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Il calcio di rigore
di Gianni Caspani
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Come una scheggia Alfonso piantò sul posto due avversari e se la filò verso la porta, con un scatto che entusiasmò il pubblico e lasciò senza fiato i sostenitori della squadra di casa.

Con la forza della disperazione, un difensore recuperò su di lui appena dentro l'area e con un maligno tocco sul piede d'appoggio lo fece volare per terra.

Dalla panchina, il prete-allenatore si alzò con aria desolata.

Se fosse stato solo allenatore avrebbe probabilmente invocato la mamma dell'altissimo in termini assolutamente estranei al messale romano.

"Deve pararlo lei, il rigore, dottore", mi sentii dire, senza realizzare che si stava rivolgendo proprio a me.

"Mi ha sentito? Deve andare in porta a parare quel maledetto rigore. Manca solo mezzo minuto alla fine e dobbiamo tenere il vantaggio. Se pareggiano, nei supplementari è la fine. Ha visto. Sono cotti da venti minuti"

"Ma cosa dice? Sono più di trent'anni che non gioco a calcio. Cosa c'entro io con la partita? Sono qui per vedere giocare mio nipote e mi sento stupido solo a parlare con lei di questa cosa".

"Deve pararlo lei. Non c'è alternativa".

Mi alzai come in sogno dal sedile di pietra su cui mi ero accomodato per assistere a quella partita che si svolgeva su un campo d'oratorio in cui avevo messo piede per la prima volta, senza quasi sapere chi giocava e contro chi e per che cosa.

"Sono anche più di vent'anni che non vado in chiesa...", dissi con squisita incoerenza.

"Le ho chiesto di parare un rigore, non di fare i primi venerdì del mese. Non mi faccia bestemmiare".

Il prete-allenatore mi teneva per un braccio e continuava a bisbigliarmi nell'orecchio: "Sono sicuro che lo parerà".

"Non giocavo qui. Era nel vecchio oratorio..."

"I campi di calcio sono tutti uguali. Le porte hanno la stessa grandezza. Qui c'è anche l'erba e non si pelerà le gambe".

"Ho anche quasi sessant'anni, cazzo".

"Non me ne frega niente. Faccia come le ho detto".

"Ma l'arbitro..."

"Ho diritto ancora a una sostituzione. Non se ne accorgerà neppure".

Mi trovai così tutto vestito tra i pali davanti a un assurdo pallone.

Tolsi gli occhiali e li appoggiai dietro a base del palo, come facevo da ragazzo prima delle partite.

Mi tolsi il giubbetto e lo buttai in fondo alla rete. 

Dal pallone collocato sul dischetto sbocciarono arbusti che a vista d'occhio invasero il campo, come una marea montante che originò in un istante un intricato viluppo di robinie ed erbacce, delimitato da un filare di pioppi piantati contro il muro di cinta che dava sulla strada di dietro.

Di fianco al bosco creatosi si elevavano di nuovo i muri sbreccati della vecchia tessitura, con i lucernari che davano sul tetto su cui correvano le serpentine del vecchio impianto a pioggia che nelle intenzioni di qualche depravato progettista di architettura industriale avrebbero dovuto attenuare l'afa impregnata di polvere di cotone che si appiccicava alla pelle e ai vestiti e, più malignamente, agli alveoli polmonari dei disgraziati messi a sorvegliare il battere continuo dei telai, mentre di fatto contribuiva ad accrescere il tasso di umidità che faceva da collante al pulviscolo nocivo.

In quell'intrico di vegetazione spontanea germinata su un reliquato di terreno compreso nel perimetro dello stabilimento con l'inconscia intenzione da parte dei primitivi padroni di farne regalo a un manipolo di ragazzi che a distanza di decenni si sarebbero trovati ad ambientarvi storie salgariane rivisitate e arricchite dall'apporto di più fantasie, c'era spazio per rovi che offrivano gustose drupe; per radure in cui scavavamo buche armate con assi di legno e coperte da botole camuffate con frasche per custodirvi segreti; per passerelle costruite tra i rami degli alberi nell'intento di trasformare il filare di pioppi negli spalti fortificati di un verde castello.

In un angolo spianato di quelle sterpaglie, recintato di rete metallica, il marito della portinaia aveva ricavato un allevamento di animali da cortile in società con nostro padre che nell'impresa si limitava a conferire capitali lasciando al socio l'incombenza delle operazioni materiali.

I rampolli di quell'industria georgica non trascuravano nelle loro scorrerie l'impresa dei padri, considerata roba da razzia tanto quanto i frutteti dei vicini e il deposito di rottami dello stabilimento, alleggerito da chili di ferro e di rame che venivano rivenduti allo stesso robivecchi, fintamente ignaro della provenienza del rottame.

Se dal pollaio si ricavavano soddisfazioni in termini di uova succhiate quasi in presa diretta dalle ovaiole, instillando dubbi feroci sulla loro efficacia produttiva negli sconcertati allevatori, l'appagamento tratto dalla conigliera era determinato dalla stupefacente cavazione di cacche rotonde, ottenuta mediante compressione delle pance dei conigli, che a volte restavano secchi per l' eccessiva manipolazione volta a stabilire nuovi primati.

Unico deterrente alle scorribande della nostra brigata era un gallo terribile, quintessenza della bellicosità, tanto alto da arrivare alla nostra coscia, assoluto padrone del territorio che impediva a chiunque di avvicinarsi al pollaio, tranne che alla persona addetta al nutrimento, anch'essa accreditata solo dalla sua alta statura e dal minaccioso agitarsi di un bastone, all'atto della prima minaccia accennata dal pennuto.

Aveva un chilo di cresta esibita eretta come un trofeo che rimase per anni nel ripostiglio inconfesso dei miei terrori infantili.

Le nostre incursioni avvenivano con tutte le cautele del caso, prima che la liberazione dal luogo di confino notturno rendesse inaccessibile il recinto, ma una lunga epopea delle nostre avventure dovette fare i conti con quell'animale che talvolta ci si parava davanti in tutto il suo minaccioso trionfo, essendo stata mal chiusa la recinzione del suo territorio.

Ne nascevano corse disperate davanti a quel mostro dalle ali spiegate che ci inseguiva per un breve tratto, sempre sembratoci troppo lungo, per farci la pelle.

Ci rifugiavamo allora nelle nostre capanne nel boschetto o sulle nostre piattaforme aeree e architettavamo piani iperbolici per far fuori quel dannato pennuto, visto che i suoi allevatori erano insensibili alle nostre richieste perentorie di soppressione, nella consapevolezza che quel deterrente agghiacciante avrebbe costituito la sola possibile malleveria per qualche frittata in più.

"Lo sistemiamo una volta per sempre, quel figlio di puttana", mi disse Checo un pomeriggio che aveva trafficato tutto il giorno dentro una capanna con una roncola e mi porse un bastone lungo almeno quattro metri, un'asta diritta ricavata dal fusto di una sottile betulla privato dei rami, del tutto simile a un altro arnese che giaceva ai suoi piedi.

"Con questi, adesso, entriamo nel pollaio e lo pigliamo nel mezzo, quell'animale. Sono così lunghi che non può arrivarci vicino. Gliela facciamo passare la voglia, a quello stronzo".

"Facciamo da soli; non diciamo niente ai nostri fratelli. Si preoccuperebbero e comunque potrebbero esserci d'impaccio".

Entrammo nel recinto mentre il mostro era lontano e ci guardava avvicinare, già pronto all'assalto.

Appena dentro ci separammo, uno da un lato, uno dall'altro, in modo da presidiare comunque una vasta area con i nostri bastoni.

Quando la bestia attaccò lo aspettammo a piè fermo e il nostro comportamento insolito dovette sconvolgere quel cervello di gallina.

Ristette basito, a una distanza mediana dai nostri randelli, giusto quell'attimo che servì alle due stoccate simultanee di coglierlo in una di quelle zampe d'airone su cui ci inseguiva: l'osso cedette e fu fuori gioco per sempre.

"Ringrazia Dio che ti abbiamo lasciato quel cazzaccio da gallo per le tue galline, brutta bestia", disse Checo con disprezzo, uscendo dal recinto.

"Non fare lo spiritoso per niente", ribattei con meno livore, "sarei proprio curioso di sapere come avremmo fatto a strappargli l'arnese. A me basta che non ci rompa più le palle".

"Su questo puoi stare sicuro".

La frattura si rinsaldò da sola col passare del tempo, ma cessarono gli assalti furiosi impediti dalla zoppia e dalla deformazione della zampa, anche se continuò ad abbozzare agguati, ma in un nuovo sistema di equilibrio improntato alla reciproca diffidenza e reverenziale timore.

Quando mio padre decise che, a dodici anni, ero troppo grande per continuare a frullare da mattina a sera dietro fantasie mirabolanti, fortezze arboricole e cacche di coniglio, mi tirò a passare qualche ora nel suo ufficio dove cominciai a smanettare su quelle fantastiche calcolatrici meccaniche, azionate da un cursore e da una manovella che, oltre ad essere un valido supporto strumentale alla classe impiegatizia, costituivano un'eccellente palestra di coordinamento del movimento circolare, orario e antiorario secondo l'occorrenza, del polso destro, con lo spostamento, destrorso e sinistrorso secondo la bisogna, del cursore delle decine, centinaia e migliaia, effettuato con la mano sinistra.

Praticamente uno stage fuori dagli schemi, che mi permise di apprendere la compilazione  dei cedolini delle paghe degli operai e, di conseguenza, l'incongruità dei loro salari; la gestione della sala telai, attraverso le letture giornaliere dei contatori e il calcolo delle rese; il controllo della qualità delle pezze sulla verificatrice; l'apposizione delle marchette settimanali sulle tessere dell'INPS, che sembrava più una raccolta di francobolli che un atto di amministrazione aziendale.

Quell'anomalo apprendistato fu ancora più importante, perché quel contatto con il mondo del lavoro attuato quasi sotto forma di gioco, fu il punto di partenza per l'acquisizione di una cultura di classe, derivante anche dalla scoperta che l'aspetto più inquietante della politica di quell'azienda era rappresentato da un coacervo di istituti paternalistici che, garantendo alle maestranze piccoli benefici extracontrattuali, prevalentemente di modesta entità economica e rigorosamente confinati nella contabilità parallela, mettevano al riparo la proprietà dai conflitti aziendali che cominciavano a interessare le fabbriche nel nord,  investite dalle prime crisi settoriali, dopo gli anni bui dello scelbismo e alla vigilia della stagione delle grandi lotte sindacali.

Sarebbero passati ancora alcuni anni prima che contribuissi a organizzare il primo sciopero, con tanto di volantinaggio in prima persona davanti ai cancelli e conseguenti ostentati malumori familiari, in quella fabbrica che, come sosteneva mio padre, tutto sommato giustamente, consentiva alla nostra famiglia un tenore di vita superiore alla media e una destinazione di cospicue risorse alla elevazione culturale e materiale della prole (questo riguardava me e i miei fratelli) e al cazzeggio intellettuale da apprendista stregone della politica (e questo riguardava me).

Sarebbero passati ancora alcuni anni da quello scontro violento che ebbi con il direttore degli stabilimenti, questa volta con l'esplicita solidarietà da parte del genitore, il giorno in cui il padre di Checo cadde da una scala dubbia all'interno della fabbrica che gli sancì senza appello una claudicazione di cui già soffriva per i postumi di un giovanile incidente di moto.

Mio padre aveva appena finito di dire a mia madre: "Il Carugo è caduto da una scala. Vai giù dalla Rosa, che sta piangendo. Stiamo aspettando la croce rossa. Sembra abbastanza conciato", che io già saltavo giù come un matto dalle scale, gridando: "Andiamo a vedere ‘sta cazzo di scala".

Mia madre disse "Vagli dietro, prima che faccia qualche casino. Io vado dalla Rosa. Speriamo che non sia una cosa grave".

Mi feci indicare da un operaio il luogo dell'incidente ed entrai come un missile nel reparto filatura, andando quasi a sbattere proprio nel direttore degli stabilimenti che stava lì impalato come un pirla a guardare il Carugo che dolorava per terra.

Gli stavano sulle balle i comunisti. Anche se non erano comunisti.

"Cosa vuole lei, qui?", mi apostrofò con scortesia. "Lei qui non può entrare"

"Sono venuto a guardare addosso a una scala" e fissai con ostentazione la base del tetto a cui poggiava una scala non propriamente in regola con le norme antinfortunistiche.

"Magari alla fine gli elargirete, nella vostra magnanimità aziendale, una gratifica cinquantamila lire perché non rompa i coglioni", dissi dopo la sommaria ispezione.

"Lei qui non può entrare", ribadì insistente.

"Sono già entrato"

"Lei qui non può entrare", riprese il disco rotto.

"Non c'è problema. Me ne vado subito. E torno altrettanto subito con un ispettore del lavoro che darà alla scala un'occhiata ancora più esperta ed efficace".

"Ma senta..."

"Non c'è problema", e feci per andarmene.

"Senta". Mi fermò, mettendomi una mano su una spalla.

"Tenga giù quelle zampe da padrone", gli dissi con violenza,

"sto solo facendo quello che mi ha detto lei: me ne vado. Ma poi la facciamo finita una volta per tutte con queste minchiate di fabbriche d'invalidi in serie".

"Sta calmo. Adesso l'importante é assistere il Carugo", mi disse mio padre. "E smetta anche lei di fare polemica: quella è proprio una scala di merda", concluse rivolto al collega.

Prima di quelle esternazioni di impegno politico, era più evidente, però, l'influenza che ebbe la sala telai su quella che può definirsi la mia evoluzione sentimentale, cominciata con la scoperta dei giochi erotici da povera gente che vivacizzava alcuni anfratti reconditi della fabbrica, che potevano essere il ripostiglio fuori mano o, più precariamente, l'angusto spazio tra un muro e una montagna di subbi o di colli, proseguita con seghe copiose negli anfratti del nostro boschetto, fantasticando alcune anatomie intraviste tra i telai durante le letture, finita con  pomiciate con qualcuna delle operaie più giovani dietro il muro della fabbrica, all'uscita serale, celati dalle prime brume autunnali.

Particolarmente apprezzabile, ai miei occhi di ragazzo ansioso d'apprendere, era il gioco di perversa fantasia di quel porcone del Luigi Brusa, manutentore di macchine tessili nei giorni feriali e reggitore di baldacchini mobili, candelabri e orpelli votivi durante le processioni festive, in abito da confraternita, con tanto di cotta, mantellina blu e sacro cuore di Gesù in latta argentata che gli ballonzolava sul petto ad ogni passo.

Quando lo vedevo trafficare prima di uscire dallo spogliatoio intorno alla tasca della tuta con la lametta da barba, sapevo che aveva individuato la nuova vittima del suo scherzo lubrico preferito, generalmente l'ultima ragazzina assunta, che le compagne non avevano ancora messo in guardia dalle veniali insidie dell'attempato satiro.

Lo tallonavo allora per godermi lo spettacolo.

Alla prima richiesta di intervento sulla macchina tessile, mentre fingeva di arrabattarsi con entrambe le mani occupate, chiedeva alla vittima di turno di cercargli il fazzoletto nella tasca della tuta e la ragazza si trovava immancabilmente tra le dita l'affare turgido del Luigi sbucato attraverso il sapiente taglio preordinato nello spogliatoio.

L'imbarazzo e il grido della ragazza e gli improperi di solidarietà delle altre donne lo ripagavano con gli interessi delle tartufesche querimonie della consorte all'atto del rammendo della tasca della tuta, delle cui finalità era ormai al corrente.

L'intricato viluppo originatosi dal pallone che aveva incartato l'ambiente circostante in un involucro immateriale che aveva agito da condensatore di esperienze già vissute in quei luoghi in tempi ormai persi e magicamente evocati, fu risucchiato in un infinitesimo attimo nella sfera da cui era gemmato, proprio mentre un piede la scagliava verso la porta e io volavo d'istinto sulla mia destra a smanacciarla  lontano.

© Gianni Caspani





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