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Mi mancano i plugin
di Emanuele Serra
Pubblicato su PBUNIBOOK2009


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La bellezza.
Io la bellezza so cos'è.
Io, la conosco.
In fin dei conti io sono bello.
La bellezza è qui, qui tra queste mie dita, in tutto quello che sono in grado di fare.
Però, a volte si nasconde. Non riesco a viverla.

Mi ricordo, mi ricordo di essermi svegliato questa mattina.
La luce era spenta, poi io l'ho accesa.
Con queste dita.
Le mie.
Mentre scaldavo il latte pensavo che sarebbe stato bello se ci fosse stato qualcuno.
Lì, seduto attorno alla tavola, con cui condividere la mia colazione.
Sarebbe stato bello parlare. Ascoltare.
Se ci fosse stato qualcuno, gli avrei raccontato qualcosa, oppure gli avrei chiesto di raccontarmi qualcosa. Anche un sogno, non importa cosa, basta che sia qualcosa.

E poi, poi penso che potrei prendere un cane.
Ho già in mente i dettagli, ne vorrei uno di quelli con il manto beige, come si chiamano? Labrador se non sbaglio.
Lo chiamerei "tulipano".
Si, lo so, non è un grande nome, magari suona pure male.
Però a me piacciono i fiori.
Perché si portano appresso un colore e un profumo che li contraddistingue.
Mi piace l'idea che il mio cane si possa chiamare come un fiore. In questo modo, ogni volta che lo chiamo inevitabilmente mi torna in mente il fiore e il suo profumo.
La bellezza è qui, tra le mie narici, in quello che riescono a percepire.

Finisco il mio latte macchiato con due dita di caffè.
Mi lavo, mi rado con cura, ci tengo alla mia parvenza.
La mia faccia deve essere pulita. Chi mi guarda deve avere la sensazione che io sia una persona pulita.
Mia madre sostiene che io sia fin troppo ossessivo.
Dice che fin da piccino ero puntiglioso, perfino le scarpe dovevano sempre essere belle linde.

Mia madre.

Un tempo facevamo colazione insieme, vestivo pochi anni e con il cucchiaio in mano sentenziavo che un giorno sarei diventato un grande dottore.
In realtà, lo confesso, non avevo le idee ben chiare.
Volevo fare il dottore per rendere le medicine più buone e le punture per niente dolorose.
Fantasticavo una cura più bella per ogni malattia.

Oggi sono cresciuto.
Non sono diventato dottore, ma operaio.
Guardo l'ora. Sono le sei, la città in gran parte ancora dorme, fuori dalla finestra è ancora notte.
Devo andare.

Ora sono fermo, in piedi, sulla banchina della Gtt ad aspettare il tram delle sei e venti.
La città lentamente inizia a svegliarsi, l'aria è corroborante, la respiro lentamente.
Alle mie spalle c'è un piccolo parco, un pensionato tiene al guinzaglio il suo cane.
M'immagino con Tulipano, il mio cane.
Lì, in quel parco.
Io a lanciargli il ramo e lui a rincorrerlo.
Penso che sarebbe bello.
Sarebbe bello trascorrere gran parte della mia mattinata con lui in un parco.
Poi, lontano da occhi indiscreti rotolare insieme sull'erba bagnata di rugiada.

Sul tram c'è sempre la solita gente.
Io mi siedo davanti, dietro al posto del guidatore.
Sul fondo, ci stanno dei drogati.
Ciondolano, il loro sguardo è vuoto.
Io guardo fuori dal finestrino. Sono le sei e ventisei.
Forse arrivo in tempo in fabbrica.

Dopo sette fermate il tram è più affollato.
Ci sono degli studenti.
Ci sono uomini, donne.
Tutti zitti, tutti in silenzio.
Tutti a guardarsi la punta dei piedi o un punto indefinito nell'orizzonte.
Io prendo il cellulare in mano, gioco un po' con i tasti, mi piacerebbe che squillasse.
Mi piacerebbe che qualcuno alle sette di mattina mi mandasse un messaggio.
Sarebbe bello.
Sarebbe bello se ci fosse qualcuno che appena sveglio mi pensasse.

Il tram prosegue. Lento, di fermata in fermata.
Il rumore della strada è sempre più sordo. Qualcuno scende, qualcuno sale.
Mi viene in mente una scena di un film che avevo visto tanti anni fa in televisione.
Mi ricordo che si era in una stazione e la gente camminava freneticamente.
In mille direzioni differenti.
Che confusione, che disordine.
Voci che si contrastavano, voci che si calpestavano.
Pure le scarpe piangevano stonate ad ogni passo.
Poi, il protagonista intravede in fondo alla calca una donna.
E la vede così bella che tutto intorno a lui si dissolve.
Si stempera il baccano diventando una musica di violini e archi.
Perfino la calca che un poco prima era disordinata inizia a ballare un valzer. Pulito.

Che bello.
Sarebbe bello se ora s'iniziasse a parlare.
O cantare.
Sarebbe differente se sul tram invece di questo rigido silenzio si cantasse una canzone.
Anche una di quelle stupide.
Non m'importa cosa.

Indosso la mia tuta blu da lavoro, prendo il cartellino e lo timbro.
Sette e vent'otto. Perfettamente in orario.
Mi guardo attorno, tra i miei colleghi sono il più pulito.
Alcuni, come Enrico, pure la barba incolta, che vergogna.
.

Di fronte a me la macchina.
S'inizia. Gianni il capo reparto dice "Ora!".
Lo stampo appare dentro la macchina, sento girare i motori.
Mi rimbocco le maniche e prendo il primo pezzo dal contenitore A. Lo posiziono sotto la pressa, schiaccio i bottoni verdi, la pressa cambia la forma al pezzo e si rialza, lo prendo e lo metto sul contenitore B.
Due secondi.
Si ricomincia.
Come prima, stesso procedimento.
Venti secondi di tempo, guai a rallentare ne va della produzione.
Per tutta la mattina questa sarà la mia attività.

Qui in fabbrica il sole non filtra, l'aria dopo poco tempo diventa pesante.
Il rumore simmetrico e ripetuto delle macchine si mescola perfettamente con i respiri sempre più pesanti del popolo degli operai.

La macchina continua il suo ritmo.
Lo stampo continua a formare i suoi pezzi.
Pressa, premi il pulsante, rimetti a posto, premi il pulsante.
Si va avanti così, il capo reparto dice "duecento". Sono i pezzi che per il momento sono passati sotto le mie mani. Dobbiamo arrivare a mille.
Pressa premi il pulsante, rimetti a posto, premi il pulsante.
Alle mie spalle qualcuno sta camminando.
Non posso voltarmi, sforerei i miei venti secondi.

Pressa, premi, rimetti a posto, premi.
La macchina dice "tlin", la macchina dice "pleen" lo stampo sbuffa..

Forse dietro di me, forse dietro di me ci sta Enrico.
Forse è alle mie spalle e si sta prendendo gioco di me.
Non mi posso voltare, io non mi posso voltare.

PRESSA, PREMI, RIMETTI A POSTO, PREMI.
La macchina dice "tlin", la macchina dice "pleen" lo stampo sbuffa..

E se invece fosse il capo reparto?
Ah, se avessi Tulipano.
Sarebbe qui, ai miei piedi a fare da guardia. Guarderebbe dove io non posso guardare.

PRESSA, PREMI, RIMETTI A POSTO, PREMI.
La macchina dice "tlin", la macchina dice "pleen" lo stampo sbuffa..

Ah, si. Sarebbe bello se qui ci fosse Tulipano.
PRESSA, PREMI, RIMETTI A POSTO, PREMI.
La macchina dice "tlin", la macchina dice "pleen" lo stampo sbuffa..
.

Ma no.. ma no... cosa vado a pensare, Tulipano non deve stare qui, in questo posto, in questi rumori, in quest'aria avvelenata. Tulipano è nel parco, è nel parco ad inseguire il ramo. Il ramo che io, che io gli ho lanciato.

PRESSA, PREMI, RIMETTI A POSTO, PREMI.
La macchina dice "stai attento! Dietro di te... dietro di te c'è Enrico", la macchina dice "Tulipano, Tulipano è nel parco". lo stampo sbuffa..

PRESSA, PREMI, RIMETTI A POSTO, PREMI.
E poi il vuoto, il silenzio.

 

 

La bellezza, la bellezza in fin dei conti io la conosco.
È qui, qui tra le pareti del mio torace, in questo cuore che batte, in ogni sua pulsazione.

Apro gli occhi.
Intorno a me c'è una stanza bianca come un foglio.
Un odore greve solletica le narici.
Dov'è Tulipano?. E questo rumore?, dio mio, questo rumore non lo sopporto.
È la macchina, dov'è la macchina?, non la vedo ma la sento com'è possibile?
E quello, quello lì che sta facendo?
Perché tira calci ad un muro?
Dov'è Tulipano?.
Fatemi uscire, devo andare al parco.
Devo andare da Tulipano.

Sarebbe bello ora urlare.

Aspetta.
Aspetta... io sto urlando.
Sto urlando.
TULIPANOOOO!.

Ma che schifo!, qualcuno ha cagato per terra.
TULIPANOOO.

Aspetta, lì, lì c'è una porta.
In ogni stanza c'è una porta che si apre.

Del resto solo in una gabbia le porte non si aprono.

Aspetta, non si apre... non si apre.
Basta con sto rumore, basta con sto rumore.
Urlo, mi dimeno, scalcio.
Arriva un uomo.
Vestito di bianco come un foglio.
Fammi uscire gli dico. Dio mio, dio mio... ho urlato.
Non volevo, mi spiace, non volevo urlare, ma fammi uscire.
Ti prego apri quella porta, devo andare da Tulipano.
Ma aspetta, cosa stai facendo?
No aspetta, aiuto, che cosa sta facendo?. Non voglio fare nessuna puntura.

 


Mamma, mamma mia.
Ti ricordi che volevo fare il dottore?
Non avevo tutti i torti sai?.
Qui mi fanno una puntura ogni giorno e mi danno un sacco di medicine.
Fanno tutte schifo.
Poi, poi ogni tanto mi vengono delle crisi.
Piango, piango forte, e urlo perché ho proprio voglia di urlare, e tiro calci, perché ho voglia di tirarli.
Allora vengono.

Quelli con il camice.
Mi bloccano su un lettino.
Mi fanno le scariche elettriche.
Proprio qui, qui nel cervello. Nella mia testa.

La chiamano cura.
In effetti, in effetti dopo non urlo più.

Mamma, mamma mia.
Guarda come sono brutto.
mi radono una volta sola e pure male.
Sarebbe bello, sarebbe bello poter uscire di qui.
E tornare nel parco da Tulipano.
Forse lui, forse lui mi sta aspettando.

 


La bellezza.
La bellezza io so che cos'è.
È qui, tra le labbra, ha la forma di un sorriso.

Apro gli occhi e di fronte a me c'è una ragazza.
Ha i capelli lunghi, neri come la notte.
Mi dice che non mi devo preoccupare, non devo avere paura.

Stai tranquillo, i manicomi non esistono.

Mi rasserena.
Dice che l'uomo è fatto per andare, non per stare rinchiuso.
È buffo, lo so, ma lei parla ed io fischietto un motivetto ti tanti anni fa.
La ragazza mi sorride, mi chiede come sto, mi dice che devo prendere delle medicine.

Io la guardo, le dico che se vuole può venire a mangiare qualcosa da me, cucino io, prendo anche una bottiglia di vino, così, tanto per scambiare due parole. Per stare insieme.
Poi magari, poi magari si fa anche l'amore.

Mi dice di no, ma lo dice con un sorriso.
Ma va bene.

Sapete che cos'ho fatto io?

Mi sono detto, mi sono detto che se l'uomo è sul serio fatto per andare, allora andiamo.
Quindi, ho preso un cane.
Si.. proprio un cane, un Labrador, non ne ho trovati con il manto beige ma solo bianchi.
Ovviamente, l'ho chiamato Tulipano.

Sono andato in un canile.
Ci sono andato con un ragazzo, si chiama Luigi.
Ogni tanto passa a trovarmi, controlla che io abbia preso le medicine, mi dice cosa devo fare, mi chiede che cosa ho fatto negli altri giorni, insomma... le solite cose.

Adesso la mattina faccio colazione con Tulipano.
Intingo un pezzo di pane raffermo nella mia tazza di latte e gliela butto per terra.
E lui se la mangia.
Però, però penso che sarebbe bello se ci fosse qualcuno intorno a questa tavola.
Avrei un sacco di cose da raccontare e tante di quelle domande...

Poi, poi mi rado, mi lavo, mi vesto e scendo con Tulipano nel parco.

Dovreste vederlo come corre felice.
Ogni tanto mi butto per terra e inizio a rotolare, Tulipano abbaia forte, saltella e mi gira intorno.
Se urlo e faccio finta di essere morto mi lecca la faccia.

Poi, poi riporto Tulipano a casa e mi cambio.


Sul tram c'è tanta di quella gente.
Ci sono i ragazzini con gli zaini sulle spalle, ci sono signore di tutte le età.
Tutti zitti, tutti a guardarsi la punta dei piedi o un punto indefinito perso nell'orizzonte.
Allora penso che sarebbe bello se si cantasse una canzone.
Tutti insieme.
Allora dico: "la conoscete azzurro?, quella di Celentano..."
La mia voce s'inoltra,rimbalza tra le teste che mi si parano di fronte, la sento che và, che filtra nelle orecchie raschiando i finestrini appannati del tram.
Ma non capisco, non capisco dove sfuma.

Altre volte non canto, ma parlo.
Parlo con il ragazzo con il brufolo sul naso come parlo con il signore con la giacca.
Qualcuno mi risponde, qualcuno si scansa.
Ma nessuno mi parla.

Un giorno ho chiesto ad un ragazzo dove andava. Lui mi ha detto : "da mia madre che è all'Ospedale".
Allora gli ho sorriso dicendo: "senti, ora scendiamo e andiamo al bar a berci qualcosa e poi dopo, magari vai da tua madre".

Perché sarebbe bello salire su un tram e scendere dopo quattro fermate con qualcuno che non ho mai visto, e con lui entrare in un bar, ordinare una bibita ghiacciata e poi parlare con il barista.
Chissà, magari mentre siamo lì a parlare tutti e tre, chissà, magari arriva un altro signore e ci dice "dai andiamo al cinema".

Timbro il cartellino, le nove e quarantaquattro, l'inchiostro è rosso, sono in ritardo di parecchio.
Penso: " e chi se ne frega".

Alla macchina non ci vado.
Saluto Enrico, gli do una pacca sulla schiena, gli chiedo come sta sua moglie e la figlia.
Mi dice che non ha figli.
Vabbè.

Mi siedo.

La fabbrica mi opprime.
Vorrei fare un altro lavoro.
Il pittore per esempio, o il musicista.
Mi piacerebbe suonare uno strumento a fiato.
Pensate come sarebbe bello se dal mio respiro e dalle mie dita si generasse della musica.

 


Mamma, mamma mia.
Qui nel mio cassetto tengo i miei calzini, tutti i miei sogni e le scatole delle medicine.
Fanno tutte schifo.

Ci sono quelle dolciastre e quelle amare.

Poi, poi sono ingrassato.
Guarda che pancia che mi è venuta.

Ci sono delle volte, in cui io sono seduto su questa mia sedia e fuori la notte è silenziosa, oppure delle domeniche pomeriggio in cui la pioggia batte monotona sull'asfalto.
Ed io mi ritrovo a parlare da solo.
E sento il mio cuore battere sempre più forte e penso che da un momento all'altro morirò.
Oppure piango.
Allora mi accorgo che è vero, è vero che sono diventato matto.
Ed è buffo se ci pensi.
Perché magari credi che si possa impazzire quando meno te l'aspetti, magari di fronte a qualcosa di talmente forte che la tua mente non riesce a reggere.
Qualcosa di brutto, di così brutto come la morte.
Magari proprio la morte tua mamma.

Guardo le mie dita e le muovo nell'aria vuota di questa mia stanza.
Tulipano dorme sereno.

Ed io, io sono semplicemente così bello.
E allora penso che se l'uomo è fatto per andare, sarebbe bello se avesse un posto dove andare.
Questa sera.

 

© Emanuele Serra





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