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La città sul confine del tempo
di Marco R. Capelli
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L’uomo vestito di nero si appoggiò ad un muro che ancora si ostinava a trattenere il calore del giorno trascorso e sollevò il collo della giacca leggera. Un vento freddo e costante soffiava ora dal deserto al mare, trasportando lontano finissime sabbie rosate.
Socchiuse gli occhi scuri e lunghe rughe sottili si disegnarono sul volto bruciato dal sole. Il luogo gli era sconosciuto, eppure, non avrebbe saputo spiegarsi per quale motivo, famigliare.
Non riusciva a ricordare come vi fosse arrivato, ma, in verità, non gli importava.

Lentamente riprese a camminare lungo lo stretto vicolo. Oltre i muri che lo circondavano, fra alti palmizi incurvati dagli anni e padiglioni crollati, dormivano i resti di antichi giardini. In singolare contrasto le case di pietra gialla, con le loro finestre ad arco moresco ed i tetti piatti, sembravano essere state risparmiate dal tempo, ma nessun bambino giocava sotto i solitari androni e solo il vento muoveva le loro porte scolpite. Ovunque, l’unico rumore era quello del vento che sussurrava attraversando le finestre spalancate e scuoteva le larghe foglie dei datteri.
Non una voce d’uomo, non un pianto di fanciullo, né un sospiro d’innamorati.
Solo quel suono doloroso, un odore secco e penetrante di polvere e mare ed il ritmico battere dei suoi passi sui ciottoli.

Motivi geometrici ripetuti all’infinito lo circondavano, rincorrendosi sulle facciate, incorniciando volti e portoni, sottolineando le ardite geometrie di torri e minareti crollati. Sempre uguali e sempre sottilmente diversi, gli affreschi sbiaditi catturavano lo sguardo dell’uomo. Pensieri alieni ed indefiniti gli danzavano dolcemente nella mente, fondendosi gli uni agli altri in morbide volute di puro colore. Improvvisamente, con un’ultima secca svolta il vicolo finì e con esso la lunga teoria di dipinti. Un'alta torre sbarrava ora la strada e sotto di essa si apriva un volto attraverso il quale filtrava un raggio di sole. All’uomo vestito di nero sembrò di risvegliarsi da qualcosa di simile ad un lungo sogno.

Rialzò la testa, chinata per attraversare l’angusto passaggio, e si trovò in una piccola piazza semicircolare, dilatato incrocio di viuzze strette e deserte su cui si affacciavano alte case dal tetto piatto e piccole finestre oscure ed allungate. Nel centro approssimativo di quello spazio angusto stava un abbeveratoio grezzamente scolpito in un unico blocco di pietra grigiastra. Alla vasca era avvinghiato un mostruoso essere di marmo dalla cui bocca spalancata stillava, goccia a goccia, limpida acqua di fonte. L’essere, i cui lineamenti levigati dai secoli dovevano essere stati un tempo quelli di un angelo o di un demone, era stato scolpito dal suo dimenticato creatore nell’atto di compiere un titanico sforzo. L’uomo vestito di nero osservò i muscoli spaventosamente tesi ed i tendini delle spalle e del collo eternamente sul punto di spezzarsi, ma non riuscì a capire se la strana creatura stesse cercando di fare a pezzi la pietra cui si afferrava o piuttosto di svellerla dalla sua pesante base per gettarla lontano.
Si sedette sul bordo della fontana. Qui, restò per lungo tempo in silenzio ad ascoltare il pigro gorgogliare dell’acqua. Poi allungò la mano verso il solco nero che quell’eterno fluire aveva scavato nella viva pietra. Fu con dolore che si ritrasse da quel tocco gelido.

Un suono, simile ad un lieve sospiro, lo carezzò dolcemente. L’uomo si volse per vedere da dove provenisse e s’accorse, senza stupore, di non essere più solo. Dall’alto dei cornicioni istoriati lo fissavano, con poveri occhi corrosi dal tempo, lunghe teorie di statue bianche. Una grande pietà lo colse allora per quegli strani guardiani, immobili, costretti a contemplare con orbite vuote le vie silenziose, i poveri bazar polverosi, l’eterno, inutile, ripetersi di giorni e stagioni. Fino al momento in cui sarebbero diventati anch’essi polvere nella polvere.

Guardò verso il cielo, limpido azzurro che già, ad Oriente, cedeva alle tenebre.
Non un uccello, non una nuvola.
Di fronte a lui i riflessi sanguigni del sole ormai basso disegnavano contro il cielo la sagoma, altissima e lontana, di un minareto.

Si alzò di scatto e riprese a camminare, sempre più velocemente, poi a correre, attraversando le corti abbandonate, perdendosi fra le rovine ed i giardini.
Sapeva di dover arrivare prima che il giorno morisse.

L’uomo vestito di nero ansimava quando raggiunse la porta divelta della sottile torre, ed il cielo era sempre più scuro.
Le scale all’interno salivano senza che se ne potesse vedere la fine, avvitandosi nel vuoto verso il cielo lontano. Gli scalini di legno odoravano di antichi ricordi e l’eco di voci perdute sibilava tra le tavole sconnesse. Più forte ad ogni passo lo poteva udire, così che gli pareva talvolta di distinguere parole, parole antiche, d’amore e di morte. E poi grida, grida altissime, che più saliva e più si facevano cupe e rabbiose e lo assalivano da ogni direzione, facendolo vacillare e spingendolo verso il vuoto. Ma l’uomo vestito di nero continuò a salire. Passo dopo passo, stringendo gli occhi e strisciando contro la ruvida roccia, chinando il capo ed incespicando sulle tavole sconnesse. Continuò a salire, sempre più in alto. Fino a che tutto non fu solo un boato assordante.

Quando si appoggiò al basso muro sbrecciato che cingeva la sommità della torre, il respiro stentava ad uscire ed il suo magro corpo sudato tremava violentemente, scosso dal freddo vento del deserto.

Sotto di lui si stendeva la città, enorme ed immobile. Tutte le case di pietra gialla, i riflessi rossi della sera e le ombre nere che si allungavano lentamente.
Ad Oriente, là dove cominciava la notte, l’Oceano infinito, oscuro e schiumoso, si andava ricoprendo di nebbie dense e misteriose. Ad Occidente vide le mura crollate e già ricoperte dalle sabbie sottili. Più oltre il deserto, distesa ferma e screziata di lucide ombre, sfumava attraverso infiniti colori dal rosa al rosso di sangue dell’orizzonte, là dove il giorno moriva sotto un cielo cremisi.

Fino a dove poteva spingere lo sguardo, non un segno di vita. Non un fumo lontano, non un cormorano affamato, non un falco appostato in agguato, solo quel cielo infuocato ed il mare tenebroso, solo l’immenso deserto.
Non gli riusciva neppure di respirare davanti a tutto quel nulla, ma sapeva, ora sapeva, che nulla di ciò che aveva davanti era reale.

L’uomo vestito di nero si guardò le mani, belle mani, forti di nervi e tendini guizzanti sotto la pelle scura, e quasi non riuscì a credere di essere soltanto un sogno, il piccolo sogno di un piccolo uomo addormentato, destinato a svanire con la prima luce dell’alba.

Tuttavia la cosa parve divertirlo, si raddrizzò ignorando il soffio gelido e sibilante del vento, guardò ancora una volta la linea dorata dell’Orizzonte ed un breve sorriso si disegnò sul volto duro, per un istante. O forse, fu solo un’ultima ombra scolpita dal sole morente.

Poi venne la notte.

© Marco R. Capelli





Recensioni ed articoli relativi a Marco R. Capelli

(0) Con la "de palo" di Fernando Sorrentino trad.di Marco R. Capelli - TRADUZIONE
(1) Un campionato incompiuto di Fernando Sorrentino trad.di Marco R. Capelli - TRADUZIONE
(2) Barman Adgur di Fazil Iskander trad.di Aldona Palys - TRADUZIONE
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