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Veranda di fine agosto
di Sergio Sozi
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I

Una città in piena decadenza lo circondava quasi: coi suoi campanili smozzicati, i muretti a secco ben poco perpendicolari, le finestre che lasciavano le proprie cornici in travertino spaccarsi come vecchie melegrane in procinto di cadere dall'albero. Claudio Perbassi ne aveva piene le tasche, della sua città in tono minore e dunque la osservò, quel giorno crepitante di saette scodinzolanti, come se fosse in grado di rimetterla a nuovo con la sola grazia del pensiero. Un esercizio usuale nei momenti cupi, di quando insomma il mare a due passi da casa forniva valido campo per l'atterraggio di meteore, lampi e goccioloni ventosi. Una palazzina liberty, stretta fra altre basse costruzioni abitative e la spiaggia, casa Perbassi: ideale per il concepimento di progetti che non stanno né in cielo né in terra. Claudio, però, lí, incontrò qualcosa di ben diverso, la notte del ventotto agosto del Millenovecentoventotto; qualcosa di celeste ed anche terreno, nonostante i suoi progetti extrasensoriali.
Trent'anni di vita ed ancora celibe, pensò, nella pacata solitudine di quella borghese magione, ex residenza estiva a lui generosamente ceduta qualche tempo prima dai genitori. Accese senza alcun entusiasmo un candelabro di argentone; altro gesto rituale per niente opposto all'avanzante crepuscolo.
Si affaccendava spesso attorno a teste di sottile argilla: un ritratto di Elio Adriano, proprio quella sera pressoché completato, diffondeva nella penombra della veranda la propria noncurante ferma potenza. Noncurante soprattutto di sé e del mandato imperiale, aveva immaginato il pomeriggio stesso Claudio, nell'atto di sforzarsi ad imprimergli gli ultimi tocchi con la spatoletta. Che vita ricreata nell'effimero, un viso di creta! Accigliato, silente. Duro, a mano che il materiale di cui è fatto s'indurisce. Poi, la stessa sua natura gli leva floridità e compattezza; polveri e ragnatele ne sbeffeggiano l'immobilità. Arrivano l'oscurità, il salmastro, la ruga che porta i ríccioli a divenir grotteschi ghirigori; un soffio di Ade a smembrare o rapire memorie, amori, sogni… sonni. Ma è solo l'inizio: voci si levano ovunque; piangono miracoli e generosità cesariani, semidivini. Tutto ciò viene presto sostituito con un plebeo disprezzo; poi sopravviene il silenzio a cui spetta accomunare i saggi e gli inetti.
Ma ancora Adriano comandava, tra vasi di imberbi lauri invitto, esponendo le ròsee labbra vicino al moderno cipiglio del suo crucciato demiurgo moderno. Questi rivolse all'imperatore uno sguardo mogio: oramai sei finito, come me; un rudere a cui ho dato la luce. Ma quale luce, Adriano? La stessa che sbriciola i balconi in questa stolta periferia del Mondo, genuflessa davanti all'ineluttabile bisogno umano di annullamento, di nullità.
''Non proprio'' sibilò. ''Onora il tuo Genio, ragazzo dalle membra dúttili, ne otterrai fortuna.'' Le urlanti ramificazioni di un fulmine tagliarono la cupola oramai notturna in una miriade di schegge.
''Perdonerai tutto il male che ti ho arrecato, principe?''
''Fugge. Come ogni parola. Fugge. Non preoccuparti, ombra.''
''Rifaremo daccapo ogni cosa. I nostri buchi nell'acqua dovranno esser migliori dei precedenti.''
''Chi rifarà?''
''Chiunque abbia voglia di perder tempo, o sbaglio?''
''È cosí. Se hai del tempo, sbrígati a perderlo, o lui perderà te.''
''Concedimi una preghiera per l'alata Bellezza, principe.''
''E tu, una per la terrena Crudeltà.''

II
L'alba vide che un tenue velo di rugiada era ostentatamente voluto rimanere, pietoso lenzuolo, sopra il robusto corpo inginocchiato. Claudio si levò per osservare meglio la scena, poiché era restato a qualche metro, avvolto dalla sottile tunica: le rapide mani del sonno lo avevano piegato su di un glauco tappeto.
Cosí nell'assordante silenzio notturno si è consumato il delitto, pensò, aprendo la porta della veranda per andare finalmente in giardino, dove una statua rossastra, ormai priva d'espressione, si inchinava platealmente al beffardo rigoglio di palme infeconde, glicini e tamarindi.
Aveva una larga crepa color fuliggine, all'altezza dei fianchi. E non mostrava piú altro che la eco visiva di un giovinetto – certo non un efebo – orante prima dell'iniziazione ai Misteri Orfici. L'elettrica crudeltà celeste la aveva umiliata quanto l'alata bellezza che Claudio sentí improvvisamente mordergli il cuore.
Il Cielo e la Terra sono crudeli e belli, pensò. Morta una statua, ne nascerà un'altra. Poi gettò uno sguardo alla testa d'argilla che, nella veranda, lo osservava da ogni angolazione, non vedendo in lui il principe che avrebbe voluto essere quella notte: un fermo, potente sorriso la illuminava ancora, anzi di piú, come se il violento bagliore l'avesse ulteriormente accesa.
Adriano ride di se stesso morto, pensò Claudio Perbassi andando incontro al ventinove agosto del Millenovecentoventotto.

(Lubiana, 15 II 2003 – Capodistria, 18 II 2003)

© Sergio Sozi







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