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di Marina Malaguti
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Aprile 1957

“Vado solamente oggi. Oggi e poi torno. Non ti preoccupare.” Lo disse guardandosi le mani e uscì senza voltarsi. La moglie osservò la sua andatura incerta fino alla porta. Si fermò un attimo e lei sperò che ci avesse ripensato. Aprì e uscì deciso.
Non lo rivide più.

Giugno 1998

Un rantolo continuo, respiro affannoso. Una lenta agonia e poi il silenzio. Il prete che dà l’estrema unzione e dietro il paravento le imprecazioni della tua compagna di stanza.
Non ce la faccio mamma. Non ce la faccio proprio.

Novembre 2008

Guardo il tuo respiro leggero mentre dormi. Le piccole manine. Come sei fragile. Sei talmente piccola!
Io non ho la forza di continuare. Non l’ho mai avuta. E ora che ci sei tu mi sento ancora più debole.
Quante cose ti dovrei dare, ma non ne sono capace.
Dormi piccola mia. Dormi tranquilla; forse qualcuno si occuperà di te.

Le mani esperte di chi compie gli stessi movimenti tutti i giorni.
“Bene, il cemento si asciugherà in poche ore. Avete una foto provvisoria da mettere in attesa della lapide?”
“No, aspettiamo di metterne una unica con il marito visto che sono nello stesso tombino…”
“Va bene allora, condoglianze”
La foto ingiallita di mio nonno. La fisso. E’ in divisa. Non l’ho mai conosciuto. Non ne hanno mai parlato molto. Leggo la data della morte: aprile 1957. Mia nonna aveva trentasei anni, eppure gli è sempre stata fedele. Anche nel difenderne l’onore. Quanti anni di segreti, bugie. No, forse ormai non erano nemmeno più bugie; ci credeva.
“Bastardo” penso “Non ti ho mai conosciuto e sei riuscito a rovinarmi la vita ugualmente.”

Non ho la forza di farlo. La tomba di mia madre è poco lontana. Non ci riesco. Sono passati dieci anni e non ci sono più tornata. Non posso rivedere il tuo volto che mi guarda. Mi manchi ancora troppo e io devo tornare da mia figlia.

Apre la porta con disinvoltura, ma percepisco un lieve fremito. La casa di mia nonna è fredda, buia.
Scorgo nella penombra tutte le sue cose. Lo scialle attaccato alla parete, il bastone vicino alla porta, il rosario sul tavolo. C’è tutto, tranne lei.
“Io non ho ancora toccato nulla” la voce di mio zio blocca un attimo di emozione “guarda tu quello che vuoi tenere, poi al resto ci penso io”.
Certo, ci pensa lui; a buttare tutto. E’ il suo modo di proteggersi, eliminare i ricordi.
“Io vorrei il rosario” non so perché mi esce quella frase, non sono certo il tipo da usarlo.
La sua camera da letto è intatta. Non vorrei entrare, è morta lì. E’ ancora così viva in me. Vedo i suoi gesti, i suoi sguardi tipici, i gesti del capo.
Mi sta guardando lo so. Apro l’armadio e il suo odore mi invade. Accidenti! Com’è difficile.
Tra i vestiti parecchie scatole. Le foto ingiallite dei parenti. Non riconosco nessuno e lei non mi può più istruire.

Torno a casa. In tasca un rosario e un portafoglio. Le cose che usava di più. Mio marito vuole partecipare, forse, al mio dolore. O forse è sola curiosità. Apre il portafoglio ed estrae le foto da cui mia nonna non si separava mai.
“Guarda, tuo nonno in divisa. Un bell’uomo però!” Non mi ricordo, hai detto che tua madre aveva diciassette anni quando è morto, vero? E com’è successo pure?”
“Un infarto”.
Per tutta la vita ha sostenuto questa versione. Ora che è morta vorrei urlare al mondo: “Bastardo, non è vero! Non è stata una tragica fatalità! Hai abbandonato tutti. Dov’era il tuo coraggio da militare, è? Le hai caricate di responsabilità, dubbi, rimorsi.
Perché? Perché difenderne l’onore?

Non riesco a dormire. Mi sono sempre portata dentro la mia voglia di farla finita. Mi sono sempre considerata una nullità. Ho sempre amato mia madre alla follia. Ho sempre pianto davanti al suo sguardo perso nel vuoto. Per quanto mi dedicassi a lei, non riuscivo mai a raggiungere i suoi pensieri. E non ho mai saputo perché fino alla sua morte.
Ho tentato il suicidio. Non ha ceduto nemmeno allora. Non mi ha mai reso partecipe della vera fine di suo padre.

Giugno 1998

“Sediamoci qui” mia sorella sa scegliere sempre i tavolini migliori. “Come ti senti?”
Sa anche scegliere le frasi più appropriate. “E’ appena stata sepolta, come vuoi che mi senta?”
“Non devi fartene una colpa. Non è mai riuscita a vivere pienamente la sua vita”. Ci risiamo, certo, lei è come mio padre: efficiente al cento per cento.
“Non sono riuscita a salvarla” penso.
“Già, nessuno poteva farci niente” dico.
“Del resto è un problema di famiglia, il suicidio è ereditario” sentenzia.
Penso al mio tentativo:” Già, ma io non sono riuscita neanche in quello!”
“Non pensavo a te! Il nonno…non lo sapevi? Non è micca morto d’infarto, si è sparato”.

Gennaio 2009

La tua foto. Io, piccola, ti stringo forte le braccia al collo mentre rido e tu rispondi al mio gesto sorridendo. E’ la foto che mi rimane di noi due.
Accanto, la foto di mia figlia. Ho poche foto mie insieme a lei. Non le voglio fare. Forse ho paura. Ho paura di lasciare ricordi. Ho paura del mio sguardo assente. Chissà se avrò il coraggio di raccontarle la verità o mi nasconderò dietro a vuote bugie.
Chissà se saprò spezzare la catena familiare degli adii precoci.

© Marina Malaguti





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