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di Giorgio Ottaviani
Pubblicato su SITO


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Mi piace lo squish secco che fa uno scarafaggio quando lo schiacci premendogli il carapace con il pollice, finché non si spacca come un cocomero maturo, spargendo il suo filamentoso contenuto tutto attorno. E’ una cosa che mi eccita.
Qui è pieno di scarafaggi. S’annidano fra le crepe del muro, fra i mattoni, una volta solidi e legati l’uno all’altro dalla malta, ora precari e separati da spazi vuoti come i denti in bocca ai vecchi.
Quando la luce si spegne lasciano le loro cavità e si sparpagliano sul pavimento come biglie di vetro lasciate uscire da un sacchetto. Vedo i loro carapaci brillare bagnati dalla luce giallastra che cade dal lucernario sul pavimento. Traiettorie, all’apparenza senza senso, tagliano veloci il pavimento di graniglia. E io, Dio, decido chi far vivere e chi far morire.
Non sono pazzo, o almeno non più di quelli che hanno deciso che la mia vita dovrà finire con un’iniezione letale esattamente fra trentadue ore e quattro minuti.
Forse anche loro troveranno il suono dell’aria nella mia trachea, espulsa dall’ultimo spasmo dei miei polmoni, eccitante come lo è per me lo squish di uno scarafaggio che schiatta fra il mio pollice e il pavimento.

Il motore ronfava rotondo con un suono gutturale come le fusa di un gatto. L’asfalto grigio solcava i campi mais disegnando ampie anse come un fiume di pianura che avesse perso la direzione del mare. Il cielo, grigio come un lenzuolo sporco.
La ragazza al volante guidava con gli occhi fissi alla strada e la mente invischiata, come un insetto sulla carta moschicida, in quei ricordi dai quali stava fuggendo. Il fumo azzurrognolo della sigaretta, fra l’indice e il medio della mano sinistra, serrata sul volante, danzava sottile verso l’alto per andare poi a formare una nuvola indistinta contro il tetto dell’auto.
Allungò una mano a cercare la bottiglia di Four Roses incastrata fra il suo sedile e quello del passeggero, continuando a fissare la strada oltre il parabrezza sporco. Se la portò alla bocca. Tolse il tappo coi denti e lo lasciò ricadere fra le gambe. Prese un’abbondante sorsata e ricacciò la bottiglia fra i sedili. Sentì il liquido infiammarle l’esofago e scendere fino allo stomaco. Ripescò il tappo incastrato fra le cosce e richiuse la bottiglia. Tirò un ultima boccata dalla sigaretta e buttò la cicca dal finestrino.
Che andassero tutti a farsi fottere, lei con loro aveva chiuso.

Una toga nera con i galloni dorati disse: “colpevole”. E un colpo di martello sul disco di legno, mi schiacciò come un insetto. Pena di morte.
Gridai, imprecai, maledissi quel pazzo che mi mandava a morte senza una ragione, ma mi presero e mi portarono via. Sbattuto in isolamento, con l’unica compagnia degli scarafaggi.
Iniezione letale. Dio sa che non merito il paradiso, ma nemmeno l’inferno, eppure è quello che mi hanno dato. I giudici e Dio non credo si parlino.
Non sono mai stato un santo, ma quando non hai un lavoro e il tuo stomaco se ne frega e vuole essere riempito lo stesso, non stai a guardare troppo per il sottile. Certo, nella mia vita, a volte ho fatto cose illegali, ma quanta gente infrange le leggi? A sedici anni spaccai il finestrino di una Ford per rubarla. I frammenti di cristallo esplosero in schegge di luce scagliate contro un cielo nero e ricaddero sul sedile. Immaginai il corpo di Kate cosparso di diamanti. Quello era solo il mio primo colpo, ma presto sarei diventato ricco e lei non si sarebbe negata.
Mi presero mentre sognavo di carezzare la sua pelle del colore della panna, seduto al posto di guida, il volante fra le mani e il motore ancora spento.

Lasciò le chiavi della macchina al ragazzo della pompa. “Fammi il pieno”. E si diresse verso il negozio. Dietro al banco un vecchio con la faccia di cuoio antico e una corona di capelli grigi a incoronargli il cranio, era immerso nella pagina sportiva di un quotidiano locale. Sollevò un attimo lo sguardo dal giornale, poi tornò a ignorarla, mentre lei prendeva dallo scaffale due bottiglie di liquore.
“Quanto dista il prossimo paese?”
Il vecchio staccò a fatica gli occhi dal giornale, come se nei risultati della quinta giornata del campionato cadetto di football ci fosse svelato il più profondo segreto dell’esistenza umana.
“Una sessantina di miglia”. Uno sguardo alle due bottiglie che la ragazza aveva poggiato sul bancone. “Fa diciotto e sessanta”.
“Una stecca di Lucky”.
“Trentanove e ottanta. Sono vicino all’uscita. Le prenda.”
“C’è un albergo da queste parti?”
“A una quindicina di miglia”.
Pagò e uscì. Il ragazzo della pompa le restituì le chiavi. Lei gli porse due carte da cinquanta. Quello si strofinò le mani sulle natiche per pulirle, aprì la bustina di pelle nera che teneva appesa alla cintura, prese i soldi e le diede il resto.
La ragazza salì in macchina e ripartì. Il prossimo paese non era una meta da raggiungere, ma solo un posto più lontano del precedente da ciò che continuava a seguirla.
Lui per lei avrebbe dato l’anima. Glielo ripeteva sempre in quei momenti, quando le affondava le dita fra i capelli e il suo respiro e quello di lei si confondevano in un unico ansimare profondo. Quando però lei era rimasta incinta, l’unica cosa che era stato disposto a darle erano stati i soldi per farla abortire.
“Non so nemmeno se è davvero mio quel corpo che ti cresce in pancia”. Le aveva detto così, poi se ne era andato lasciandola come un soprammobile nel salotto austero di casa dei suoi.

Il riformatorio è soltanto una versione dell’inferno a misura di adolescente. L’unica cosa che riuscì a farmi sopportare quei due anni fu il rock e una chitarra elettrica. Sotto le mie dita le corde vibravano come il corpo d’una donna sotto le carezze di un abile amante. Gemevano creando sonorità capaci di pompare adrenalina anche nelle vene di un cadavere. Uno che lavorava li dentro conosceva qualcuno che cercava un chitarrista e gli parlò di me. Quando uscii mi proposero di guadagnarmi da vivere suonando con un gruppo rock in locali dove la gente va per tutto, meno che per ascoltare te che suoni.
Tutto sommato, pensai, meglio che fare il commesso in un negozio di ferramenta. Una vita sulla strada, viaggiando su un furgone, sgangherato come la gente che frequenta i locali in cui vai a suonare.
Di notte suoni. Vai a dormire che è quasi mattina in un letto d’una stanza d’albergo di quart’ordine. Ti alzi che è ora di pranzo. Un fast food e riparti per il prossimo locale.
La tua vita diventa un’alternarsi di lenzuola sudice e locali che spuntano ai lati delle strade statali come piante di cactus in mezzo al deserto.

Il pastore della chiesa metodista del paese non avrebbe mai potuto sopportare la vergogna di una figlia peccatrice. Nemmeno sua madre avrebbe mai potuto aiutarla, perché lei da donna per bene, non aveva mai saputo cosa fosse dire il piacere di donarsi ad un uomo che si ama.
Così lei, si era ritrovata in quel salotto, con la foto dei genitori nel giorno del loro matrimonio che la fissava severa dalla cornice d’argento poggiata sul tavolino davanti al divano e aveva capito che quella non era più casa sua.
Prese le chiavi della macchina, una giardinetta color cielo, e se ne andò verso qualunque cosa di diverso da quello che sentiva essere la sua vita in quel momento.

Anche quella sera finimmo di suonare che erano ormai le due. Uno squallido locale popolato da camionisti di passaggio e puttane stanziali: “Il coyote blu”. Sotto il bar, sopra le stanze.
Nella sala l’odore di corpi sudati sembrava essere un complemento dell’arredo, come i neon rossi e blu attaccati al soffitto e le foto di pin up alle pareti. Per togliermi la sete e quel sentore di fumo e liquidi organici che mi impastavano naso e bocca, o perché la ragazza che serviva la birra aveva un musetto d’angelo, mi feci qualche birra in più. Molte di più.
Salii nella mia stanza. I camion che passavano lungo la statale proiettavano strisce di luce che attraversavano il soffitto da un lato all’altro e sparivano a metà parete, mentre il rumore del motore si perdeva in lontananza come una luce nella nebbia, ma ero troppo stanco e troppo pieno d’alcool perche questo potesse darmi fastidio.
Mi stesi sul letto e mi addormentai del sonno greve degli ubriachi

La ragazza fermò la macchina nel parcheggio del Coyote blu. Alla luce dell’insegna luminosa la vernice azzurrina della giardinetta mandava riflessi viola.
Entrò e chiese se c’era una stanza libera. Il portiere finse di cercare qualcosa scorrendo col dito su un registro sicuramente vuoto, poi le disse:
“Si. Stanza 25. Vuole mangiare qualcosa?”
“Grazie”.
Si sedette ad un tavolo. Nella borsetta accanto alle sigarette e ad una spazzola per capelli, la pistola di suo padre. “E’ per tener lontani i malintenzionati che non temono la legge di Dio”, diceva suo padre. Poi aggiungeva: “ma prego Dio di non doverla mai usare”.
L’avrebbe usata lei, contro se stessa. Non poteva far sparire quel bastardo che l’aveva messa in cinta e lasciata da sola, nè i suoi genitori che l’avevano cresciuta a timor di Dio e ipocrisia senza insegnarle cosa fosse veramente la vita. E allora sarebbe sparita lei.
Ordinò qualcosa da mangiare e molto da bere.
Sul palco un gruppo rock suonava per quattro scimmioni pelosi che si agitavano in pista, più concentrati sulle natiche o sui seni delle loro partner occasionali che sulla musica.
Quando smisero di suonare ordinò ancora un altro paio di drink e quando si senti abbastanza sbronza per ammazzarsi, salì in camera.
Guardò il numero sulla porta cinquantadue o venticinque o quel cavolo che è. Spinse la maniglia e la porta si aprì con un miagolio da gatta in calore.
Entrò e senza accendere la luce poggiò la borsa sul comodino. Si tolse i vestiti, si stese nuda sul letto, allungò una mano. Prese la pistola, se la puntò sul cuore e fece quello per cui era li.

Mi svegliò il suono sordo di una esplosione a pochi centimetri da me. Mi drizzai a sedere sul letto e la mia mano percepì il contatto con un liquido caldo e denso, sparso sulle lenzuola. La ritirai d’istinto e accesi la luce.
Accanto a me una giovane con un buco nel seno da cui uscivano fiotti di sangue sempre più deboli.
In mano stringeva una pistola. Non so perché gliela tolsi dalle mani, ma lo feci. Quando si spalancò la porta ed arrivarono gli altri avventori richiamati dallo sparo, io ero seduto nel letto con la pistola in mano e il cadavere di una giovane donna nuda accanto a me.

Ha usato senza rendersene conto, il mio letto per suicidarsi in una squallida stanza d’albergo, ma nessuno l’ha creduto.
Poi un giudice dalla toga nera, convinto di essere Dio, ha deciso che io non merito di vivere. Fra trentun ore e quindici minuti non sarò più di questa partita.
Aspetto e come il mio giudice Dio, dispenso vita o morte agli scarafaggi e mi eccito al loro stupido disgustoso squish.

© Giorgio Ottaviani





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