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Il Pruìn
di Gianni Caspani
Pubblicato su SITO


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“Stamattina è morto il Pruín”.

Il dottor Sebastiano Perlini era arrivato in città con il treno delle dieci di sera.
Una stazione desolata e sporca fu il primo impatto con quel borgo mal cresciuto intorno a fabbriche che ingoiavano le giornate degli uomini e compensavano con scarni salari e denegati diritti le polveri d’amianto, di cascami, di terra di fonderia, respirate con indifferenza finché, un paio d’anni dopo la pensione, comparivano agli angoli delle strade i cartelli bordati di nero con un nome, un’età che non superava di molto i sessant’anni e l’irridente postilla: pensionato della Ditta Tal de’ Tali, quasi fosse un titolo nobiliare o una credenziale da esibire a Caronte.
Un ferroviere assonnato o, più propriamente, sfigato, lo scortò fino al vagone portabagagli da cui un facchino scaricò un baule di skai verdastro, con pretenziose borchie di alluminio brillante agli spigoli e un lucchetto spropositato a rinserrare l’universo patrimonio del dottor Sebastiano Perlini, rimbalzato da borghi abruzzesi a ricoprire il posto, allora prestigioso, di segretario comunale.
“Se ha fortuna, fuori trova ancora il taxi. Altrimenti può lasciare i bagagli al deposito e tornare a riprenderli domani. Non è un deposito vero e proprio, per la verità, ma nella sala della biglietteria c’è un armadio grande e possiamo tenere lì la sua roba”: il ferroviere aveva un fare vagamente derisorio di quelle che, pensava, fossero le aspettative del viaggiatore rispetto ai servizi forniti dalla stazione, pensiero determinato dal fatto di averlo visto scendere dalla carrozza di prima classe.
In effetti, salvo l’onda di migranti dal sud, conosciuta negli anni del boom economico, con i loro fardelli dalle fogge e contenuti fantasiosi e lo sconsiderato avventurismo che li faceva sbarcare dal treno senza un posto dove andare e con una appena vaga prospettiva di trovare occupazione in una fabbrica o in un cantiere, la stazione ferroviaria non viveva che il traffico pendolare verso il capoluogo.
E, per il quotidiano carico d’umanità desolata, offriva lo stretto necessario: l’orario meramente teorico delle corse; i sedili di legno surriscaldati da un impianto elettrico sparato a palla sotto il culo, a favorire moleste infiorescenze emorroidali; i finestrini perennemente bloccati a mezz’asta in cursori arrugginiti, non certo per mitigare con perfidi spifferi gli eccessi del riscaldamento, ma solo per concedere opportunità di malanni alternativi ai viaggiatori; le sale d’attesa lerce e disumane che, a dispetto della suddivisione classista tuttora vigente nel sistema ferroviario italiano, pareggiavano le categorie con una democratica elargizione di fetori ed untumi; una tettoia per dare riparo alle biciclette su cui ogni giorno arrivavano i disgraziati definiti, con ipocrita magniloquenza, utenti del servizio.
“E’ fortunato, signore, il Pruín è arrivato proprio adesso”.
Il dottor Perlini uscì sul piazzale della stazione, avvolto in una foschia caliginosa e putrescente e si avvicinò a una vecchia Appia posteggiata davanti all’uscita.
Il tassista guardò con evidente insofferenza il voluminoso bagaglio del nuovo venuto, fece mostra di dare una mano a caricare il baule nel bagagliaio, lasciando di fatto l’incombenza al ferroviere e al viaggiatore; salito in macchina buttò il giubbotto nero di similpelle consunta sotto il sedile, accese un mezzo sigaro e disse: “Che idea di arrivare qui, a quest’ora e con questa nebbia. Dove la porto?”
Il dottor Perlini diede l’indirizzo.
“Arriva in ritardo di qualche anno, amico. Hanno sbaraccato tutto nel 58. Lo dovrebbe sapere”, e il cachinno stridulo e petulante del tassista avvolse il cliente, che rimase a guardarlo tra l’interrogativo e lo sbalordito.
“Cosa sta dicendo?”
“Viene dal Congo, forse? Lo sanno tutti che al 13 di via Giovenale c’era il casino” e la risata si assottigliò in un risolino d’intesa, a lasciar capire che lo scherzo era buono, ma “adesso mi dia l’indirizzo vero, che la porto e vado a dormire anch’io, che è dalle sei che sono in piedi, cazzo badile, e se ho fatto tremila lire è tanto”
“Davvero devo andare in via Giovenale 13” e il tono del dottor Perlini si incrinò appena di leggero affanno.
“Così ce l’ha fatta, il vecchio pescecane. E’ riuscito a piazzare l’elefante bianco. Ma gliel’ha venduta o è in affitto? Che maiale, dio canguretto. Scommetto che non le ha detto niente. Crede forse di trovare una casa da viverci? Sono sicuro che il vecchio cravattaro ha lasciato ancora i lavandini nelle stanze, le tappezzerie da bordello e il bancone della Mammarosa. Avrà da divertirsi”.
Le esclamazioni, gli interrogativi, le affermazioni furono buttate lì di filato, senza lasciare all’interlocutore il tempo di rispondere, di interrompere, di chiedere chi fosse il porco che piazzava elefanti bianchi, di realizzare il puzzo del bidone che quelle parole sottintendevano.
“Beh, andiamo”, disse quindi il tassista, “per strada le conto la storia. Fumi pure, se vuole. Veramente il regolamento del comune lo proibisce. Ma fumo sempre anch’io”.
“Vorrà dire che domani chiederò al sindaco di sospenderle la licenza. Sono il nuovo segretario del comune. Non glielo dico per minaccia o per vendetta, ma solo per ripagarla dell’imbarazzo in cui mi ha messo con le sue parole”.
Stavolta fu il dottor Sebastiano Perlini a sogghignare con compiacimento, ma subito desistette, accorgendosi che il tassista era rimasto indifferente alla sua sfida, di cui aveva intuito il sottofondo di bonaria ironia
“Mi racconti la storia, comunque. E mi dica chi è il maiale”.
“La storia è lunga e magari ci sarà un’altra occasione. Per adesso le basti sapere che dopo la chiusura delle case di tolleranza, la banca locale si è mangiata la villa, strozzando il proprietario che si era impegolato di debiti con cavalli e puttane. Non le poveracce che facevano marchette in casino, ma le signore della buona società che non sono neanche brave a scopare, ma ti costano come una carovana di troie. Il porco è il presidente della banca. Un usuraio schifoso che è ingrassato tutta la vita sul lavoro degli altri, cazzo maria: proprietario di fabbriche e di cantieri, esoso come un giudeo con i clienti in difficoltà, a cui apre canali non ufficiali di prestiti, per togliergli alla fine anche le brache. Finanziatore però di parrocchie, padrino di prime messe e in prima fila alla processione del santo patrono, con il sindaco, l’arciprete e il capitano della finanza, che mantiene e a cui tromba la moglie. Poco. E senza entusiasmo. Tanto per farlo e darsi un tono”.
L’auto procedeva dolcemente nelle strade poco illuminate della periferia e il dottor Perlini si faceva cullare dal ronfo tranquillo del motore, dalle parole evocatrici dell’interlocutore, abbandonato sul velluto maleodorante del sedile impregnato di fumo e di umani afrori.
Nonostante il quadro che il tassista gli andava tratteggiando, non sembrava preoccuparsi. Semmai lo incuriosiva il pensiero di andare ad abitare in un luogo che era stato ricettacolo di vizi più o meno veniali. Lo solleticava il pensiero di rimettere piede in un casino, certo non molto diverso da quello frequentato a Roma, negli anni dell’università, risparmiando sul micragnoso appannaggio paterno e sui proventi di qualche ripetizione impartita. Lo divertiva soprattutto l’idea che un segretario comunale, a quei tempi annoverato di diritto con il prete il farmacista il maresciallo dei carabinieri e il direttore della banca nelle aristocrazie locali, avrebbe abitato in un ex casino, con scandaloso disdoro e spregevole vilipendio della classe borghese arroccata in difesa dei suoi valori artificiali e disattenta a un mondo che stava cambiando.
Di lì a qualche anno, quella borghesia avrebbe fatto i conti con le università occupate, con le piazze in rivolta per una nuova dignità del lavoro o contro la guerra del Vietnam e il terrorismo neofascista, con le femministe che elevavano al cielo il simbolo della fica (che roba, contessa). E si sarebbe affacciata attonita e impaurita su quelle piazze, sorpresa come se non ci fossero stati i segnali di un’acquisita coscienza della classe operaia in quelli che erano i suoi diritti, di una crescente partecipazione del popolo alla politica, di una cessata acquiescenza ai tradizionali opinion leader, rappresentati dai maggiorenti del potere economico e dai loro caudatari ecclesiali, dispensatori fino a pochi anni prima di scomuniche all’elettorato comunista e di sermoni domenicali volti a sopire il nascente dissenso a un sistema di potere distante dai bisogni della povera gente che con il proprio lavoro contribuiva alla ricostruzione postbellica, senza aver parte ai vantaggi generati dalla crescita economica del paese.
Per adesso avrebbe solo subito la fragile onta di un suo esponente poco omologato, indifferente al perbenismo indossato come un mantello a celare gli abiti fetidi di una classe senza ideali e senza cultura.
“Ecco, siamo arrivati”.
“Quanto le devo?”
“Non voglio niente”
“No. Non accetto favoritismi. Né arruffianamenti…”
“Guardi che non ha capito”, lo interruppe il tassista, “Né favoritismi, né arruffianamenti. Non me ne frega niente, se lei è il segretario comunale. Anche a Mammarosa e alle sue ragazze non facevo pagare i servizi. E adesso nel casino abita lei. E’ giusto che anche per lei sia gratis. Almeno stavolta”.
“Senta, ho una bottiglia di cognac francese nel baule. Se non è troppo stanco, visto che mi ha detto che si è alzato alle sei, ci facciamo una


bevuta e mi racconta qualche storia di via Giovenale”.

Aveva proprio ragione il tassista: appena varcata la porta d’ingresso e girato l’interruttore posto vicino all’entrata, rilucette in tutto il suo sontuoso squallore l’arredamento da casino del salone d’entrata. Non mancavano, nell’angolo a sinistra al piede della rampa di scale, il bancone e lo sgabello da cui Mammarosa sorvegliava il movimento nelle ore di apertura: in un vaso sul piano del bancone un fascio di pervinche freschissime.
“Sono proprio finito in un casino…”, disse il Perlini con artefatta nonchalance.
“Credo che ci troverà proprio tutto davvero, tranne l’unica cosa che vale la pena di trovare in un posto così. Vale sempre l’offerta del cognac?”
“Sì, se mi aiuta a portare dentro il baule”.
Sebastiano Perlini si guardava intorno per valutare la sua nuova abitazione: un minimo di pulizia doveva essere stato fatto prima del suo arrivo; qualcuno aveva ripristinato i contatti nell’interruttore generale, i bicchieri prelevati da uno stipo nell’angolo del salone erano tersi e il rubinetto del lavandino dove li aveva sciacquati prima di versarvi il cognac non aveva emesso l’acqua scura tipica delle tubature a lungo inutilizzate.
“Come si chiama?”, chiese il Perlini, versando il cognac. “Il ferroviere l’ha chiamata con un nome che non sono riuscito a capire”.
“Ha detto Pruin. Le racconterò. Mi chiamo Clemente Aldrovandi. Sembra il nome di un papa. Ma nessuno, quasi, mi conosce con questo nome. Andrà benissimo Pruin. Siamo anche nel posto giusto”.
Il tassista si alzò dal divano dove si era seduto: “Le spiace se ci cambiamo di posto, dottore? Mi piacerebbe sedere di fronte alla scala. E’ come guardare una vecchia fidanzata”.
“Prego”, ghignò ironico il Perlini.
“Sa”, continuò poi Clemente Aldrovandi, “è stata proprio lì, su quelle scale, la mia prima volta”.
“Non dica cazzate”.
“Non è una cazzata: la Francese, la chiamavamo Frou-Frou, saliva davanti a me e già il movimento delle ragazze nel salone e i loro vestiti molto essenziali, e poi il rollio delle chiappe della Francese sulla scala proprio all’altezza dei miei occhi mi avevano portato a un buon punto di cottura. Il grammofono suonava la Danza delle Damigelle dalla Bella Addormentata di Tchaikovsky. Me lo ricordo come se fosse adesso. A un certo punto lei si gira verso di me e dallo scollo dalla camicetta esce una tetta piena. E così si celebrò la prima volta di Clemente Aldrovandi, con il nome da papa. Come un pirla, in piedi su quella scala, figabestia, deriso dalla Francese e travolto dalla mia frustrazione stupita. E quella stronza ha anche preteso la marchetta”.
Lo sguardo del Pruin si arrampicava su per quei gradini quasi a rincorrere i ricordi tra le vestigia dei decenni trascorsi e a rivivere quel gioco di tetta che gli aveva provocato quella precocissima eiaculazione da record del mondo.
“Mammarosa però fu grande e mi regalò un’altra marchetta: -Torna domani sera, mi disse, e semmai fatti qualcosa da solo prima di entrare, così non ti vieni addosso. Vedrai tua madre come s’incazza, quando ti laverà le mutande-“.
Il dottor Perlini contemplava il liquido ambrato nel suo bicchiere, assorto in un pensiero che l’aneddoto del Pruin non riusciva a sopire.
“Non le sembra strano, il tutto? Nessuno si è dato la pena di modificare questo allestimento da casino, ma tutto è tirato a lucido, come se avessero fatto le pulizie di pasqua. L’acqua è uscita subito pulita dal rubinetto, le tende delle finestre profumano di bucato recente, il pavimento risplende, i termosifoni sono caldi. Si direbbe una casa abitata”.
“Può darsi che quel vecchio coccodrillo del commendatore, in un barlume di insania dissipatrice, abbia incaricato qualcuno di prepararle l’alloggio. Da chi ha ritirato le chiavi?”
“Me le ha spedite per posta. Non sapeva neppure in che giorno preciso sarei arrivato…”
“Beh, non mi sembra il caso di darsi pensiero. Io me ne vado. Avrà tante cose da fare. Grazie per il cognac. In caso le servissi, questo e il mio biglietto con il numero di telefono di casa e della stazione. Non sarà sempre gratis. Ma forse diventeremo amici”.
“Non vuole fare un giro di sopra? Una specie di rimpatriata”.
“Ho capito, le serve una mano per il baule. Perché no? E’ tanto tempo che non salgo quella scala”.
“Non dicevo per il baule. Lascio tutto qui e domani porto su quello che mi serve. Credevo solo che le sarebbe piaciuto rivedere il suo campo di battaglia”.
Le porte delle camere del piano superiore erano tutte aperte e dai vetri delle finestre entrava il chiarore tenue dei rari lampioni della strada, avvolta in una nebbia lattiginosa, a illuminare parcamente gli ambienti, evidenziando la silouette degli arredi, senza mostrarne i particolari.
Il dottor Perlini accese la luce di una camera qualsiasi: un letto con una coperta di broccato pretenzioso, un abatjour su un comodino, una toilette con la specchiera di falso settecento veneziano sulla parete di fondo, tendoni alle finestre in pendant con il broccato del letto avvolti da un cordone intrecciato con nappa, in un angolo l’immancabile lavabo e il bidet di ceramica appoggiato su un supporto di ferro battuto per le indispensabili abluzioni, con la biancheria da bagno candida e pronta per l’uso. Ai piedi del letto un canapé, sulla cui spalliera era appoggiato un negligè che sembrava appena smesso. Alle pareti una tappezzeria pulita e ordinata, con un trompe-l’oeil lascivo sopra la testiera del letto e un dipinto erotico a lato della specchiera. Incollata sullo stipite della porta una maiolica vezzosa con il nome Adalgisa dipinto in caratteri svolazzanti.
“Non manca proprio nulla. Se ha comperato lo stabilimento con tutto quello che contiene, potrà allestire un mercatino dell’usato come si deve. Troverà certo gli estimatori”.
Così dicendo, il tassista si era avvicinato al letto, scostando la coperta di broccato. “Ci sono anche le lenzuola”, disse. E poi: “Peccato, sono state lavate. Si è perso tutto il profumo. Almeno una camera è pronta per l’uso. Vada a letto, dottore. Sono certo che i suoi sogni saranno deliziosi”.
Diedero un’occhiata a tutto il piano. Anche le altre camere erano nelle stesse condizioni, con l’antico arredamento, la biancheria da letto e da bagno fresca di bucato. Solo dopo aver visionato cinque o sei stanze realizzarono consciamente un particolare che sembrava assurdo per una casa abbandonata da anni, per quanto recentemente ripulita: sul ripiano delle toilette, davanti alle specchiere, erano posati grandi vasi con le stesse pervinche azzurro-violacee che ingentilivano il banco della Mammarosa.
“La pervinca, simbolo dell’immortalità e del ricordo, fiore prediletto da Jean Jacques Rousseau e molto usato dagli stregoni celti nei loro riti”, proferì l’Aldrovandi con lo sguardo perso nel vuoto.
“Nell’Inghilterra del medioevo con le pervinche intrecciavano ghirlande che i condannati a morte infilavano al collo prima di salire al patibolo: una specie di sfida al potere. O di autoironia…”, proseguì in un tono di voce smorzato, che al dottor Perlini parve giungere da una dimensione lontana nel tempo.
“Queste pervinche vogliono forse simboleggiare la continuità delle sacre istituzioni patrie…”, si provò a scherzare il Perlini.
“Già, ma contrastano con il cinismo, la rozzezza e la tirchieria di quello squalo”, lo interruppe pensieroso l’Aldrovandi, attingendo al suo vasto repertorio di epiteti nei confronti del banchiere, “Chissà chi avrà messo tutti quei fiori”.
“La donna che ha fatto le pulizie, forse…”
“Sì”, lo interruppe il tassista con uno sguardo di commiserazione, “e li ha pagati attingendo al ricco salario che le passa quell’arpia”.
Continuarono l’esplorazione, l’uno con divertita curiosità, l’altro con la commozione di chi torna su luoghi rimpianti.
In fondo al corridoio una sala da bagno dagli smalti impeccabili e una scaletta di legno che portava a una specie di mansarda.
“Lassù vivevano le ragazze e la Mammarosa, nelle ore di chiusura”, disse il Pruin atteggiandosi a cicerone. “Se tanto mi dà tanto, nella cucina ci potrebbe essere anche da mangiare. Vogliamo fare un salto su?”
“Non mi dica che era di casa anche nel settore privato…”
“Dappertutto. Qualche volta le racconterò”.
“La riaccompagno sotto. L’occhiata in cucina la darò domani”.
Dopo la partenza del tassista, il dottor Perlini si versò un altro cognac, ridacchiando tra sé per quella strana avventura.
Guardò l’orologio: aveva una voglia matta di chiamare al telefono il commendator Chiarini, tirarlo giù dal letto e chiedergli cosa gli era venuto in mente di affittargli il vecchio casino.
Poi ritenne di lasciar perdere. Dopo tutto il prezzo dell’affitto, confrontato con quel po’ po’ di struttura, quel salone vasto da perdercisi dentro, come nella navata di una chiesa, una decina di camere, il piano mansardato che non aveva ancora visto, non era diverso da quello di una decorosa villa di una città di provincia.
Decise che per il momento andava bene così.
Cercò nel baule un pigiama. Prese anche un completo principe di Galles per il giorno dopo, lo appese a una gruccia per abiti e lo appoggiò sul banco della maitresse. Tolse una borsa con gli effetti da toilette e risalì sullo scalone.

Ripercorse il corridoio, come per scegliere in quale camera avrebbe dormito. Accese la luce in tutte le camere. Tutte uguali. Le uniche differenze erano rappresentate dalle scenografie dei trompe-l’oeil e dai soggetti dei dipinti, appartenenti tutti comunque a un genere non precisamente da convento di clarisse.
Si affacciò alla camera con il nome Ramona dipinto sulla piastrella di ceramica.
Mentre spegneva l’interruttore si sentì gelare: con la coda dell’occhio gli parve di intravedere, seduta sulla sponda del letto, una cocottina avvolta in una vestaglietta di voile che si stava infilando una calza di nylon accompagnandola con una carezza distante sulla coscia diafana e tornita, gli occhi chiusi a rincorrere un sogno, una canzonetta appena percepibile sussurrata tra le labbra socchiuse: “Come sei bella, più bella, stasera, Mariù…”
Riaccese subito la luce: lo specchio sopra la toilette, posto proprio di fronte alla porta rifletté la sua immagine stupefatta nel riquadro della porta, a cui l’accostamento al vaso di pervinche conferiva il sapore di un ritratto del seicento fiammingo, il letto intatto e il vuoto assoluto che avvolgeva la camera.
“Scherzo della fantasia”, pensò. “Peccato”. E spenta di nuovo la luce, chiuse la porta.

I sogni non furono deliziosi come aveva predetto il Pruín: visioni confuse di baccanale, con figuranti vestiti da antichi romani, si succedevano nel subconscio del dormiente, intervallate dall’apparizione di un giudice in toga ed ermellino che puntava il dito contro di lui e urlava: “Una vera indegnità… Un funzionario dello stato sorpreso nell’orgia in un lupanare… Vergogna, vergogna…” e di un prete in cotta e pianeta nera da rito funebre che tuonava: “Il giorno del giudizio… Dies irae… Il fuoco dell’inferno per l’eternità… La frusta terribile di Dio si leverà contro i peccatori …” e del sindaco, che pure non aveva ancora conosciuto: “Cosa dirà il prefetto?... Appena arrivato e già segnato a dito dalla cittadinanza per la sua depravazione… In una città cattolica… In una nazione cattolica… Neanche un comunista…” e della madre desolata: “Sebastiano, ragazzo, i nostri sogni… le nostre speranze… Tutto svanito per queste donnacce… Non è così che ti avevo insegnato…”. E sul fondale dei suoi sogni una cascata di pervinche e file di condannati a morte con le loro ghirlande del fiore dell’immortalità nell’Inghilterra del medioevo…
Ma la luce dell’alba filtrata dalle gelosie che aveva dimenticato di chiudere lo trovò riposato e sereno, pensando al lavoro, che avrebbe cominciato tra un paio di giorni, per la prima volta in una sede importante, almeno rispetto ai villaggi abruzzesi in cui aveva compiuto il suo noviziato, già vagheggiando la segreteria generale di qualche importante città capoluogo o Amministrazione provinciale del nord.
Riempì la vasca da bagno con acqua piacevolmente bollente, vi versò un’abbondante manciata di sali profumati che aveva trovato su una mensola, apparentemente senza cogliere quanto fosse improbabile la loro presenza in una casa a lungo disabitata, ma inconsciamente arrovellato da quella continua sensazione di tessere di mosaico che non combaciavano con il disegno complessivo, vi si immerse e vi rimase immobile ad occhi chiusi.
Finite le abluzioni e le altre operazioni di ripristino mattutino, salì in mansarda per esplorare il resto della casa.
Sul tavolo della cucina, vicino all’ennesimo, immancabile vaso di pervinche, lo attendeva una tazzina di caffè fumante. Sul fornello una moka sprigionava l’aroma intenso della bevanda.
Si precipitò giù dalle scale. Corse al telefono posto sul banco della maitresse e chiamò il Pruín.
Lo trovò al numero della stazione.
“Devo vederla subito. Voglio capire cosa succede qui”.
Clemente Aldrovandi fu lì senza indugio.
Gli raccontò del caffè e dei sali da bagno.
Salirono insieme nella mansarda.
“Che posto è questo?”, chiese Sebastiano Perlini.
“Ci sono più cose tra cielo e terra di quante tu possa comprendere con la tua filosofia. E’ Shakespeare, dottore, ricorda? Comunque, visto che mi ha fatto venire qui, beviamolo, questo caffè”.

Tornarono nel salone a piano terra, sedettero sui divani, per un po’ assorti in silenzio a contemplare gli interrogativi che affollavano la loro mente.
“E’ bella, quest’esperienza che lei sta vivendo”, disse il tassista, dopo che il dottor Perlini gli ebbe raccontato la storia della cocottina che cantava Parlami d’amore, Mariù, intravista in un lampo nella camera di Ramona, subito sparita davanti ai suoi occhi.
“E’ la prova che nulla va perduto delle esperienze degli uomini”, riprese, “del resto, in questa casa si sono dipanate storie intense, sono passati uomini e donne con i loro drammi, le loro fatue passioni, le loro ansie di evasione, le loro frustrazioni e le loro aspettative. Il casino non è solo un luogo dove peccare disperdendo il seme”, concluse con accattivante filosofia.
“Quello stronzo del comendator Chiarini deve darmi qualche spiegazione”, disse il segretario comunale.
“Cosa vuole che sappia dirle, quel vecchio tricheco. L’unica cosa che riesce a comprendere sono i quattrini che imbottiscono gli uffici della sua banca. Concluderà soltanto che lei è un pazzo”.
“Ha paura dei fantasmi?”, chiese poi il tassista.
“Ma non dica coglionerie”.
Prese la risposta come una smentita dell’ipotizzato timore.
“Allora si sistemi a suo agio e viva questa storia con naturalezza. Le dimensioni temporali si mischiano: nessuno è sempre solo vivo o solo morto. Se fosse tutto così semplice, la storia degli uomini sarebbe banale”.
Clemente Aldrovandi si tolse il giaccone e si rilassò sul divano.
Prese a raccontare: “Prima di tutto, completiamo la presentazione. Il mio soprannome, Pruín, deriva dalla simpatia che si creò tra me e Mammarosa fin dal mio debutto sul palcoscenico di via Giovenale. Dopo l’episodio del regalo della marchetta, mi prese a benvolere e mi trattava come uno di famiglia. Mi offriva il caffè, anche nelle ore di chiusura dello stabilimento. Io la ricambiavo con la mia disponibilità a svolgerle mille piccole commissioni, dal farle le raccomandate alla posta, a sostituire le guarnizioni dei lavandini, a dare una mano di vernice alla cancellata. Quando morì mio padre, continuai il suo mestiere di tassista e divenni lo chauffeur ufficiale della ditta e per Mammarosa e le sue ragazze il servizio, come le ho già detto, era sempre gratis. Erano gli anni del ventennio. Il casino era frequentato da tutto lo stato maggiore fascista e a loro maggioravo i prezzi delle corse, per compensare i servizi gratuiti. Spesso c’erano feste e allora l’accesso dei clienti veniva sospeso, per lasciare spazio alle gozzoviglie private di quei parassiti che stavano mandando l’Italia, come si suol dire, a puttane, mentre loro a puttane ci andavano non in senso figurato. Per alcuni di loro, il casino era l’unica attività politica. Io non avevo un mio pensiero, ma non sopportavo quelle magniloquenti e fatue divise, esibite a coprire la loro nullità. Mi dava fastidio soprattutto il contrasto tra quel lusso e quello sperpero sfacciato e la fatica delle persone normali nel tirare avanti nelle loro esistenze racchiuse tra le parentesi della fabbrica e dei muri di casa. E quando questa gente normale cercava evasione in casino, magari si trovava la porta sbarrata, perché era sera di festeggiamenti per la conquista dell’impero, per il compleanno del federale, per celebrare uno qualunque degli immancabili destini…”
“E allora divenne antifascista”.
“Invece non me ne fregava proprio niente. Ero un totale qualunquista. Era solo una questione di antipatie e simpatie di pelle. Mi stavano sulle palle i fascisti, mi piacevano le ragazze e gli operai e gli studenti che venivano a spendere in fretta la loro marchetta del costo più basso. Tra i clienti assidui, il mio mito era il Nudar purcell”.
“Chi?”
“Il Nudar purcell. Il Notaio porcello. Così detto per via della sua professione e per il fatto che passava più ore in via Giovenale che nel suo studio di piazza Risorgimento. Arrivava tra i primi, già nelle ore morte, si sedeva a un tavolino laggiù, leggeva il giornale, beveva champagne, discorreva con Mammarosa, se non era occupata a gestire il traffico, declamava poesie alle ragazze mentre le pomiciava con bonomia scherzosa da vecchio sporcaccione e gli proponeva avventure da sogno. Negli ultimi tempi, riceveva lì gran parte dei suoi clienti, per il lavoro preparatorio degli atti, che concludeva poi controvoglia nella sede ufficiale della sua pubblica funzione. La sua specialità erano i testamenti stilati in casino: diceva che il luogo ispirava alle coscienze l’amore universale e la generosità anche verso i parenti meno amati. E che la sottoscrizione dell’atto, quali testimoni, di Mammarosa e di qualche ragazza conferiva un valore inestimabile al documento legale. Quando si decideva a utilizzare la casa per la sua destinazione effettiva, si lasciava andare a sciali da Sardanapalo: prendeva sempre due o tre ragazze per volta, pagava per tutte marchette da un’ora, si faceva servire altro champagne in camera, ritornava a piano terra saziato e congestionato, per tornare a occuparsi di rogiti e testamenti. Un tardo pomeriggio di un’estate lontana, il festino si concluse in una coppa di champagne rovesciata sul letto, in un rantolo agonico e in urla di ragazze. L’ufficiale sanitario, fatto accorrere in gran fretta da Mammarosa redasse, avvolto in malinconiche elucubrazioni, un asettico certificato di morte, sistemò con discrezione la faccenda, facendo rimuovere la salma e pretese, a compenso della sua disponibilità, di proseguire il festino in una camera vicina con altre ragazze”.
“Stupefacente”, commentò Sebastiano Perlini, “e il soprannome Pruín?”
“Mammarosa era una professionista seria. Ci teneva al buon nome della ditta ed esigeva la massima efficienza. Le premeva che le ragazze fossero all’altezza, non solo per avvenenza, ma soprattutto per bravura. Divenni il collaudatore di casa. Come si fa con le autovetture. Quando arrivava qualche ragazza nuova, la provavo. Il provino, insomma: in dialetto, Pruín. Tutto qui, semplicemente, con grande soddisfazione di tutti. Alla fine facevo a Mammarosa una specie di relazione e se la ragazza non era il massimo dopo pochi giorni se n’andava in un’altra bottega. Ma ero buono: trovavo in tutte una loro particolare abilità e non ho protestato quasi mai le forniture. Solo di una volta, mi ricordo: una bonazza che mi aveva detto che avrebbe voluto fare un figlio con Galeazzo Ciano. Una bestia così non poteva tenere alto il profilo di via Giovenale”.
La gioviale facondia del Pruín avvinceva il dottor Perlini e gli faceva scordare i misteri che impregnavano la sua nuova dimora. Stava ad ascoltare le parole che gli giungevano da una dimensione perduta e lo rilassavano, per la piacevolezza e la soffice lubricità degli aneddoti, immergendolo in un’atmosfera di trasgressioni quasi innocenti.
Il racconto del tassista, che forse il suo interlocutore non stava più neanche a sentire, serviva a riportare in una situazione di regolarità anche le visioni che lo avevano, se non proprio sconvolto, alquanto turbato. Gli pareva che quei fatti narrati riportassero a una nuova vita la casa deserta o riconducessero lui a esperienze del passato non vissute direttamente, che riscrivevano il suo presente, come in una novazione temporale, dentro un contesto storico che diventava così pienamente suo.
Non sarebbe stato in grado di riportare con parole quella riflessione che si andava consolidando nella sua mente, ma ne avvertiva serenamente la normalità, superando la sensazione di turbamento che aveva accompagnato le prime esperienze vissute nella nuova casa.
Fu distratto da quel rimuginare dal gesto del tassista che gli scosse il braccio interrompendo la sua narrazione: “Ma lei non deve andare a lavorare? Avremo tempo per queste storie…”
“Non oggi. Sono venuto un paio di giorni prima per sistemarmi. Piuttosto lei dovrà lavorare…”
“Ho più di sessant’anni, dottore. Continuo a guidare la macchina più per passare il tempo, che per necessità. Vivo solo e non ho più nemmeno le piacevoli occupazioni dei bei tempi andati. Non sono l’unico tassista di questa città. La mobilità urbana non soffrirà, se mi prendo un giorno di vacanza. Sa cosa facciamo? Le do una mano a sistemare le cose e poi la porto a vedere Como. Conosce Como? Conosco un posto dove si mangia bene il pesce. E poi, a Como si è trasferita la Duchessa, dopo che hanno chiuso il casino. Almeno si distrae dalle sue visioni…”
“Ma quali visioni? Il caffè l’ha bevuto anche lei. E non l’ho preparato io”, lo interruppe il dottor Perlini, “Comunque le sue storie mi sono servite per farmele sembrare del tutto naturali. Vada per Como, con grande piacere, e magari vada anche per la Duchessa”.
“Non si faccia illusioni. Da quando si è chiuso, ha chiuso davvero. E poi per lei è troppo vecchia”.
“E allora Como sia, con pesce e senza puttane”.
Salì di sopra, per prendere qualcosa nell’ultima camera del corridoio, che aveva eletto a sua stanza da letto.
Chissà perché, si fermò un istante sulla soglia della terza camera, quella contraddistinta dalla maiolica con il nome Dorotea: sul letto era rovesciata una coppa di champagne. Ancora bagnata. E ancora con il profumo della bevanda preferita dal Nudar purcell.

Era trascorso qualche anno, dall’insediamento nell’ex casino del dottor Sebastiano Perlini, segretario comunale della città e dall’accadimento di quei piccoli eventi misteriosi che lo avevano accompagnato e che comunque continuarono a ripetersi di tanto in tanto, affascinandolo più che sconvolgerlo.
Il vento di rivoluzione, rivelatasi fittizia, che aveva soffiato nelle fabbriche e nelle scuole alla fine di quegli anni sessanta era passato come una inavvertita brezza in quella ottusa città della provincia lombarda, provocando solo qualche inavvertibile increspatura sulle acque di una palude refrattaria agli sconvolgimenti sociali.
Unico effetto, una attenuazione del predominio elettorale della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati e la comparsa a sorpresa di qualche giunta di sinistra in alcuni comuni dei dintorni che fu accolta con qualche iniziale preoccupazione dalla massoneria locale, incarnata dalle associazioni di categoria e dai circoli esclusivi della borghesia cittadina.
Si capì però ben presto, con soddisfazione, che i privilegi reali non sarebbero stati comunque intaccati: al massimo si sarebbe pagato il prezzo di qualche esproprio non velenoso dei terreni necessari per la costruzione di scuole o di circonvallazioni.
L’importante era poter proseguire con lo sfruttamento selvaggio del territorio, realizzando disumane periferie tentacolari, che si espandevano come avviluppante gramigna dove prima erano campi e brughiere; sversando scorie industriali nel fiume cittadino; facendo palanche con fabbriche decotte e private del necessario rinnovamento tecnologico, fino a giungere alla definitiva decadenza del settore industriale, a crisi occupazionali cicliche da cui i padroni uscivano sempre più grassi, trasformandosi in speculatori immobiliari delle loro aree dismesse, e i lavoratori progressivamente prosciugati, convertiti a mansioni despecializzate o espulsi prematuramente dal mondo produttivo e posti a carico degli istituiti previdenziali, con i benefici facilmente immaginabili per la stabilità finanziaria dello stato.
Anche il marasma terroristico degli anni settanta passò lasciando indenne la città: nessun attentato, nessuna sparatoria da parte delle Brigate Rosse che evidentemente giudicavano la qualità della borghesia locale indegna della loro attenzione.
Questo mancato coinvolgimento non impedì le gratuite farneticazioni in cui si esibì la pasciuta borghesia lombarda, predicando l’equazione comunismo uguale terrorismo e la pretesa impossibilità per il cittadino per bene di uscire la sera senza mettere a repentaglio la vita, precorrendo così un leit motiv che si sarebbe ripresentato ancora ai giorni nostri nell’ottuso dibattito politico dell’infelice nazione.
La risposta democratica della città al terrorismo produsse pertanto lo svuotamento serale delle strade e dei ritrovi, rendendo quel borgo male sviluppato ancora più triste e chiuso nella sua povertà culturale.
Non si può dire che il dottor Perlini si fosse inserito nella città che conta: la cattiva impressione che aveva suscitato la scelta della dimora si era accentuata con l’andare del tempo per via delle frequentazioni sociali del segretario comunale.
Forse non era colpa sua se, affittata la casa a distanza, si era trovato ad abitare nell’ex casino, ma certamente era colpa sua l’ostentata mancanza d’imbarazzo con cui continuava ad abitare in quel villone al confine orientale della città. E soprattutto era colpa solo sua la scelta della ristretta cerchia di frequentazioni con cui si faceva vedere nel bar della piazza all’ora dell’aperitivo della domenica e con cui si rintanava fino a tarda ora di notte nel salone al piano terra della casa di via Giovenale, per interminabili partite di scopone e di tressette e chissà quali gozzoviglie indegne di un funzionario dello stato.
Oltre al Pruín, il portalettere del quartiere, il carrozziere sull’angolo, un vecchio anarchico tenuto d’occhio senza motivo dal commissariato, uno studente fuori corso di scienze politiche rappresentavano la parte fissa della compagnia, mentre la incrementavano di tanto in tanto, senza regole fisse, qualche sindacalista, politici locali di secondo livello, quelli cioè esclusi dalla loggia massonica dei protagonisti dei processi decisionali, un paio di colleghi tra i meno sussiegosi.
Tutti si aspettavano che prima o poi sarebbe scoppiato uno scandalo: nessuno poteva affermare di aver visto donne in quella congrega, tanto meno si poteva dubitare dell’eterosessualità di ognuno, ma certo non potevano essere così innocenti quelle serate in casino. Se non erano orge, certo si trattava di cospirazione politica, con tutti quei comunisti.
Il dottor Perlini, da parte sua, non faceva niente per far venir meno la diffidenza dei concittadini: con sindaci ed assessori si limitava a rapporti puramente professionali, andava dai medici solo se aveva qualche malanno, non aveva contatti con i professionisti locali se non per qualche pratica amministrativa, aveva declinato gli inviti alle feste dei carabinieri, della guardia di finanza e del reggimento di artiglieria di stanza in città con pretesti così risibili e artificiosi da indurre l’universo delle armi a non rinnovare più l’invito.
Non andava neppure in chiesa e gratificava l’entourage dei laureati cattolici, che stava sospeso tra la parrocchia e la Democrazia Cristiana in attesa di mettere le mani sull’Amministrazione comunale e che costituiva l’embrione locale del movimento di Comunione e Liberazione e del comitato d’affari che nei decenni successivi avrebbe preso il nome di Compagnia delle Opere, con gli epiteti di spocchiosi e trafficoni.
Gli si conoscevano un paio di relazioni sentimentali, coltivate però con discrezione, soprattutto quella con la moglie di un consigliere comunale, spesso ospitate, dopo qualche imbarazzo iniziale, nelle camere del piano nobile della villa, ma mai coinvolte nelle serate con la congrega del Pruín.

“Mi ha sentito, dottore? Stamattina è morto il Pruín”.
Era Fausto, il portalettere, l’araldo annunciatore dell’evento.
Lo sguardo di Sebastiano Perlini pareva attraversarlo, perso in direzione della stazione dove una sera lontana aveva incontrato per la prima volta Clemente Aldrovandi, in arte Pruín, con il nome da papa e il soprannome da puttaniere.
“Beh, io vado, dottore”, disse Fausto, dopo un immenso silenzio.
Il dottor Perlini assentì con un impercettibile movimento del capo, gli porse lentamente la mano gelata in una molle stretta desolata e, senza voltarsi, cominciò a camminare senza meta per le strade della periferia.
Se n’andò in giro tutto il pomeriggio, senza guardarsi intorno, senza pensare, finché le ombre della notte finirono di avvolgerlo completamente in un bozzolo di bruma appiccicosa che gli ricordò la sera del suo arrivo in città.
Cercò di capire dove fosse giunto nel suo cieco vagabondare, si orientò e cominciò ad incamminarsi verso casa.
Imboccò via Giovenale e spinse lo sguardo verso la villa in fondo alla strada.
Dalle imposte aperte delle finestre del salone usciva un bagliore vivido, unica luce in tutta la strada deserta.
“Devo aver lasciato le luci accese”, pensò.
Man mano che si avvicinava, gli parve di avvertire della musica farsi strada nell’ovattato silenzio caliginoso: erano ritmi di valzer trascinanti e voluttuosi.
Gli parve di vedere delle sagome inquadrate nei rettangoli delle finestre illuminate.
Si chiuse alle spalle il cancello. Salì i due gradini d’ingresso e spinse la porta. Aperta.
Appena dentro, ad accoglierlo, c’era il Pruín.
“Finalmente è arrivato, dottore. Venga. Faccio io gli onori di casa”.
E il Pruín prese sottobraccio il dottor Perlini, guidandolo innanzitutto ai piedi della scala dove, dietro il bancone, una donna vistosa esibiva una scollatura spropositata per ostentazione e sfacelo. Un’acconciatura stravagante dei capelli ossigenati senza ritegno conferiva al viso pieno e rubizzo lineamenti da caricatura.
“Mammarosa, prima di tutti. Le ho parlato tanto di lei. Il nostro nume tutelare. La garante dell’ordine e della legalità dello stabilimento”.
Il dottor Perlini si sentì dire come in trance: “Piacere, Sebastiano Perlini”.
Il Pruín lo guidò al centro del salone, presentandogli a caso avventori e ragazze: “Fausto, il nostro portalettere, l’arcangelo annnunziatore di gioiosi eventi e di disgrazie; Amleto, otto o dieci anni di fuori corso, ma magister vitae nelle cose di casino; Anacleto, prezioso aggiustatore di bielle e carrozzerie; Argante, sovversivo e bombarolo, astenersi dalla sua frequentazione”.
Sebastiano Perlini si lasciava condurre, quasi galleggiando nell’aria, da quel tono di voce suadente e con un che di ruffianesco: “E poi, le nostre meravigliose: Jasmine, dal profumo di gelsomino; Wanda, con la voglia di fragola sul seno…”, e così dicendo il Pruín le scostò la camicetta per darne dimostrazione.
”Amanda, corpo di burro e sangue caliente, da vera andalusa; Frou-Frou, la francese di cui le è già stato raccontato un sapido aneddoto…”
Così dicendo il Pruín le artigliò la natica marmorea: “E non ci provare ancora, con il gioco di tetta”.
“Ultima, ma non meno preziosa, la nostra Giovannina” e il Pruín si accostò ad una vecchietta candida che passava cercando di non farsi notare dopo aver raccolto da un tavolo un vassoio di bicchieri da lavare, “unica vergine di tutta la casa, dispensatrice di servizi altrettanto preziosi: a lei deve il lindore in cui ha trovato la casa al suo arrivo e il caffè che ha sconvolto il suo primo risveglio qui”.
Il dottor Perlini stringeva mani, gettava sguardi cupidi su tutto il bendidio esibito lì intorno. Non riusciva a trovare il fiato per interrompere quel vortice di farsesche presentazioni e, soprattutto, per travolgere il rutilante Pruín con gli ovvi interrogativi che quella messinscena suscitava, soprattutto alla luce della notizia che poche ore prima aveva divulgato Fausto.
Una nuvola di tabacco aromatico, mista ad effluvi d’incenso, avvolgeva l’intero salone. I grandi lampadari di falso Murano diffondevano una luce vivida da ballo delle debuttanti. Fasci di pervinche su ogni tavolino e su ogni mensola: macchie di colore bianche, azzurre, violacee dalla delicata fragranza evocatrice.
“L’è el dì di Mòrt, alégher !/Sòtta ai topiett se balla,/se rid e se boccalla”:
da un angolo discosto una voce tenorile si levò, con funzione di chiarina, ad annunciare l’estro di un omaccio elegante, ispido, apoplettico, coppa di champagne in una mano, braccia protese a brancicare un paio di fanciulle che si strinsero a lui ridendo.
“È il dì dei Morti, allegri !/Sotto le pergole si balla,/si ride, si tracanna”, tradusse il Pruín, guidando verso di lui il Perlini.
“Sono versi di un nostro poeta dialettale ”,(1) continuò, “tra i preferiti del Nudar purcell”.
“Il dottor Sebastiano Perlini, segretario comunale. Il nostro Nudar purcell, preziosa vestale di patrimoni immobiliari”, il tono del Pruín, compunto ed ufficiale come quello di un ciambellano di corte, strideva con la sciatteria della presentazione, ma s’intonava benissimo con il clima di festosa e spensierata gozzoviglia in procinto di scatenarsi al piano superiore.
“Silenzio, un attimo”, si levò dal bancone la voce roca di Mammarosa:
ogni clamore si spense al perentorio invito.
Dalla strada venivano echi di un passo di marcia e di un inno sbraitato che si avvicinavano e si facevano sempre più distinti.
Il dottor Perlini si affacciò alla porta. Un manipolo di gente in nero, preceduto da un aquilifero, avanzava con cadenza ritmata da una canzone i cui versi lo fecero impallidire: “E va, la vita va, con sé ci porta e ci promette l'avvenir. / Una maschia gioventù con romana volontà combatterà…”
Si ritirò in fretta, chiudendosi la porta alle spalle e sprangandola all’interno con una sbarra.
“Non è possibile. Sono tornati. Ancora” e le sue parole suonarono affrante e desolate.
Si volse verso il salone.
Gli echi festosi si erano smorzati in un bisbiglio quasi di preghiera.
Le luci sfavillanti dei falsi Murano si erano spente e solo una lampada dal banco ai piedi delle scale spargeva un chiarore aranciato la cui tenuità accentuava l’effetto di navata di chiesa che aveva assunto il salone.
Dal grammofono le note del secondo movimento dell’Eroica di Beethoven si diffondevano solenni e ritmavano l’incedere silenzioso di evanescenti figure verso un cataletto immerso in un’aiuola di fiori e in vapori avvolgenti d’incensi raffinati.
Un sorriso sembrava fiorire ogni volta sui lineamenti rigidi del morto, dedicato ad ognuna di quelle figure che si accostava a deporre il suo dono: la giarrettiera di Frou-Frou; la ghirlanda di pervinche di Jasmine; il portachiavi con lo stemma della Lancia del garagista; la coppa di champagne del Nudar purcell; il ritratto di Bakunin di Argante, sorvegliato dal commissariato; l’ultima marchetta, infilata nella tasca del giaccone nero da tassista, con una carezza, da Mammarosa.
Il dottor Sebastiano Perlini depose accanto al corpo del Pruín l’ultima bottiglia di cognac francese, salì sulle scale e il suo spirito si sciolse in un vento leggero che sparse nelle stanze del piano nobile una nuvola di petali di sfatte pervinche.


Nota dell'autore:
(1)Delio Tessa (1886 – 1939), avvocato, antifascista, poeta dialettale.
La poesia citata è “Caporetto 1917” che contrappone il clima da sagra paesana della fiera dei morti allo sfacelo e alla tragedia della guerra


© Gianni Caspani





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