed il “monco” protetto da essi, viene arrestato dalle guardie accorse nel frattempo. Ahmose in ginocchio cerca con lo sguardo il giovinetto per cui si è battuto, ma del bambino e dei due uomini che lo accompagnavano non c’è traccia…
La madre chinandosi su di lui gli carezza la testa sussurrando commossa e piena d’orgoglio: «Torniamo a casa figlio amato dagli immortali». Mentre benedizioni ed elogi al suo coraggio si levano dalla gente accorsa intorno a loro, il giovane uomo si alza e sorretto dalla donna si avvia.
Ahmose è rimasto tutto il pomeriggio coricato sulla stuoia, piangendo con singhiozzi soffocati la sua sorte e maledicendo il suo destino di “monco”. È svuotato da ogni emozione quando si accorge che il dio Ra, il sole, alzatosi a levante, veleggiando nei cieli, ha raggiunto l’oriente e si appresta a scomparire oltre le colline. Ormai rassegnato, mentre quel lungo giorno sta per cedere il passo alla notte, estrae dal nascondiglio il piccolo tesoro e lo svolge dalle bende. Afferra con delicatezza la statuina di cera ed il soldatino d’avorio e li sistema davanti a se. Li accarezza percorrendone le fattezze con l’indice della mano proprio nel momento in cui il riflesso di bronzo dell’ultimo sole morente incendia il paesaggio e un raggio filtra dalla finestra illuminando quell’angolo della stanza. Nello stesso tempo un calpestio improvviso proviene dalla strada, quindi un rumore di passi si avvicina alla porta della sua casa, infine, qualcuno bussa con insistenza. Segue un parlottare concitato e la voce emozionata del padre lo chiama. Velocemente, Ahmose nasconde il suo tesoro e raggiunge l’uomo. Appena entra nella stanza riconosce i fregi. Quegli uomini fanno parte della guardia personale del Faraone ed essi scorgendolo, in segno di rispetto chinano il capo e tendono la mano all’altezza delle sue ginocchia. Deferenti lo invitano a seguirli: è atteso al Palazzo Reale. Egli è incredulo e vorrebbe chiedere spiegazioni, ma le parole gli restano bloccate in gola. Si avvolge un leggero mantello sulle spalle e si accomoda sulla portantina inviata appositamente per lui e rimasta in attesa sulla strada. In poco tempo i portatori attraversano la città, passando per piccole strade dove nell’aria tiepida della sera si leva l’odore di pesce fritto e di pane appena sfornato e il profumo di cacciagione si accompagna a quello di aromi e spezie sconosciute. Infine raggiungono il grosso viale illuminato dal chiarore delle torce dove sorge il palazzo reale. Il giovane è accolto con inchini e benedizioni dai servi e viene accompagnato da una piccola scorta nella sala del trono. Mentre in un grosso braciere si consuma lentamente l’incenso il Faraone lo accoglie dicendo: «Mi hanno riferito che oggi hai avuto l’ardire di rischiare la tua vita per salvare un fanciullo…» Ahmose, intimorito, annuisce. «Mio figlio!» esclama il re.
Il giovane è allibito, non sapeva che quel bambino fosse l’erede al regno d’Egitto. Confuso, ascolta a fatica il seguito del discorso. «I sicari erano stati inviati da un paese ostile proprio per uccidere la mia discendenza, il sangue divino di Osiride. Il tuo eroico gesto ha salvato il futuro del nostro paese. Ed è per il coraggio che hai dimostrato che, come padre, ti coprirò di magnifici doni. Ma poiché io sono il Faraone e so che hai un desiderio a cui tieni più di ogni cosa preziosa, lo accoglierò quale mia volontà! Ti nomino, da questo momento, comandante della scorta reale.» Quindi agitando il flagello ed il lituo, simboli del suo potere divino, aggiunge rivolto agli scribi: «Così sia scritto, perché cosi Faraone ha parlato!» Il giovane guerriero è emozionato. Scosso da un tremito irrefrenabile, chiude gli occhi per nascondere le lacrime di felicità che si affacciano inopportune alle sue ciglia e mentre nelle sue pupille scorre fugace l’immagine di un riflesso di bronzo che illumina una piccola statuina di cera e un soldatino d’avorio, accetta dalle mani del Faraone le insegne di comando.
Ra, il dio sole, splenderà sul futuro di Ahmose più luminoso che mai.

Questo racconto ha conseguito il premio di Benemerito Culturale Speciale per la Sezione Narrativa alla VII Edizione del Premio Letterario Internazionale “Tra le parole e l’infinito” indetto dall’Associazione Giovanni Spadolini di Caivano (NA)(Ottobre 2006)

© Cinzia Baldini





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