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Le smanie per la tinteggiatura
di Carlo Santulli
Pubblicato su SITO


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Quel giorno, un temporale di insolite proporzioni si era abbattuto sulla città, sradicando alberi, spostando macchine, rovesciando cassonetti e facendo tremare le coppette dei lampioni fino quasi a decapitarli. Dopo circa un quarto d’ora, la sfuriata incandescente e nerastra del cielo si era dissolta in una pioggerella placida ed indolente.

In quel momento, la Punto del ragionier Mario Rossetti, consigliere della scala C, aveva imboccato la rampa del garage, di ritorno dal porto di Civitavecchia, inevitabile ed un po’ malinconico approdo di quindici giorni in Gallura.

Aveva sostato qualche minuto, scaricando pesi ed organizzando mentalmente l’immediato futuro, con lo sguardo sperduto in qualche carezzevole ricordo. Sua moglie era un’artista, e vedeva la vita ad acquerello e tempera. A lui bastavano tre o quattro pastelli di cera, di quelli che certi grandi magazzini regalano ai bambini, onde tenerli buoni per il tempo strettamente necessario alle compere. Eppure, il suo rosso non era meno vivido di quello di Franca, solo che era un’unica tonalità, nessuna sfumatura, men che meno una fusione di più tinte od una pennellata sghimbescia, data per creare, sconvolgendo la trama del dipinto, un nuovo ordine, provvisorio, ma non più fittizio del preesistente. Il rosso era rosso, e basta: inutile sforzarsi di cambiarlo o di rifrangerlo con caleidoscopica esattezza.

Alle 17.50 di quel lunedì, il suo sguardo si innervò di una luce diversa, non più solare, ma probabilmente artefatta, cittadina. Non era però smorta: era senz’altro una lampada a basso consumo, ma compensava la sua natura sparagnina con una durata e resistenza eccezionale. Certo, per un bagliore diverso, anticonformista, ci voleva Franca.

La vacanza era proprio finita.

Si trascinò pensosamente verso l’ascensore, attraverso le scale che gradatamente passavano dalla grettezza un po’ porosa del cemento al diffuso e variato reticolo del marmo venato.

Dove le venature si interrompevano, si entrava in una confusa area di vaga, ma solenne dissoluzione, irta di teli di cellophane, di solette di calce spaccate a mezzo, tra listelli di legno ammonticchiati: uno scaleo a rotelle giaceva abbandonato presso il portone, che era semiaperto. Si poteva scorgere l’ombra del portinaio, che spazzava le foglie cadute nel fortunale appena terminato. Lo evitò: Franca fece invece sembiante di notarlo, ma fu forse felice di rilevare che il saluto non era stato raccolto. Il lindore del cortile aveva la precedenza anche sull'educazione: questo le piacque.

Mario e Franca, quasi spalla a spalla, si mossero verso la parete di fondo, tra l’ascensore ed il contatore generale della luce. Sul muro, in precedenza di un verde militare, erano dipinte quattro prove di colore: un altro verde più chiaro, un color zucca, un giallo canarino ed un avorio.

Sotto le prove di colore, su quattro fogli, altrettante liste di nomi, più corte o più lunghe, un po’ a capriccio. Contando le liste con lo sguardo, Franca scosse lievemente la testa abboccolata, al che Mario, più tardo, si vellicò la barbetta, che discreta e silenziosa gli cresceva a sale e pepe.

Bisognava far qualcosa.

Mario ricordava lucidamente la questione della sostituzione delle tende da sole sui balconi; anche in quel caso Franca, ragionando artisticamente, o meglio sentendo le cose nel profondo dell’anima, era arrivata ad una rapida, ma meditata conclusione cromatica: aveva scelto delle tende con minuscole righine orizzontali marroni di diversa consistenza, intercalate ad intervalli irregolari di spazi bianchi, come quelli di un pentagramma visto ad uno specchio deformante.

Si erano tosto formati tre partiti: le Righe Diverse, le Righe Verticali ed i Senza Tenda, mentre Franca, ed incidentalmente Mario, avrebbero preferito un’uniformità, elegante, precisa, ordinata, ma artistica. Come Franca diceva spesso: “Il mondo è retto da un equilibrio sempre mutevole di zone d’ordine ed oasi di disordine”. Non era sua, non sapeva se fosse farina del sacco di Frate Indovino o della direzione delle Assicurazioni Generali, ma serviva allo scopo. Nel caso specifico, all’artistica mutevolezza cromatica, interna alla tenda da sole, si sarebbe contrapposto il rigoroso decoro, la ripetitività strutturale della visione complessiva dei balconi tutti provvisti, in un caldo pomeriggio estivo, di fantasie con Righe Diverse.

Ma le brillanti idee di Franca, con grave disappunto di Mario, non avevano prevalso: e dopo un paio d’anni di accese discussioni, spruzzate di qualche minaccia di azioni legali, la loro palazzina, se osservata dalla strada, presentava chiari i segni della spaccatura in tre partiti. Per non parlare della caotica visuale che se ne aveva poi dal cortile, dove, anche per motivi di economia domestica, i Senza Tenda dominavano. Perché in effetti dai tre partiti erano presto nati dei sottopartiti, anche se magari rappresentati solo da uno o due condomini, per esempio i Righe Diverse Fuori Senza Tenda Dentro, i Righe Diverse Solo Davanti Al Salotto, o peggio ancora (le tende avevano anche prezzi diversi) i Righe Diverse Fuori Tenda Qualunque Dentro. Ci fu anche una riunione di condominio, sotto Natale (Mario ancora aveva un groppo in gola al solo ricordo) dove il principio della libertà di tenda stava per prevalere, grazie ad un nutrito gruppo di Tendaqualunquisti improvvisamente formatisi, che lui, con le sue doti di paciere, diplomatico e democratico convinto, aveva durato non poca fatica a convincere.

Il tendaqualunquismo era anarchia, l’anarchia era disordine, il disordine era caos, ed il caos stava così male in un quartiere civile e decente come il loro, e poi era del tutto contrario ai principi filosofici ed artistici di Franca.

Mario si era indignato allora, e l’indignazione durava ancora: la democrazia va bene, finché produce risultati in accordo con il buon senso (l’arte, avrebbe detto Franca), altrimenti è solo confusione (“Un bordello” ammise una volta a mezza voce in ascensore, fidando che nessun Tendaqualunquista potesse ascoltarlo). E il buon senso è, come tutti sanno, la caratteristica incarnata dalle persone sensate, delle quali Mario era una, nel proprio condominio (modestamente) la migliore, escludendo Franca ovviamente.

La questione delle tende da sole era stata appena torrefatta, dopo un inverno di quiescenza nelle beghe condominiali, che si era aperta la vicenda della pavimentazione del cortile, poi quella dello sradicamento della palma nana per salvaguardare la pavimentazione stessa con conseguente messa a talea sparsa di sezioni della palmetta in diverse aree del giardino. Lì Mario aveva dato il meglio di sé, contro un nutrito gruppo di Palmazzeratori, tra cui si distingueva l’ingegner Ginocchi del quarto piano, quello che da sempre sapeva girare le parabole dalla parte giusta. Si era fatto scrivere un discorsetto ammodo da Franca, poi, ottenuto un mandato di principio e a malincuore con una maggioranza risicata e ricca di deleghe, aveva girato come una talpa per tutti gli anfratti del giardino, onde individuare tutti gli spazi ancora liberi e più grandi di un fazzoletto, che aveva minuziosamente contrassegnato con sassolini a formare delle croci celtiche. Si era poi armato di ascia ed insieme al portinaio, anche se evidentemente su livelli diversi di competenza tecnica, aveva provveduto a ridurre la palma ad un moncherino, raccogliendo carrettate su carrettate di sotto-moncherini che aveva lasciato sotto tutte le croci celtiche, con effetto leggermente cimiteriale, come quel pesante di un Ginocchi aveva osservato, ma suscettibile di sviluppo e fioritura in futuro.

A suggerire di tirar su le mattonelle dell’atrio e di rimetterle uguali, ma nuove, era stato sempre Ginocchi, spalleggiato dall’evanescente signora Gabbiani, la vedova dell’avvocato (ma nulla a che vedere, per carità) e quella ragazza nuova, magra come un chiodo, che assomigliava a Giorgia, ovviamente (e fortunatamente) con meno voce (un condominio non è una balera, in ogni modo), ma con la stessa inflessione della cantante, una che è nata a Roma, ma ne avrebbe fatto volentieri a meno, specie il lunedì mattina e i giorni di pioggia.

‘Che terzetto’ pensava Mario ‘l’ingegner Fede, la vedova Speranza e la signorina Carità’; le tre Virtù Teologali si erano malauguratamente rese conto che mattonelle di quel tipo erano fuori catalogo; qualcuno dei tre aveva sentito di una ditta di Faenza che forse ne aveva ancora in magazzino, e avrebbe anche funzionato, con gran sollievo di Mario, consigliere di scala, se quel cafone di Gianni Corbelli, uno dei quattro mansardieri, che già avevano dato tanti problemi all’epoca della ricoibentazione del tetto, non avesse osservato, proprio alla fine della riunione di condominio, che “se dobbiamo comprare fondi di magazzino, tanto vale che ci teniamo quel che c’è”. Apriti cielo: immediatamente un partito di Nuoveonientisti si era formato, ed aveva fatto sentire in modo veemente la sua presenza. E l’amministratore aveva aggiornato la riunione, in vista del possibile reperimento sul mercato di mattonelle più confacenti alla bisogna. Così l’atrio era rimasto nello stato indecoroso in cui Mario e Franca l’avevano trovato al loro ritorno da Palau.

Quello che però Franca aveva notato (Mario era più tardo, più diesel, come si autodefiniva) era che i nomi posti sotto il color zucca risultavano prevalenti: ad un’analisi più accurata, i condomini che non avevano ancora firmato erano solo tre, presumibilmente non ancora tornati dalle ferie, oltre a loro naturalmente: di questi tre, una era la simil-Giorgia, su cui non si poteva fare affidamento.

Niente da fare: il giallo canarino era in minoranza, e loro pure.

Era tutto perduto? C’erano soluzioni? Per Mario, no. Ma Franca era un’artista.

“Capisce, professò, il segreto nella tinteggiatura, come dice mi’ mojie, è l’equilibrio tra l’ordine del tutto ed il disordine delle parti interne. Ora, me dirà, professò, che c’entra cor cucuzza, vojio dì er colore, no er frutto. Ecco, è che, da come Franca me diceva ieri a pranzo, er cucuzza è troppo deciso, spiccato, ‘nsomma una tinta che nun solo crea ‘n ordine definito, chiaro. Pure de più, fa come ‘na gabbia, professò” e fece il gesto di un serraglione da ippopotamo, con tanto di vasca e cascatella finta (aveva pure visto, per un caso fortunato, Madagascar 2 con Lella e Bice  il sabato precedente).

Era il vecchio segreto: quando si perde, si rovescia il tavolo. Se le regole ci danno sconfitti, cambiamole, e vinceremo. Purtroppo però la simil-Giorgia voleva il color zucca, ed era decisa ad andare fino in fondo.

Un venerdì sera di fine settembre, tre quarti dei condomini si riunirono informalmente a casa Rossetti per decidere delle plafoniere all'ingresso, che come Franca giustamente aveva proposto, dovevano essere di un modello verdino modernissimo e leggermente picassiano. Questa trovata di ficcarci in mezzo Pablo Picasso, che a Mario non diceva molto, tranne che aveva dipinto quella Madonna che, con licenza parlando, pare abbia l'itterizia, per non parlare del bambino, era comunque la prova del genio di Franca. "Dietro un grand'uomo, c'è sempre una grande donna" si diceva Mario, e benché lui non sempre si vedesse grande, senza dubbio per proprie mancanze pregresse, antecedenti, come si suol dire, Franca era grande, lo era di suo, lo era sempre, e, cosa che non mancava di entusiasmare il suo fedele sposo, lo era sempre di più. Migliorava con gli anni, come il pecorino (paragone che non osò esporle, ma che calzava, eccome).

E poi, che bella donna! Florida, abbondante, perfino pletorica a tratti. Mica come quelle taglia 32, tre quarti e un'asola che vedeva camminare per la strada, tutte convinte e comprese, come se portassero in giro chissà quale preziosa mercanzia. Come la simil-Giorgia, appunto, che arrivò a quella riunione nera d'umore, d'abito e di trucco, tanto per rinforzare il messaggio, e c'aveva dei fusò che parevano due astucci per flauto traverso, mancava solo la chiusura a scatto. Oh beh, c'era da dire ad onor del vero che, quando si alzò per recarsi al bagno (perché nere o non nere, quando scappa scappa) Mario poté notare che qualcosa di interessante e di positivo la simil-Giorgia l'aveva anche lei, qualcosa cui l'inopinata collaborazione dei fusò conferiva un di più inatteso. Ed era una ragione in più per la quale Mario non capiva: perché il cocozza? Tanto più che ad una che vestiva di nero, questa botta di colore sembrava proprio estranea, avulsa.

"E' che qui manca luce" disse la ragazza "è uno degli atri più bui che abbia mai visto…"

"Colpa di Pariani" replicò Panetti, un altro mansardiere "Quando ha costruito, pensava solo a quelli…Poi, una volta incassato, chi s'è visto s'è visto: ci aveva anche promesso lo stenditoio in terrazza, e il giardino con le panchine e i tigli"

"Beh, ma" interruppe Mario "io sono l'ultimo arrivato, poi l'ospite, e quindi non potrei parlare: ma nel giardino, se non ci si sta attenti, ci giocano i bambini"

Alcune voci approvarono.

"E i tricicli…"

"E le macchinine…"

"E le casette delle bambole…"

"Paletta e secchiello magari…"

"I miei nipotini fortunatamente" commentò Ginocchi "non fanno niente di tutto questo: playstation, un gioco e via, poi televisione quando serve e Internet. Pensate che Lorenzino mi ha spiegato come si mandano i messaggini al telefonino, che io ce l'avevo da un anno, ma sapevo solo chiamare casa, eppure sono ingegnere elettronico. Quattro anni, eh? Bambini di oggi, signori miei!"

"Capisco che non vi impressioni la mancanza di luce" disse la ragazza coi fusò con un mezzo sorriso, che però a Mario sembrò un po' arrogante "Ma non è che i bimbi vi ingrassano così?"

"Sempre meglio che diventare come lei…" disse Franca a bassa voce, aggiustandosi sul divano, dove stava sprofondando: Mario le annuì lentamente, ma si sentì un po' strano, confuso. Quella ragazza, mah… doveva essere la crisi di mezz’età, rifletté, calandosi bruscamente una decina d’anni.

La simil-Giorgia non l'avrebbe data vinta sul color zucca, era chiaro, e si oppose anche a riempire il portico interno, per motivi puramente estetici, di piante grasse e spinose. Un'idea di Mario, dopo che Franca aveva osservato che in un condominio per bene non era dignitoso fermarsi accanto alla guardiola del portiere a far conversazione e semmai a consumare bibite e biscotti, come era successo in più di un'occasione, specie sotto Natale. L'osservazione fu raccolta in un silenzio pesante, anche tetro se vogliamo. “Il silenzio della ragione che genera mostri” commentò Franca, a ricordo pittorico di Goya, la ragione, l'ordine, la regola rappresentati da lei, con il braccio secolare di Mario.

Da quella sera, Franca ribattezzò la ragazza squinzia, un termine che era di scherno, scherno ottocentesco d'accordo, ma indubitabile, del tutto giustificabile data la spinosa questione della tinteggiatura, e gli innumerevoli precedenti di beghe condominiali. I due si prepararono, visto che l'atrio del palazzo languiva di prove di colore e pareti seminude e screpolate, alla lotta anti-cocozza, che era anche una guerra di civiltà anti-squinzia: sarebbe stata dura, ma ce l'avrebbero fatta; la vicenda delle tende da sole non si sarebbe riproposta col suo strascico di confusione ed orrore estetico.

Dato che il tavolo li dava perdenti, occorreva rovesciarlo un'altra volta: Franca provvide, giorno dopo giorno, qualche granello di zizzania sulle strane abitudini di quelle che si vestono di nero, le dark, come aveva visto che le definiva l'ultimo numero di Confidenze. Coinvolse messe nere, riti vudù (quello veniva da un vecchio numero di Stop, non sapeva bene cos'erano, ma erano roba magica, roba cattiva, di quella degli esorcisti). "E poi dark è sinonimo di anoressico" spiegò con chiarezza Franca alla signora Goretti, la moglie del ferramenta "Vomitare nella tazza di notte!" aggiunse con un tono misterioso e arcano. Ma la botta finale fu la jettatura: "Nero, quindi dark, perciò fame, miseria, sfortuna, sciagura", libera ed artistica rielaborazione di Franca su uno speciale novembrino di Astra. "Porta male, e diffonde la disgrazia intorno, per irradiazione, come la luna nera", sconfinando decisamente nei tarocchi: Franca guardava tutte le sere la maga Atena su Telelibera.

Mario poté notare con soddisfazione, che la ragazza, cioè la squinzia cominciasse ad essere osservata con una certa preoccupazione, specie dagli anziani del condominio. Il colonnello Bastiani fu anche visto farle le corna dietro, nascondendosi sotto l'impeccabile giacca di grisaglia. Il portinaio tendeva invece a dileguarsi con moglie e figlia ad ogni apparizione della simil-Giorgia, adducendo i motivi più vari. Squinzia era un termine di Franca, artistico, poetico insomma, un termine che Mario non avrebbe mai osato utilizzare, anzi trovava che, malgrado rendesse l'idea del fastidio che la ragazza stava dando loro, non descrivesse il soggetto. Squinzia dava una sensazione di guance gonfie, di bombe alla crema, magari un po' raggrinzite, forse del giorno prima, però prestava alla simil-Giorgia una corporeità che non aveva...beh non dappertutto. Ma l'azione ormai scalpitava e non voleva concedersi requie: Franca stava scivolando sul ciglio di un attivismo senza confini. Diventava esigente, quella donna, come solo le grandi donne sono.

Accadde un sabato mattina che la simil-Giorgia, quando scese a tirar fuori la bici dalla cantina, che era l'ultima in fondo ad una lunga fila, vedesse per terra una decina di semini, di chiodini senza testa. Se l'era cavata per il rotto della cuffia, ma tornando dalla sua passeggiata, non aveva potuto evitare altrettante puntine da disegno nello stesso posto. Aveva forato entrambe le gomme: Mario l'aveva vista entrare, quasi correndo, dal ciclista. "Ah, questi giovani, che corrono sempre verso il nulla" aveva commentato con l'amico dell'edicola.

Il mercoledì successivo la ragazza aveva trovato il tergicristallo della sua Matiz piegato a 120 gradi, forse per il vento.

Il venerdì scoprì che un libro che le era stato spedito era giunto con la busta mezza strappata e rovinato e scarabocchiato in più parti.

La domenica pomeriggio finalmente scivolò misteriosamente su un'improvvisa macchia d'olio, proprio mentre Mario transitava in cortile con la radiolina all'orecchio.

La vide senza guardarla, poi istintivamente allungò un braccio, come non faceva da anni:

"Permette una mano?" si stupì di dire.

"Anche due" disse lei.

"Una caduta sfortunata: si è fatta male?" disse intascando la radiolina, ancora accesa e formicolante.

"Una settimana difficile, diciamo"

Era leggera nella mano, ed aveva un palmo insospettabilmente caldo e liscio, come quello di una bambina: la guardò distrattamente, con una pigra sollecitudine; lei gli sorrise appena, un po' scocciata, ma stavolta gli sembrò meno arrogante, anzi ebbe come l'impressione che stesse per piangere. Mario arrossì violentemente. La guardò rassettarsi ed andar via, e si ricordò della sera della riunione. Provò allora una strana sensazione, come di cantare, di volare, qualcosa del genere, tirò fuori la radiolina dalla tasca, la spense, e la proiettò in aria, da dove per fortuna la riprese. Temette che Franca lo stesse guardando dal balcone: si allontanò fischiettando. Sapeva che sul cocozza non l'avrebbe mai convinta: però, quei fusò…

© Carlo Santulli





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