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Il quaderno nero
di Massimo Burioni
Pubblicato su SITO


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Non so perché ho preso quel quaderno nero un attimo prima di lasciare la stanza. Forse perché non l'avevo mai visto prima. Oppure perché gli occhi ancora aperti di Tosca sembravano fissare proprio quel quaderno nero posato sul suo comodino. Anche se ovviamente non potevano vedere più niente. E’ stato un gesto automatico, il mio, fatto senza pensare, così, come se ne fanno tanti durante il giorno, e poi si dimenticano, perché sono gesti senza importanza, senza conseguenze. Ma l’avere preso quello stupido quaderno dalla copertina nera ed averlo ficcato dentro il tascapane, insieme a quei quattro stracci che mi ero riportato dalla Maremma, ha cambiato molte cose. Almeno per me. Ma di questo mi sono reso conto solo adesso. Per lei, invece, nulla cambierà più. Perché dopo la morte niente può più cambiare. Purtroppo.

Tosca era bella. Quando la vidi la prima volta rideva con una sua amica, mentre camminavano lentamente lungo la salita che portava al romitorio. Scarpe lucide col tacco, sottane al ginocchio e camicie a fiori. Le larghe cinture strette in vita facevano dei loro corpi due perfette clessidre in movimento. Da sotto i cappelli a falda larga cadevano ciocche ondulate di lunghi capelli neri che si espandevano a coprire le spalle. Le due ragazze si muovevano con naturalezza in quei vestiti eleganti, ed era impossibile non notarle in mezzo alla folla di contadini e contadine che, a disagio nei loro vestiti da festa, salivano da tutti i paesi delle vallate circostanti verso l’eremo di Sant’Alberico. Fu dopo il nostro primo incontro, in quel caldo giorno di fine agosto di parecchi anni fa, che Tosca iniziò a scrivere sul quaderno dalla copertina nera.

“Oggi alla festa di S. Alberico ho conosciuto un ragazzo bellissimo, assomiglia ad Amedeo Nazzari, ma più bello…”.

Poi scrisse ancora, a cadenza irregolare e con poche, brevi frasi, scritte con inchiostri diversi, con penne diverse, e anche a matita. Frasi come schizzi di colore gettati sulla tela apparentemente senza una trama, senza uno schema. Ma a guardare bene il filo conduttore c’è, a tenere insieme quei pensieri, che a prima vista sembrano casuali. A dettare i tempi e dare un senso a quegli abbozzi di quadro c’è un nome: Otello. In tutte le pagine c’è il mio nome. E in ogni pagina più di una volta, perché spesso nello spazio di un foglio ci sono pensieri nati in giorni, settimane e anche mesi diversi. Non scriveva tutti i giorni, Tosca, solamente quando succedeva qualcosa che secondo lei meritava veramente di essere ricordata. In quegli schizzi di vita sono pennellati sentimenti diversi e contrastanti tra loro: dubbio, incertezza, amore, rabbia, felicità, gratitudine, tristezza, euforia…

Tosca conosceva bene il volto di Amedeo Nazzari. Era stata a Firenze per diversi anni, a fare la cameriera in casa di un medico, e la sera del giorno libero era solita andare al cinematografo con un’amica. Preferiva i film romantici, ma le piacevano anche quelli dove c’era un po’ d’azione, perché era attratta anche dagli uomini risoluti e leali, capaci di menare le mani per difendere la loro donna.

“Ieri sera al dopolavoro Otello si è azzuffato con il suo amico Romolo perché mi aveva toccato il sedere. Povero Romolo, aveva bevuto troppo e gli è scivolata una mano, ma penso che la reazione di Otello gli abbia fatto capire che lo scemo con una ragazza fidanzata, non si deve fare. Con Otello mi sento al sicuro…”.

Io al cinema c’ero stato solo una volta, da piccolo. Avrò avuto sì e no otto anni, quando l’avvocato Ciocchi, un appassionato cacciatore di Rimini, che tutti gli anni veniva a sparare ai colombi di passo, i migratori, e alloggiava a casa nostra, riuscì a convincere il babbo e mi portò in città per qualche giorno. Fu una bella avventura, quella. Ancora me la ricordo come fosse oggi. Il viaggio in macchina: i miei amici che mi guardarono partire con un misto di invidia e di timore, perché a quei tempi, nessuno di noi c’era mai entrato, dentro una macchina. La città, spaventosa, con tutta quella gente, tutte quelle case e gli alti palazzi che riducevano il cielo a strisce di grigio sopra le strade. Il mare, enorme e di un minaccioso colore grigioverde. Sembrava fermo, ma se guardavi bene respirava, si muoveva, faceva paura; mai più vista tanta acqua in una sola volta. E io che credevo fosse grande il Pantano dello Zoppo, sotto la Falera, perché ci si poteva anche annegare. Il cinematografo, invece, non mi impressionò; vedere quelle immagini al buio mi annoiava e mi addormentai diverse volte, sempre svegliato dalle gomitate dell’avvocato che sottolineavano, secondo lui, le scene più belle del film. Ma la cosa più bella che vidi a Rimini fu una fontana, una grande vasca con al centro quattro enormi cavalli di bronzo. Noi non avevamo cavalli nella fattoria del babbo, solo mucche, pecore e un asino. A me sono sempre piaciuti gli animali, ma i cavalli erano in assoluto i miei preferiti, forse perché noi non ne possedevamo. E quelli della fontana erano bellissimi. L’ultimo giorno, quando l’avvocato Ciocchi mi chiese cosa avrei voluto fare prima di ripartire, io gli chiesi di andare a vedere la fontana dei cavalli. Lui mi guardò un po’ sorpreso, ma per fortuna mi ci portò; così potei osservarli da tutti i lati, girando intorno alla grande vasca col naso all’insù, fino all’ora di prendere la corriera che mi riportò al paese.

Non sono più stato a Rimini da allora; non ho più rivisto il mare, e nemmeno cavalli belli come quelli nella fontana. E visto come stanno le cose, penso proprio che non li rivedrò più.

Anche a Tosca piacevano gli animali, ma non i montoni, perché una volta, quando era ragazzina, aveva subìto l’assalto di un montone che l’aveva ripetutamente colpita e fatta cadere a colpi di testate. Da allora, ogni volta che vedeva un gregge veniva presa da una paura paralizzante e si bloccava dovunque si trovasse, fino a quando il branco di pecore passava oltre. Io la prendevo in giro per quella sua reazione e la canzonavo. Lei si arrabbiava, ma poi l’abbracciavo stretta, la baciavo e lei mi perdonava, ma solo dopo avere tenuto un po’ di finto broncio che la rendeva ancora più bella e desiderabile.

“Mi piace quando Otello mi prende in giro, perché in quei momenti lascia uscire il bambino che nasconde dentro di sé. Altrimenti è sempre serio e si atteggia a grande lavoratore che non ha tempo per le sciocchezze da ragazzi, con le bestie da governare, gli attrezzi da riparare, i campi da arare…”.

Non le ho mai detto “ti amo”, perché non è da uomini, ma adesso posso dirlo che l’ho amata davvero. Tanto. Troppo. Forse, se l’avessi amata di meno, ma glielo avessi detto ogni tanto, adesso sarebbe ancora viva. Ma la vita a volte gioca brutti scherzi, e ti fa sembrare le cose diverse da come sono veramente. E la lente della lontananza distorce ancora di più la realtà delle cose.

La terra dei campi delle Balze, come quella di tutti i posti di montagna, in inverno va in letargo, allora i contadini, che non riescono a concepire periodi di riposo più lunghi delle sette-otto ore di sonno notturno, si danno da fare per raggranellare qualche soldo in più. Anche nel nostro podere, in inverno non c'era lavoro, e quindi il babbo decideva chi dei fratelli doveva rimanere a seguire il bestiame e chi invece doveva partire per la Maremma. Io ero uno dei più robusti, e quindi mi toccava sempre la Maremma. In Maremma si andava a fare i boscaioli a cottimo, un tanto al metro. Più tagliavi, più guadagnavi. Ma abbattere alberi a colpi di scure è una fatica bestia, anche per un giovanotto in ottima forma, e queste partenze forzate non mi andavano giù. A peggiorare la situazione c’era anche la gelosia, perché da quando mi ero fidanzato con Tosca, lasciarla per più di tre mesi non mi faceva stare tranquillo.

“Oggi Otello è partito per la Maremma e fino a febbraio non lo rivedrò più. E neanche quest’anno riceverò lettere da lui, perché non mi scrive mai. Dice che nella capanna di legno dove stanno non hanno nemmeno un posto per tenere la carta, né un tavolo su cui scrivere. Per me sono solo scuse. La verità è che non gli passa neanche per la testa di scrivermi. Da quando siamo fidanzati, questo è il terzo inverno di fila che parte con i tagliatori, ma spero che quando saremo sposati non dovrà più lasciarmi per periodi così lunghi. Lui dice che laggiù si lavora e basta, ma io so che il sabato sera vanno sempre a ballare, e un bel giovanotto come Otello…”.

Dopo una settimana di alberi abbattuti a sudore e bestemmie, ci facevamo un bel bagno con l'acqua fredda del fosso, tiravamo fuori dal tascapane la camicia bianca e andavamo a ballare a Manciano. A me non è che ballare interessasse un granché, ma gli altri andavano tutti e così andavo anch'io. E poi vedere cose diverse da tronchi e ramicci mi faceva comunque bene. Spesso nella balera dove andavamo si scatenavano delle risse con i giovani del posto, per via delle ragazze, ma io cercavo sempre di tenermi fuori da certe situazioni. Da quando ero fidanzato con Tosca, le altre donne per me non esistevano. Ogni tanto ballavo anche io, o facevo quattro chiacchiere con qualche ragazza, ma poi tutto finiva lì. I miei amici mi coglionavano per quel mio modo di fare riservato. Mi dicevano cose del tipo "…quella biondina te la sta mettendo nel piatto e tu neanche l'assaggi, non avrai mica cambiato gusti, eh Otello?", ma io ci ridevo sopra e lasciavo perdere. Non avrei mai tradito la fiducia di Tosca. E speravo che anche lei facesse lo stesso. Io lo speravo davvero.

“Ieri io e Otello siamo diventati marito e moglie! Dopo più di sei anni di fidanzamento, ci siamo finalmente decisi a mettere su famiglia per conto nostro. Oddio, proprio per conto nostro no, perché dobbiamo vivere insieme ai suoi genitori (e a due dei fratelli di Otello), ma almeno abbiamo una camera da letto solo per noi, e non è poco.  Io non ne potevo proprio più di fare l’amore dove capitava, spesso in mezzo alle bestie, come le bestie…”.

Dopo qualche anno di fidanzamento, tra alti e bassi come in tutti i fidanzamenti, ci decidemmo a sposarci. Fu una bella cerimonia, ma senza scialo, perché non è che le nostre famiglie navigassero nell’abbondanza, anzi. Però non ci fecero mancare un bel pranzo di tre portate con carne di agnello e patate di nostra produzione. Quasi tutto il paese era presente con almeno un invitato a famiglia. Poi si ballò da Cortesi fino all’alba, con vino offerto dalla mamma di Tosca, che aveva una rivendita di olio e vino nel vicino paese di Senatello. Tosca quel giorno era raggiante e lo rimase fino all’alba, nonostante sapesse che avremmo dovuto vivere nel podere insieme ai vecchi, e con l’aggiunta dei miei due fratelli più giovani, che ancora non avevano trovato moglie.

La vita da sposato per me non era molto diversa da prima; lavoravo tutto il giorno, o nei campi o nelle stalle, poi rientravo a casa per i pasti e per dormire. L’unico vero cambiamento era che adesso facevamo l’amore in una camera tutta per noi, mentre prima lo facevamo dove capitava; nel granaio, nei fienili, nei campi, dentro una mangiatoia, a seconda dell’occasione. Non era comodo come sopra un letto a due piazze, devo ammetterlo, ma spesso si rivelava più divertente ed eccitante, con la paura di essere sorpresi o spiati da qualcuno, oppure sotto lo sguardo vuoto e disinteressato delle mucche, che in inverno ruminavano tranquille dentro la stalla.

Certo, qualche volta capitava ancora di farlo in situazioni strane, ma col tempo succedeva sempre più di rado, finché finimmo per abituarci alla cadenza settimanale nella nostra camera da letto, facendo attenzione a non fare troppo rumore, ché i pavimenti di tavolato, insieme agli spifferi d'aria, lasciavano filtrare anche gemiti e sospiri.

“Qualche tempo fa ho detto a Otello che vorrei un bambino, e lui non mi ha detto niente, subito. Ma dopo un po’ mi ha baciata, e con un gran sorriso ha detto che lo avrebbe voluto anche lui. Così adesso, ogni volta che finiamo di fare l’amore, mi sembra di essere già in tre…”.

Mi sarebbe piaciuto davvero avere un figlio. Anche tre o quattro, perché, quando si è contadini, per mantenere bene podere e bestie serve una famiglia numerosa. Ma il destino ha voluto altrimenti. O almeno, me lo ha fatto credere, di volere altrimenti, e io ci sono cascato in pieno, come l’ultimo dei coglioni.

Il fatto è che anche da sposato, in inverno, continuavo a partire per la Maremma. Per periodi più corti, però, solo tra fine ottobre e metà dicembre, e la cosa andò avanti per un bel pezzo.

Nello stesso periodo, anche Tosca lasciava la fattoria e per un paio di settimane si trasferiva con sua mamma a Selvapiana, dove avevano ereditato la metà di un bosco di castagni. L’altra metà era di proprietà di un cugino di primo grado di Tosca, Ottavio. Un cugino buono, come si dice da noi. Buono per modo di dire, però. Una volta lei mi aveva raccontato che tra di loro non correva buon sangue. Questo, da dopo la divisione dell’eredità, avvenuta anni prima, alla morte in guerra del babbo di Tosca e del fratello di lui, il babbo di Ottavio. Il cugino pretendeva di avere diritto a tutto il castagneto, ma alla fine delle trattative aveva dovuto accettare la decisione del giudice e rinunciare all’altra metà. Ma non l'aveva presa bene, e per l'intera durata della raccolta teneva d'occhio le due donne molto da vicino, per paura che sconfinassero nella sua parte di castagneto a fare quello che lui faceva regolarmente di notte. Si sa: il ladro ha sempre paura di essere derubato.

Meno di un mese fa, mentre ero ancora in Maremma con i tagliatori, mi arrivò una lettera da Selvapiana. Così pensai che fosse di Tosca, ma quando l’aprii rimasi di sasso. Un anonimo amico ci teneva ad informarmi che una sera, passando casualmente di là, aveva visto Ottavio e sua cugina, mia moglie, insieme nel deposito delle castagne. Non stavano riempiendo i sacchi, ma si divertivano molto. L’informatore concludeva la lettera facendomi i complimenti per avere sposato una donna che da vestita era bella, ma che senza vestiti era anche meglio.

Resistetti all’impulso di prendere i miei stracci e partire per andare a spaccare il muso a Ottavio e prendere a schiaffi Tosca, che aveva tradito la mia fiducia e si stava rivelando una puttana. Iniziai a convincermi che la storia del cugino stronzo era stata solamente una montatura per farmi stare tranquillo. Altro che beghe di eredità: quei due se la intendevano da un pezzo alle mie spalle con la scusa delle castagne, ma non l’avrebbero passata liscia. Sfumata la prima rabbia, quella sorda che parte dallo stomaco e senza passare dalla testa va direttamente ai pugni, mi controllai. Nei giorni successivi feci sbollire la pressione a colpi di accetta sui tronchi dei cerri maremmani; ogni albero abbattuto era Ottavio che crollava a terra. Terminai il mio periodo e rientrai alle Balze, già pregustando la giusta vendetta.

“Contrariamente al solito, Ottavio era stranamente gentile con noi quest'anno. Niente occhiatacce, niente dispetti. Certo, ha continuato a rubare le nostre castagne di notte, lo so perché la mattina trovavamo le tracce dei suoi scarponi dalla nostra parte del castagneto. Io gliene avrei dette quattro, ma la mamma mi ha sempre convinta a lasciarlo perdere. E per calmarmi ripeteva sempre una frase che aveva sentito, e che diceva più o meno così: non litigare con un idiota, perché chi guarda potrebbe non capire chi é l’idiota. Poi, una sera, il perché di quel comportamento strano mi si rivelò. La mamma era già andata ad aiutare l’amica che ci ospitava in casa sua, mentre io ero rimasta al deposito ad insaccare le castagne raccolte quel giorno. Sento aprirsi la porta, entra Ottavio, mi spinge sui sacchi e cerca di baciarmi. All’inizio sono rimasta talmente sorpresa che non ho avuto reazioni, me lo sono ritrovato addosso che cercava di sollevarmi la sottana con le sue manacce, mentre la sua barba mi grattava sul collo. Il disgusto nel sentire la puzza di cipolla che impregnava il suo alito e la paura per quello che, come realizzai in un lampo di lucidità, voleva farmi, mi diedero la forza di reagire. Riuscendo a scivolare via da sotto, mi sono rialzata, e quando lui ha cercato di avvicinarsi, gli ho sferrato un calcio tra le gambe che per mia fortuna è andato a segno.

Il giorno dopo e per tutto il resto del tempo che siamo rimaste a Selvapiana, Ottavio non si è fatto più vedere in giro. La mamma era sorpresa, ma io facevo spallucce e non le ho mai parlato di quella sera. E tanto meno ne parlerò con Otello quando tornerà dalla Maremma, perché se sapesse che quel lurido mi ha messo le mani addosso, lo ammazzerebbe di botte…”.

La situazione é degenerata. Nei miei piani, progettati mille volte, fatti, disfatti e poi rifatti, mi sarei limitato a una sfuriata, per farle capire che aveva perso tutta la mia fiducia, e che poteva anche andare all’inferno, con Ottavio o con chiunque altro, ma sempre all’inferno. Però la faccenda mi ha preso la mano. Forse perché era tardi quando sono arrivato, le due di notte. Lei dormiva, io ero stanco del viaggio. Avevo fatto gli ultimi sette chilometri a piedi tagliando dal Castellaccio e dal Cotolo, senza avere mangiato niente dalla mattina. E lei dormiva tranquilla nel nostro letto, come se non fosse successo niente. La svegliai toccandole un braccio da sopra le coperte pesanti. Aprì gli occhi, mi mise a fuoco in due secondi e mi saltò al collo attirandomi su di sé, poi cominciò a coprirmi il volto di baci, sussurrando il mio nome senza riprendere fiato: Otello, Otello, Otello… . Per un attimo, solo per un attimo, pensai che forse non era successo niente, pensai alla possibilità che quella lettera fosse solo uno scherzo di cattivo gusto, fatto magari da qualche cretino invidioso. La allontanai piano, ma con decisione. Lei mi guardò con aria interrogativa, poi vide che io la guardavo male, serio, tirato. “Dimmi di Ottavio nel deposito delle castagne”, buttai là. Lei sgranò gli occhi ed ebbe una reazione colpevole. “Chi te l’ha raccontato di Ottavio…, guarda Otello che non è successo niente nel deposito, lui…”. Fu in quel momento che la cosa degenerò. La sua risposta imbarazzata fu per me la conferma del sospetto. Non le diedi il tempo di aggiungere altro, presi il mio cuscino e glielo schiacciai sul viso, poi salii sul letto e spinsi con tutta la forza della rabbia che aveva fermentato in giorni e giorni di macerazione.

Non fu una cosa lunga. Si dimenò per una manciata di secondi e poi si riaddormentò. Per sempre.

“Adesso sono sicura, sono incinta!!! Io e Otello avremo un figlio! Non vedo l’ora di dirglielo appena tornerà dalla Maremma, sarà una bella sorpresa per lui…”.

Questa è l’ultima frase scritta da Tosca sul quel suo quaderno dalla copertina nera. La data è quella di ieri, il giorno del mio ritorno dalla Maremma. Probabilmente l’aveva scritta poco prima di addormentarsi, e aveva appoggiato il quaderno sul comodino pensando di nasconderlo l’indomani.

Ancora non so perché l'ho preso, questo quaderno nero, un attimo prima di lasciare la stanza. Comunque l’ho preso, e adesso, dentro lo sferragliare di questo treno che mi riporta verso la Maremma, ho appena finito di leggerlo. Solo adesso sento tutto il peso, l'orrore e la profonda ingiustizia di quello che ho fatto. Sento tutta l'inutilità della mia vita senza Tosca…, senza il nostro bambino. E sento di essere morto anch'io, in quella stanza.

© Massimo Burioni





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