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Prossima fermata
di Cinzia Baldini
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-«Prossima fermata…»- L’avviso registrato arriva forte e chiaro e trapassa l’incoscienza del dormiveglia indotto dal ritmico e monotono sferragliare del treno sulle rotaie. Mi riscuoto: “Sono arrivata. La fermata annunciata è la mia” confermo con foga a me stessa mentre raggiungo la porta del vagone. Solo pochi istanti di attesa ed una sferzata di aria invernale mi punge il viso: «Bentornata» mi dico in tono augurale guadagnando la banchina. Appena fuori dalla stazione inspiro a fondo l’esclusivo profumo che si presenta alle mie narici. Lo riconosco subito, non l’ho mai dimenticato! È l’essenza intima e particolare, l’alito della mia città, l’odore di cui è impregnata la mia esistenza.
Rinvigorita dal ritrovato contatto col mio mondo, dall’avvolgente abbraccio appena scambiato, alzo il collo del cappotto, affondo una mano nella tasca e scrollando con un’alzata di spalle la stanchezza, trascino con l’altra mano guantata, la valigia dietro di me. Cammino con il naso all’insù cercando di capire per quale magia naturale il lattiginoso velo di umidità che si è impadronito delle grandi strade, a quell’ora deserte, resta fluttuante, sospeso a mezz’aria. Rallento l’andatura e raccolgo l’eco dei miei passi che rimbalza sul selciato bagnato prima di confondersi con i mille rumori della notte. Sorrido mentre un sospiro di sottile piacere accompagna la meravigliosa sensazione di libertà che sento pulsare nelle vene.
Gli occhi, non più appesantiti dal torpore, come se vedessero tutto per la prima volta, guizzano vigili e attenti, pronti a posarsi su ogni piccolo dettaglio, a scrutare ogni grande elemento dei quartieri che attraverso. Le serrande abbassate sulle vetrine dei negozi mi regalano un’immagine di pacata serenità. Sembrano palpebre distese su grandi occhi sonnacchiosi che, conciliati dalla quiete notturna, si sono addormentati al chiarore della luce giallognola e artificiale dei lampioni e non soffrono affatto per la mancanza dell’andirivieni frenetico e caotico della gente.
La mia città, così tranquilla e silenziosa, ha una malia magnetica ed intrigante, quasi ipnotica.
Osservo affascinata il girotondo delle foglie trascinate dal vento che fuggono, si rincorrono, si abbracciano e tornano a separarsi. Sobbalzo al rumore improvviso di un nervoso frullare di ali di qualche uccello notturno, spaventato dalla mia presenza, mentre il lontano miagolio di un gatto innamorato si spegne, lento, lungo le vie profondamente assopite. Mi sento fortunata perché il simbiotico rapporto con la città che mi ha dato i natali, mi mette in comunione con l’intero universo.
Per nulla intimidita dal freddo e dal buio, ben infagottata nel caldo paltò, assisto, attenta ed in trepida attesa, al pigro srotolarsi dei minuti della tarda serata, pronta a cogliere ogni minima trasformazione, ogni insolita manifestazione di vita che madre natura dona, non vista, ai suoi figli.
Alzo gli occhi e con il respiro che si condensa in una bianca nuvola davanti al mio volto, scruto la vellutata volta celeste macchiata da infinite e lucenti gocce d’argento. L’irriverente vento che spira dal mare ha allontanato, da questa parte di cielo, lo scialle di nuvole che con i suoi pizzi e merletti ne avrebbe precluso l’impareggiabile visione. Le stelle… “erano anni che non ne vedevo così numerose e così vicine, chissà da quanto erano qui ad attendermi ed io non lo sapevo…” mi ritrovo a pensare, sono tutte presenti a questo tacito appuntamento e, con vividi bagliori, fanno capolino tra i palazzi per salutarmi.
Quasi trattenendo il fiato per paura di rovinare l’incanto, mi figuro, con entusiasmo, quando, tra qualche ora, la fioca luce del sole troverà il coraggio di uscire dalle calde coperte del buio.
Ripenso al tempo appena trascorso, ad un oggi che lentamente sta diventando uno ieri, al domani in arrivo, alle nuove gioie e ai vecchi affanni che porterà con sé. Con gli occhi della mente ritorno alla lunga permanenza nella città che mi ha circuito con il miraggio del lavoro ma che non ho mai sentito mia. Moderna, giovanile e longilinea, vestita elegante e ricercata, con il trucco sempre a posto e i capelli ben pettinati, profumata di costose essenze, come un’arida matrigna non mi ha nutrito di sé, né è stata capace di condividere qualcosa di mio.
Mi trovo a ripercorrere, con l’immaginazione, le pareti dell’ufficio dipinte in un'anonima tonalità di giallino pallido, anemico, che neanche le chiazze stridule di colore delle riproduzioni di famosi quadri appesi alle pareti sono mai riuscite a riscaldare, a personalizzare. Scivolo sulle linee lisce e funzionali dei mobili, finché, oltre le finestre, abbraccio quel cielo distante e sbiadito, che non è il cielo che ha allattato di luce e d’azzurro le mie iridi.
Rivedo mentre mi avvicino alla finestra e contemplo la lunga serie di auto incolonnate e strombazzanti nel traffico pomeridiano della via sottostante. Osservo le persone che come formichine operose camminano lungo i marciapiedi in file parallele, sciamano veloci e guardano in terra, immusonite, concentrate in chissà quali pensieri. Mi allontano chiudendo il vetro con un piccolo tonfo sordo e scuoto la testa intristita e scoraggiata.
Come richiamato da tali immagini sento montare, nuovamente, lo stesso senso di impotenza e di ribellione provato poche ore prima. E proprio come quella mattina, l’ultima di permanenza nell’austera città degli altri, torna prepotente e stuzzicante la voglia di fare una lunga camminata a piedi nudi sulla spiaggia.
Qui, non c’è il mare. Mi è mancato moltissimo in questi anni. Ed anche se distante centinaia di chilometri ne sentivo il richiamo forte, potente e percepivo la sua confortante presenza, il suo senso di eternità, la sua maestosa regalità. Il suo respiro salmastro, la sua umida essenza nutrivano la mia anima e alimentavano la fiducia di poter tornare, un giorno, a confondermi in esso. Questa speranza rendeva più sopportabile la lontananza.
Rivivo il momento in cui lascio per sempre la città che, affettivamente, non mi è mai appartenuta. Me ne vado sotto l’imperversare di una pioggerellina fitta ed insistente, con la malinconia in agguato dietro i vetri semiappannati e le imposte gocciolanti degli anonimi palazzoni, tutti uguali, che si affacciano sulla strada in cui abitavo. Essi con lo squallido grigiore delle loro scolorite facciate sembrano non aver mai visto il sole. Quelle geometrie asimmetriche costringevano il mio sguardo ad acrobatiche peripezie per arrampicarsi fino alla loro sommità e da lì poter, finalmente, scorgere una piccola porzione di anemico cielo. Ora, come pieghe gualcite di un vestito stazzonato, fanno da mesta cornice alla cartolina di addio che ho disegnato nella mente per l’occasione.
Non perdo tempo. Esco dall’ufficio e, a passo spedito, mi dirigo verso la stazione pregustando il piacere del ritorno. Ferma al semaforo, in attesa del verde, avverto il sapore della salsedine sulle labbra. La familiare sensazione, evocata dalla visione di una leggera foschia che alzatasi dal mare si adagia sull’arenile e stilla piccole perle di umidità sui miei capelli e sulla pelle, mi colma l’anima di tenerezza e nostalgia. Incoraggiata dalla fantasia continuo ad osservarmi mentre siedo sulla battigia con il vento di libeccio che sibila fiero ed insolente e, sferzandomi il viso, solleva, in una concitata danza tribale, sabbia e spuma di onde marine. Vedo i gabbiani, impegnati in voli gioiosi, rincorrersi e disegnare nell’aria figure astratte. Superandosi l’un l’altro, in una competizione naturale e spontanea, lanciano richiami striduli e acuti. Consapevoli della loro totale libertà volteggiano felici nel cielo incendiato dai ramati colori del tramonto.
Confusa tra la folla, riprendo il cammino e senza mai voltarmi indietro mi allontano in fretta, non ho rimpianti.
Pur se prepotente il desiderio di tornare tra la mia gente e pressante la necessità di riempirmi gli occhi di spazi infiniti, non mi va di transitare nel sottopassaggio anche se costituisce la via più breve per raggiungere la stazione centrale. L’ho percorso infinite volte dal mio arrivo e ne conosco bene le caratteristiche. Non mi sento di respirarne l’aria stagnante impregnata di esalazioni fetide e pungenti. L’odore aspro lasciato da sudici spettri vaganti la cui dignità è affogata nel fondo di una bottiglia o aspirata dall’ago di una siringa. Non oggi, non ora, non voglio congedarmi dalla città a cui non appartengo con il ricordo delle ombre derelitte di quelle vite violate e calpestate, di quei fantasmi dimenticati, che interpretano sul palcoscenico dell’esistenza un ruolo di morte. E poi detesto le luci artificiali che lo illuminano. Al pari di potenti riflettori, puntano compiacenti e spietate su tutto questo squallore. Sembrano invitarti a guardare, ammiccanti e sfacciate, come vecchie prostitute dal trucco appariscente e sfatto. Combatto, per qualche istante, l’istintivo moto di repulsione che mi stringe lo stomaco e decido di percorrere il tragitto più lungo, quello che passa attraverso la caricatura di un piccolo giardino dove alberi magri e striminziti tendono i loro scheletrici rami in una silenziosa e grottesca richiesta d’aiuto. Affannata per aver salito le scale a piedi e trascinandomi dietro la voluminosa valigia in cui ho stipato gli ultimi cinque anni della mia vita, traverso in diagonale l’atrio della grande stazione ferroviaria. Mi fermo per riprendere fiato e, nel frattempo, mi guardo intorno. Scopro un mondo in continuo divenire sottolineato dalle espressioni di centinaia di volti, alcuni bagnati dalle lacrime di un addio, altri rischiarati da un sorriso radioso. Migliaia di visi accomunati da un unico sguardo febbrile, fisso, in ansiosa attesa o perso, in un punto lontano dell’orizzonte. Gente che parte, gente che arriva. Persone sole immerse nei propri pensieri e comitive allegre e strepitanti. Bambini con gli occhioni sgranati per la meraviglia alla vista di quei grandi treni dalla forma di astronavi e altri urlanti, stanchi ed impauriti, disperatamente aggrappati alle madri.
Mi sollevo in punta di piedi e avvisto il numero del binario. La banchina è gremita ma lascio che un sorriso di soddisfazione si disegni sulle mie labbra quando scorgo la sagoma del treno occhieggiarmi complice. Mettendocela tutta per schivare le persone che frettolosamente mi passano accanto, mi destreggio, volteggiando in un abile slalom finché un uomo, in un maldestro tentativo di superarmi, inciampa nel bagaglio e senza contegno inizia ad imprecare contro di me. Lo fisso intensamente. Lo sguardo compassionevole che gli rimando incrociando i suoi occhi lo confonde. Tace e abbassa la testa. «Finalmente torno a casa» gli dico, «il mare, la mia città sono in impaziente attesa, non posso farli aspettare» e lo pianto li a recitarsi addosso le sue ritardate scuse.
Salgo sul treno e quando chiude le porte, con sollievo, sento sfumare pian piano la voce metallica e impersonale degli altoparlanti che annunciano la loro litania di partenze e arrivi. Man mano che acquista velocità, i suoni mutano in un brusio indistinto che mi entra nelle orecchie come il ronzio fastidioso di una mosca molesta e sembrano accompagnare le ultime sfocate immagini che scorrono oltre i finestrini.
Prossima fermata: la mia città che, col suo seno prosperoso, i bigodini nei capelli, le ciabatte sformate, il profumo del pane appena sfornato e il grembiule da cucina ancora indosso, come una madre premurosa mi accoglie sorridente. Mi getto fiduciosa tra le sue braccia e so che non la lascerò più, il mio ritorno, questa volta, sarà per sempre.

© Cinzia Baldini





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