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Pamina e Tamino
di Giuseppe Butera
Pubblicato su PB8


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Quando si sveglia, Bira non vede il cielo. Vede soltanto la volta di cemento che forma l'arcata del ponte sotto cui ha stabilito la sua dimora, bigia e intrisa di residui olivastri, maleodoranti condensati del traffico di Salvador. A parte questo, tutto è sommamente pratico: niente pareti e quindi niente finestre né tendine, il letto è una stuoia di cartone da stendere la sera e da attorcigliare all'alba, la fontanella per l'igiene personale è a pochi metri e i bagni pubblici sono un po' più in là, nel parco.
Quella mattina dormiva ancora quando Melissa ed io abbiamo lasciato l'albergo, sulla via di ritorno a casa, ma non lo abbiamo neanche notato, rannicchiato com'era sotto la coperta bucherellata, uno straccio in più tra casse d'imballaggio e altri rifiuti dei negozi circostanti. E che gli ha salvato la vita.
Il carnevale era finito e non avevamo più voglia di andare a zonzo tra le meraviglie che "la baia di tutti i santi" offre al turista: la rampa del mercato, la laguna dell'Abaeté, la diga del Tororó, il terreiro di Jesus, il Campo Grande, il faro della Barra...
"Não leva embora, sinhô". Si era liberato guardingo di quel bozzolo di spazzatura e mi aveva raggiunto alle spalle, bussando al finestrino della Landau.
"Cosa non devo portar via?".
"La macchina, signò".
Era un mulatto di mezza età, slanciato e dal portamento atletico, direi elegante, in netto contrasto con la miseria degli indumenti. Un singolare molleggio dava un flessuosità quasi teatrale a tutti i suoi movimenti.
Bira aveva fretta. Era evidente che non voleva essere visto insieme a noi. Ma non capivo cosa realmente volesse dirci. Sarebbe bastato ruotare la chiave e mettere in moto la macchina lasciando lo straccione a parlare da solo.
"Hanno ammazzato tutti i miei amici, signò. Non avete sentito gli spari?". Ma cosa stava dicendo? E che mi metto adesso a discutere con un barbone fuori di testa?
Ci eravamo oramai avviati, quando ci gridò ancora dietro: "La macchina lo sa, signò". Chissà che gli saltava in mente al mattacchione.
L'uscita per San Paolo era dalla parte opposta, ma neanche Melissa se ne era resa conto. Quell'intervento a sorpresa aveva evidentemente disorientato anche lei.
Un'ora dopo eravamo sperduti nelle viuzze del Pelourinho, il centro storico in cui, fino al secolo scorso, gli schiavi ribelli venivano frustati a sangue. La realtà attuale non era gran che migliore. Il regime climatico più gradevole del mondo conviveva con uno dei più spietati regimi militari.
Ci eravamo invischiati in quel labirinto barocco di caseggiati fatiscenti, quando ci dovemmo fermare all'imbocco della piazza in cui si assembrava una folla silenziosa. Ci venne incontro una giovane modestamente vestita, ma pulitissima, con in mano una autoadesivo dove si leggeva: "Io amo Salvador".
"No, non lo voglio" protestai più volte, aiutandomi con la mimica facciale e con i gesti della mano. Lei insisteva e ci faceva segno di abbassare i vetri per poterci dire qualcosa. Si comportava come se già ci conoscesse, ma sembrava che facesse di tutto per non sfiorare la macchina. Melissa finì per cedere e quella si presentò con garbo: "Mi chiamo Pamina e il mio amico... sì, Tamino, quello che avete conosciuto poco fa vicino al parco...". Emanava un gradevole profumo di lavanda, che inondò immediatamente tutto l'abitacolo.
La guardavamo senza sapere cosa dire. "E con ciò?" tentai di tagliare corto io. "Lui veramente si chiama Bira, diminutivo di Ubiratã, ma da quando mi ha conosciuta preferisce farsi chiamare Tamino. È un ballerino e il mio nome gli ha richiamato subito il personaggio del Flauto Magico... Sì, l'opera di Mozart... i due giovani innamorati: Tamino e Pamina...".
La cosa andava per le lunghe e io me la sarei svignata volentieri se non ce lo avesse impedito la folla davanti a noi che andava diventando sempre più folta. Ma che m'interessava tutta quella tiritera? La donna invece continuava imperterrita: "Sa, lui non si può esporre troppo e perciò mi ha pregato di darvi questo adesivo per coprire le impronte".
"Ma di che cosa stai parlando?".
"Per piacere, parcheggi l'auto un po' più in là. Bisogna evitare che gli indizi vengano manomessi".
Non avevo scampo. Parcheggiai la Landau e Pamina, o come diavolo si chiamava, scelse i punti più imprevedibili e asimmetrici possibili della limpida carrozzeria e vi incollò sopra una, due, tre... di quegli adesivi che faceva spuntare da una tasca insospettata, come Mary Poppins avrebbe fatto dalla sua mitica borsa. Il risultato estetico era un vero pugno nell'occhio, ma la lasciai fare, arreso ormai. Con Melissa mi avviai verso la muraglia di curiosi che adesso rompevano il silenzio con commenti sommessi all'inizio e via via in un crescendo sempre più stentorei. Riuscimmo a infilarci tra i gomiti dei tanti che, come noi, volevano soltanto stare a vedere lo sconcertante spettacolo offerto da un cassonetto. Dalla sua enorme apertura, infatti, pendevano le gambe di alcuni adolescenti, sudice di polvere e di sangue. Al margine della legge e di ogni senso di umanità, squadracce di adulti al soldo di gente "perbene" continuavano a falcidiare dei ragazzini con stupida ferocia.
Arrivò la macchina della polizia e la piazza cominciò a essere sgomberata. Pamina ci veniva ancora dietro. "Li hanno portati qui per evitare il flagrante e li hanno messi bem in evidenza perché venissero facilmente individuati, annullando piste che potessero compromettere gli autori del misfatto", mi sussurrò all'orecchio. Il suo volto da madonna siciliana si illuminava progressivamente, man mano che aggiungeva una nuova tessera al complicato mosaico di informazioni che voleva passarci. Un velo di preoccupazione seguitava tuttavia a ombreggiare il suo sguardo pur fermo e sicuro, proprio come le pieghe del manto sugli occhi della famosa madonna di Antonello da Messina.
"Stavo facendo l'amore con il mio principe quando sono arrivati quattro armigeri su due motociclette, con la visiera del casco abbassata".
Per "armigeri" sicuramente doveva voler intendere guardie o gendarmi... Mi veniva difficile comunque distinguere quanto di ciò che diceva fosse vero e quanto invece fosse il frutto del delirare di una mente sconvolta. Sicuramente i fatti per lei dovevano svolgersi come in un teatro, inseguendo le fantasie dell'amante, ma, dietro lo scenario fantasioso, si delineava un quadro rigorosamente logico.
Quando aveva deciso di andare a vivere per strada, Bira credeva di essere il principe Charles, perdutamente innamorato della principessa Diana, allora ventenne. Aveva pervorso una brillante carriera di ballerino e aveva ottenuto anche qualche parte di spicco presso il Teatro Municipale. Aveva fatto persino uno stage a Broadway, dopo un provino che Chorus Line, in cerca di nuovi talenti, aveva realizzato nelle principali città brasiliane. Ma il tempo era passato e il successo non gli aveva arriso. Fu quando incominciò con quelle idee deliranti e decise di abbandonare i suoi vecchi per andarsene a vivere sulla strada. Una volta conosciuta Pamina, aveva soltanto sostituito il contenuto della proiezione personale, senza cambiarne lo status, di principe appunto.
"Perché stai raccontando proprio a noi tutte queste cose?".
"Perché la Landau è la nostra unica testimone. Sulla sua lamiera ci sono infatti le impronte delle mani di due di quegli energumeni che vi si sono appoggiati mentre aspettavano l'arrivo del loro capo".
Adesso sì che ero proprio nei pasticci. Se me ne fossi andato, mi sarei sentito un verme; se fossi rimasto, mi sarei trovato in un ginepraio che poteva portarmi alla rovina.
"I nostri amici dormivano placidamente sul marciapiedi dell'altro lato della via. Il terrore ci immobilizzò all'istante, mentre i blusons noirs spegnevano i motori a debita distanza e si disponevano in punti strategici per controllare eventuali ficcanaso. Abbiamo visto tutto attraverso i buchi della coperta e abbiamo dovuto persino trattenere il fiato, nella speranza di non essere scoperti. E siamo stati fortunati. I nostri amici invece non hanno avuto la stessa sorte".
"E adesso, che vuoi che faccia? Porto la macchina in commissariato e dico: "Signor Delegado, per favore, la interroghi"?".
"No, ma potremmo consegnare gli adesivi a mio cugino Jorge, investigatore della polizia", suggerì Melissa. Era soteropolitana anche lei, ma la famiglia si era trasferita a San Paolo quando era ancora piccola. A Salvador, che in greco (pensate!) si dice "soter", erano rimasti tutti gli altri parenti "soteropolitani".
L'idea mi parve magnifica. Avrei potuto prendere il tizzone con lo zampino del gatto. C'era molta gente interessata a far piazza pulita degli ostacoli che si frapponevano ai grandi piani di sviluppo condotti a qualunque costo dai potentati, anche in modo machiavellico. L'Unesco aveva recentemente dichiarato il Pelourinho patrimonio dell'umanità e la presenza di quei piccoli delinquenti senza dubbio infastidiva i piani di restauro del meraviglioso complesso architettonico di Salvador antica e la conseguente promozione turistica.
Tornammo in albergo per preparare, in buste con talco, gli adesivi che avevamo staccato con cura dalla macchina. Ne facemmo un plico da spedire alla casella postale di Jorge quando fossimo stati ormai fuori pericolo.
Quando lasciammo l'albergo, sperando che fosse davvero per l'ultima volta, trovammo in strada una piccola folla che si beava dinnanzi al raro spettacolo dei due accattoni-ballerini in piena esibizione delle loro doti artistiche. Stavano eseguendo, in tedesco, il duetto di Pamina e Tamino dell'opera Das Zauberflöte di Mozart, a diecimila chilometri da Vienna. La sapevano tutta. Non c'era l'orchestra, né la Regina della Notte, né Sarastro, né Monostato, né gli Armigeri, né Papageno, ma la coppia si arrischiava a cantare anche le parti del coro con un'energia e una grazia che rendevano piacevoli persino le frequenti stecche. L'improvvisata coreografia davanti alla Landau poi, era ineffabile. Correvano all'incontro l'uno dell'altra come due libellule in amore, si libravano come su cuscini di vento trascinati da una forza invisibile, in arditi volteggi, o improvvisamente fermi in pause estatiche sull'alito senza tempo della passione esplicita.
"Tamino mein! O welch ein Glück!". "Pamina mia! Oh, qual piacer!"...
Sapevano che, grazie a noi, i loro giovani amici sarebbero stati vendicati e si sarebbe riaccesa la speranza di un freno all'impunità, nei confronti di tante altre persone, possibili vittime della prepotenza dei grandi.
Ci allontanammo mentre Pamina cantava amorosa al suo Tamino: "Ovunque tu andrai, / compagna m'avrai fida ognor. / Io guiderò il mio ben: me guiderà l'amor. / Di fiori e rose amore almen / le vie spinose abbellirà. / Ma degli incanti è teco il suon? / Perigli e pianti ei vincerà".

Da tempo mi ero rimesso al lavoro e non mi ero neanche più visto con Melissa, nonostante fossimo rimasti buoni amici, quando lei mi telefonò, lasciandomi di stucco con poche parole: "Scompari subito. I sospettati appartengono tutti alla polizia. E Jorge é uno di loro".
Ecco perché me la sono data a gambe e sono andato a finire in Paraguay. Con la mia Landau, naturalmente.

Nonostante tutto sono sempre abbastanza tranquillo e spero che quegli energumeni non siano poi così stupidi da pensare che io non abbia provveduto a fare una copia di tutte le evidenze rilevate sulla Landau. Come? Direte voi. La mia bella Zeiss. Non mi è servita soltanto per riprendere i bellissimi paesaggi baiani: la Lapinha, il largo della Sé, la Barroquinha, le Sette Porte, Rio Vermelho, Porto da Lenha, Monte Serrat, Solar do Unhão, Largo de Santana... Mentre Melissa preparava le buste in albergo, io fotografavo da tutti gli angoli la Landau, che sembrava una vittima di incidente stradale piena di bende e di cerotti, con tutti quegli adesivi ancora appiccicati sopra. Poi, una ad una, ho fatto il primo piano alle impronte... incipriate . Ho preparato una copia di tutto per il segretario generale delle Nazioni Unite, una per il Presidente della Repubblica, un'altra per il Presidente del Supremo Tribunale di Giustizia... Quei lestofanti oramai sono incastrati. Qualunque cosa mi capiti, Pamina sa già cosa fare. È il piano "L" (da "Landau").

© Giuseppe Butera





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La mia Landau ed altre storie
di Giuseppe Butera
2008
pg. 120 - A5 (13,5X21) BROSSURATO
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