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Il Metro
di Massimo Siardi
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Tutti dicevano che non aveva mai avuto un’anima, lui, che con un morso aveva staccato un dito al padre, anche se Agnul non l’aveva mai riconosciuto, il Metro, che non era ancora il Metro, ma solo un bambino, un lurido ragazzino vestito di stracci, come c’e n’erano tanti per le strade di Dilignidis, nei campi sopra Cjalaria, nei boschi intorno a Nolia. Cuccioli selvatici che trascorrevano le loro giornate, facendosi la guerra con pietre e bastoni, rubando dai frutteti mele prugne e pere, distruggendo i campi di patate e grano, soltanto per il gusto di farsi rincorrere dai contadini. Alcuni andavano a caccia di uccelli: pettirossi, lucherini, cardellini, passeri, con l’archetto, con rametti di olmo lisci, ricoperti di vischio, innestati sui rami degli alberi, nei cespugli,. Avrebbero tutti voluto cacciare caprioli e lepri, ma nessuno di loro si poteva permettere un fucile. E lui, il Metro, era uno dei tanti, anche se non era uno qualunque. Sua madre viveva nella prima casa del paese, arrivando da Feltrone, anche se la loro, somigliava a tutto, tranne che una casa. Comunque un tetto di assi e un pavimento di terra c’è l’avevano. Un’unica stanza, a terra due materassi di paglia, contro il muro a est, verso la chiesa, un grande focolare, davanti al quale la madre del Metro, Sonia, detta la Blancja, cuciva e rammendava. Le dita piccole, deformate dal lavoro, la pelle increspata come carta velina, le mani che ogni tanto tremavano, soltanto cinquant’anni, e alle spalle più di quanto volesse ricordare. Il primo matrimonio, col cugino, il figlio nato sordomuto, morto di polmonite subito dopo, il marito sparito chissà dove, in Germania, in Francia. Una donna bella, alta, il viso aperto, i lineamenti slavi, gli occhi verdi, i capelli biondi, una ciocca bianca al centro, che era il suo carattere distintivo, oltre a un espressione fiera ed orgogliosa, e la sua origine, persa nel tempo, confusa col racconto, divenuta mito e leggenda.
Un’ enorme figura, che irrompe nell’alba immobile, di un mattino invernale. La grande massa, i muscoli compatti e guizzanti, il morbido pelo marrone, gli zoccoli che sbattono a terra, frugano nella ghiaia e nel fango, le ampie volute di vapore, il primo cavallo che avesse mai calpestato quelle strade. Un uomo, gli alti stivali neri, i pantaloni indaco, il manico di un coltello che spunta da una sciarpa rossa, legata in vita, gli occhi di ghiaccio, la lunga barba rossiccia, uno strano cappello di pelo nero in testa. Scende da cavallo. Prende la bestia per le redini. La conduce in mezzo a un corteo di facce attente e curiose, fino alla vasca di pietra, in piazza. L’uomo fa scorrere le dita sulla criniera nera. Sussurra qualcosa all’orecchio dell’animale. Lo calma. Il cavallo beve. Questo raccontano i più vecchi, quelli senza denti, seduti sulle panche sbiadite dal sole, in piazza, mentre sputano tabacco e si lamentano dei giovani. “Inizia così, la storia della Blancja”.
Una donna altera e silenziosa, che negli occhi dei paesani non è mai stata una bambina, qualcosa di straniero e selvatico nello sguardo, nei modi, nella voce, e quella ciocca di capelli bianchi. L’anima della madre, pensava il ragazzo. Quella cosa immortale, che il prete gli aveva preannunciato, avrebbe perso, se avesse continuato a rubare nei pollai, a saltare la messa, a bestemmiare con gli amici, anche se lui lo sapeva che alla fine, qualsiasi cosa fosse, non l’aveva mai avuta. Erano gente senza Dio. Crescendo, se lo sentiva ripetere sempre più spesso, dalle zitelle, vestite di nero, che lo inseguivano, minacciandolo con la saggina, perché ne aveva fatta qualcuna delle sue. Niente a che vedere con la storia del dito, però. Ma se anche l’avesse avuta, adesso ormai, era persa, definitivamente.
E quell’uomo. Quante volte l’aveva visto entrare. Il cappello di feltro in testa calcato sulle ventitré, la cravatta bianca annodata stretta, nel taschino della giacca di lino l’orologio d’oro. Faceva finta di non vederlo, anche in paese, anche in piazza. Lui non se ne curava molto, non gli importava di nessuno. Una volta aveva portato una gallina e due uova e tutti e tre avevano cenato assieme. Sua madre girava e rigirava il cucchiaio nel piatto della minestra, e guardava l’uomo. Lui si era buttato sul letto, che loro erano ancora lì, a parlare. Il ragazzo fingeva di dormire, ma li sentiva, coricati una accanto all’altro, che si muovevano e ansimavano, ma non aveva detto niente. Non glie ne importava.
Come mai allora adesso, non riusciva a togliersi dalla testa quell’uomo. Forse perché gli aveva staccato un dito. No, questo era venuto solo dopo. Pensava a lui già da prima. E a cosa fosse un padre. Non aveva mai pensato che un figlio ne avesse veramente bisogno. Una madre sì, aveva visto le donne incinta, portare i loro figli nelle pance e poi, una volta nati allattarli al seno, questi vecchi minuscoli e grinzosi, che succhiavano e succhiavano. Una madre sì che serviva, anche dopo, ad aggiustare i pantaloni, a pulire, a fare da mangiare. Ma un padre. Non ne vedeva proprio la necessità. Non le aveva mai chiesto chi fosse. Lei parlava molto poco. Lui parlava ancora meno. Ma ora, ora avrebbe voluto chiederle se era vero, quello che gli avevano detto, e dirle altro, parole cattive, insulti, bestemmie, cose che non aveva mai detto a una femmina, perché delle donne, e di lei in particolare, aveva paura. Ma non era riuscito a dirle niente, quando alla fine, era tornato a casa. Lei, aveva già preparato le sue cose. Riunite in un fagotto. “ Che il Signore ti aiuti”. “Adesso vai”. Nient’altro, solo “ adesso vai”, mentre lui aveva così tanto da chiedere. Perché non ci credeva ancora. Non a quello che aveva fatto. Di quello era pienamente cosciente. Non credeva ancora, a quello che il ragazzo gli aveva detto. Nonostante tutto, nonostante le lacrime di sua madre, per lui o per l’altro?, solo un ombra incerta, mentre se ne andava, forse solo uno scherzo della fiamma. Nonostante tutto, non poteva ancora esserne sicuro, e neanche in seguito, quando l’uomo morì di sepsi, e lui tornò, non molto tempo dopo, perché Agnul era uno strozzino, e si era preso un bel po’ di case e terreni in paese, così nessuno sentì la sua mancanza troppo a lungo, nemmeno la moglie, rinchiusa già da anni in manicomio, nemmeno la figlia, presa a lavorare in casa della zia. E il Metro. Neanche da vecchio. Quando dal cielo scendeva una luce cobalto porpora, che accarezzava le superfici ruvide e friabili delle case abbandonate e cadenti, come la mano di un bambino sulla pelle di un vecchio. E lui guardava, lungo la strada bianca che scendeva in piazza, osservava il vento muovere le foglie dei castagni, ai margini del sentiero, i colori: marrone chiaro, nocciola, rosso scuro, verde, e decine di altre sfumature, confuse nell’oro e arancio dell’autunno, le legna, accatastate in pile ordinate, nella baracca dal tetto di lamiera ondulata, dietro casa. Nemmeno allora avrebbe saputo se il ragazzo, che per strada gli aveva fatto, “guarda che quello è tuo padre, lo sanno tutti”, avesse detto la verità.
Lo stesso ragazzo che subito dopo aveva buttato a terra e preso a calci, senza un vero motivo. Come non c’era nessun motivo per fermare quell’uomo in piazza, il sole alto a mezzogiorno, e dirgli “tu sei mio padre”. Senza un’ombra di dubbio o di incertezza nella voce. Qualcosa che urlava dal sangue, che non aveva bisogno di conferme. “Sei mio padre”. E l’uomo che gli diceva “va fuori dai piedi”, lui che gli tagliava la strada, e l’altro che lo prendeva per la maglia, e lo sbatteva a terra. E mentre l’uomo si allontanava, il ragazzo che si faceva di nuovo sotto, lo teneva per un braccio, si aggrappava alla mano pesante e callosa, e con un morso gli staccava il mignolo.
E ora, era già notte. La luna piena. La luce argentata sfiorava i contorni delle sagome nere degli abeti. Stava attraversando il paese deserto. Dall’osteria filtrava ancora qualche debole luce, si sentivano ancora voci. Si era accorto che qualcuno lo stava seguendo da un po’. Fece ancora un giro attraverso il paese. Dalla corte dei Rabassi, sentiva Titta imprecare ubriaco contro la moglie. La voce della donna non si sentiva, non si sentiva mai. Quel rumore lo stava ancora seguendo. Si fermò. Un piccolo cane, il pelo corto, nero, il muso volpino, comparve. Si vedeva spesso in paese. L’animale gli venne più vicino. “Vai fuori dai piedi” gli disse, allungandogli un calcio. Il cane non mollava. Allora, prese un paio di sassi da terra e glieli tirò addosso. Il cane indietreggiò di qualche passo, ringhiando. Il ragazzo ripartì. Camminava con calma. Le scarpe gli davano fastidio. Le suole di cartone ormai si stavano staccando. Per fortuna, nel bosco, avrebbe potuto togliersele. Aveva deciso di prendere il Pecol, in direzione di Viaso, e poi sparire. Mentre stava per cominciare la scalinata di radici e sassi che l’avrebbe condotto al torrente, sentì il tocco di una mano sulla manica. Si voltò. Era Alma.
“ Come sta tuo padre?”
“ Ha la mano nera”
“ Mi dispiace”
“Dove te ne vai?”
“ Non lo so, da qualche parte”
“ Non puoi, sei solo un bambino”
“ Sì, che posso”
“ E cosa farai?”
“ A casa non posso tornare”
“ Adesso aspetta”.
Attese in silenzio la ragazza, la sua unica amica, che l’aveva chiamato bambino, anche se aveva solo due anni più di lui, soltanto dodici. Era un nottata chiara, in poche ore sarebbe arrivato a Viaso, forse anche ad Enemonzo, prima dell’alba.
Lei arrivò correndo, gli allungo un involto. Lui lo aprì, dentro c’era un pezzo di polenta.
“ E quello?” fece il bambino, indicando una piccola massa nera, che girava attorno alla ragazza.
“ Mi è venuto dietro”.
Il cane si avvicinò al bambino.
“ Lo conosco”.
“ Dovresti tornare a casa. Non puoi partire da solo”.
“ Il bastardino viene con me”, disse il bambino, voltando le spalle alla ragazza, e incamminandosi lungo il sentiero, seguito dal cane.
Non sapeva ancora che il tempo non gli avrebbe concesso risposte, ma soltanto sopito certe domande, che per molto tempo ancora si sarebbe fatto, su suo padre e sulla sua anima.

© Massimo Siardi





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