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Di carne, ossa e mattoni
di Maria elisabetta Giarratana
Pubblicato su PBSE2019


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Di carne, ossa e mattoni

 “Tanto io sono più brava!” Cantilenava Maya, con la testa china giù alla battigia, alla ricerca del sasso perfetto.

“Non è vero. Guarda un po’ qui. Gli ho fatto fare tre rimbalzi! Tu solo due…” Leonardo osservava soddisfatto i cerchi concentrici farsi sempre più larghi sulla superficie azzurra e calma fino a sparire.

“Solo perché ancora non avevo trovato questo.” Gli mostrò un sasso nero e lucido, piatto e tondo, grande come il palmo della sua mano. “Il segreto sta nel trovare la pietra giusta” continuò la bambina, “ora guarda che gliene faccio fare quattro o cinque.” E, senza aspettare risposta, lanciò con forza in acqua il sasso che andò dritto a fondo. Leonardo era piegato in due dalle risate mentre lei metteva il broncio.

“Sì, ridi pure. Quando sarò  regina ti farò pentire amaramente, vedrai!”

Leonardo cercò di ricomporsi. “Tu non sarai mai la regina! Sei più piccola di me, quindi tocca a me diventare re! Sei proprio tonta sorellina!” In quel mentre la vecchia nutrice si era affacciata sulla spiaggia dall'alto del promontorio in cerca dei due bambini, e ora si sbracciava per invitarli a tornare alla reggia .

“Uffa! Proprio adesso che mi stavo divertendo!” Brontolò Leonardo. Maya, che invece aveva gradito quell’interruzione, era già avanti e correva, sfidando il fratello a chi arrivava per primo al ponte levatoio.

Le ancelle li accolsero premurose, pronte a infilarli controvoglia nelle tinozze da bagno e a strofinarli ben bene. Furono vestiti di tutto punto, pettinati e profumati e, a quel punto, considerati pronti e degni di essere ricevuti dai Sovrani.

“Mamma! Devi dire a Cristina che non voglio fare il bagno!” Si lamentava Leonardo infilando la testa nel morbido grembo materno e ricevendo tenere carezze. Maya invece raccontava fitto fitto la sua avventurosa giornata al padre che l'ascoltava attento. Lilla, la cagnetta, dormiva ai piedi del trono. Chiacchierarono, giocarono e, infine, quando i genitori promisero che l'indomani sarebbero andati a fare una passeggiata fino ai margini del bosco, i bambini  manifestarono la propria gioia saltellando di qua e di là e divertendosi a tirare, e poi a scappare, i lembi delle tuniche delle guardie immobili alle pareti, che li guardavano benevoli e rassegnati.

E la sera, a tavola,  gustando i dolci al miele, Maya pensò che la sua era la vita più bella e fortunata che una bimba di dieci anni potesse avere.

 

Il fragore delle onde che s'infrangevano sulle rocce e lo sciacquio della risacca la cullavano, pacificandola con il mondo. Respirò a pieni polmoni l'odore di salsedine che le giungeva con il vento e si rannicchiò sulla sdraio per godersi tutto il tepore del sole di aprile. Immaginò il blu cobalto del mare intessuto dai riflessi d'oro appena sotto di lei, distendersi infinito all'orizzonte. Pochi passi d'erba e la costa scendeva d'un colpo a strapiombo per una decina di metri, mutandosi in scogli aguzzi e frastagliati.

Sapeva dove sistemare la sua sdraio, il punto esatto, avvisata dai suoni del mare e, semmai fosse stato necessario, dal suo fido Sgherro, un pastore maremmano di diciotto anni che la seguiva ovunque. Si godeva quei momenti anche d'inverno, anche quando il vento era talmente forte da trascinarla con sé e le gocce d’acqua schizzarle il volto e la musica farsi ruggito. Anche quando pioveva e il gelo le si attaccava alla pelle e Sgherro sussultava a ogni tuono e lei immaginava i suoi occhi imploranti. Il fatto è che non ne poteva fare a meno, per lei quella passeggiata giornaliera fino alla scogliera era necessaria come l'aria. Tornava rinfrancata a casa sua, un centinaio di metri più a monte, dimentica dei malanni e dei ricordi che l'attanagliavano e con la voglia di vivere che, troppo frequentemente oramai, le veniva a mancare. Sgherro la precedeva, felice di tornare a casa e di accucciarsi sul suo tappeto.

Quel pomeriggio il sole era ancora alto quando decisero di rientrare e Sgherro, come al solito, scattò avanti. Lei era a una cinquantina di passi indietro, arrancava lentamente poggiandosi al suo bastone, quando lo sentì abbaiare furiosamente. Non lo faceva mai se non quando c'era qualche estraneo. E questo succedeva di rado, in quanto abitava in aperta campagna. Lo avevano scelto appositamente quel luogo, lei e suo marito, tanti anni prima, sperando  rimanesse incontaminato più a lungo possibile. La strada più vicina era a più di un chilometro e lei raramente scendeva in città. Le provviste le portava  il fattorino dell'ipermercato a cui chiedeva di svolgere anche qualche altra commissione, in cambio di una piccola mancia. E Sgherro quel ragazzo lo conosceva bene. Rallentò il passo, dando il tempo a quell'ignoto visitatore di palesarsi o al cane di mangiarselo, se si fosse trattato di un malintenzionato. Sebbene anziano, era convinta che Sgherro sarebbe stato ancora capace di difenderla, se necessario.

 Non fu necessario. Udì una voce maschile e giovanile cercare di calmare il cane e, rivolgendosi a lei, l'ignoto visitatore s’identificò come l'appuntato Fabrizi della caserma dei carabinieri cittadina.

“E' lei la signora Morelli?”

La donna non rispose ma annuì, dirigendosi lentamente  verso la voce. Sgherro non smetteva di abbaiare.

“Per favore, signora, può richiamare il suo cane? Dovrei comunicarle una cosa importante.”

Lei richiamò Sgherro ma non si avvicinò del tutto. “Come faccio a sapere che lei è un vero carabiniere?” .

“Beh, signora, la divisa... Se desidera posso anche mostrarle il distintivo.”

“No, va bene.” Individuato il punto esatto da dove proveniva la voce, gli si avvicinò ancora, poi inforcò gli occhiali scuri.

“Ho una leggera congiuntivite”, si scusò. “Cosa desidera?”

“Lei è la signora Francesca Morelli?”

“Le ho già risposto di sì, mi pare.”

“Sono venuto a notificarle questa.” Tese la mano.

“Di che si tratta?” Domandò, senza muovere muscolo.

“Il mio compito è solo notificarle l'ordinanza. Il contenuto potrà leggerlo con calma. Deve firmare qui.”

Francesca non si mosse. Poi, fece cenno all'uomo di poggiare foglio e bolla  sul tavolo accanto.

“Mi tremano le mani, lì mi viene meglio.” Si mosse lentamente poggiando entrambe le braccia sul tavolo di resina. Con il gomito sfiorò la carta.

“Mi dica dove firmare di preciso.”

Il Carabiniere mosse il braccio e lei lo intercettò come per sbaglio, seguendone la mano fino alle dita e al punto indicato. L'uomo ebbe un attimo di perplessità, ma si rassicurò vedendo la donna apporre con decisione la sua firma sul foglio.

“Bene, io posso andare signora. A meno che non le possa essere d'aiuto...”

“No, grazie.” Rispose lei, risoluta e anche un po' risentita.

“Non volevo essere invadente, ho solo pensato che una signora anziana che vive da sola in questo posto sperduto potesse avere bisogno...” Non sapeva che dire, capì di essere stato poco discreto. Fece il saluto militare e imbarazzato s'infilò nella camionetta. Francesca seguì il rombo del motore fino a quando si allontanò e scomparve. Sospirando, entrò in casa con quell'inutile foglio in mano.

“Credono che, solo perché siamo anziani, diventiamo degli inetti! Ti rendi conto?” Carezzò Sgherro che sembrò annuire. Poi  si avviò in cucina, con la notifica ancora in mano, soppesando la busta e carezzandone la ruvida carta,  come per indovinarne il contenuto, infine aprì il coperchio dell'immondizia e la buttò dentro.

“Qualunque cosa vi sia scritta a noi non interessa, vero Sgherro?” Seguì con le dita i bordi del piano in marmo fino agli stipetti dove erano le pentole. Ne afferrò una e la riempì d'acqua. “Oggi pennette con salsa di pomodoro, che ne dici?”

Le trombe risuonavano nella valle, luccicando dall'alto dei torrioni all'ultimo sole del tramonto. Carri e carrozze facevano la fila per entrare al castello, le ruote cigolanti mentre attraversavano il possente ponte levatoio. Nel cortile gli scudieri si davano da fare per ricoverare i cavalli nelle stalle, mentre i servitori accoglievano gli ospiti. Quest'ultimi, impolverati dal viaggio, che per alcuni era stato anche piuttosto lungo, si sciacquavano volti e mani nella fontana centrale, spolverando i pesanti abiti e sistemando capelli e parrucche. Il via vai degli aiutanti e dei cuochi dai magazzini alle cucine lasciavano intuire l'importanza e la varietà del banchetto in preparazione. Odore di arrosto, pane caldo, spezie. Sguattere sedute fuori su panchette di legno erano impegnate a spennare capponi, altre a mondare verdure o sbucciare tuberi. Il conestabile, basso e tondo, girava di qua e di là come una trottola, per accettarsi che tutto procedesse bene. Ogni tanto qualche urlo, qualche rimprovero, la cuoca che acciuffava per i capelli lo sguattero maldestro, le uova che cadevano dalle mani della servetta, il maialino da latte che non ne voleva sapere di immolarsi al festino.

Nel grande salone era già tutto pronto. La tavola principale rialzata e arredata con una preziosa tovaglia intarsiata e i piatti d’oro. Disposti intorno a essa altri tavoli più spartani a cui si sarebbero accomodati gli ospiti. Fiori, tappeti e arazzi, centinaia di candele. I giullari e i cantori pronti a intrattenere il pubblico, i paggi a servire le pietanze. Gli invitati iniziarono a prendere posto, mentre allegre musiche si diffondevano intorno insieme all’acre odore di fumo del grande camino. Quando tutti furono seduti, un roboante squillo di trombe annunciò il sopraggiungere dei Sovrani. Il silenziò calò di colpo, tutti si alzarono e si voltarono verso le scale. Preceduti dalle dame di corte, ecco, sontuosamente abbigliati, i Reali. La prima a scendere fu Maya, che con i suoi quindici anni era già una vera e propria bellezza. Alta, con una lunga treccia scura legata a fili d’oro, indossava un abito oro e rubino, gli occhi turchesi sulla carnagione chiarissima, le labbra rosee sorridenti. Subito dopo fu la volta di Leonardo, il principe ereditario, il sogno di ogni ragazza del regno, folti capelli castani e occhi azzurri, indossava l’alta uniforme argento e blu e al fianco la spada che fu degli avi con incastonate pietre preziose. In ultimo ecco il Re e la Regina,  l’una con la mano sul braccio dell’altro, il tempo sembrava non aver scalfito la loro bellezza e la loro armonia. Un applauso spontaneo echeggiò nella sala, mentre  il conestabile invitava gli ospiti a far silenzio. La regina stava per tenere il suo discorso.

Si svegliò all’improvviso, turbata. Respirava affannosamente, era sudata e d’istinto afferrò il bicchiere d’acqua sul comodino. Dov’era? Nell’aria sentiva ancora l’odore di fumo e spezie. I suoni, le voci del castello, gli invitati, i principi, il re e la regina. Ah, tutte cose che poteva vedere, luminose, dorate, splendide. Ora solo buio. Che ore erano? Dall’assenza di rumori doveva essere ancora notte. Cercò la sveglia, toccò le lancette. Le tre e quindici. Rituffò la testa sul cuscino, sperando di riaddormentarsi, accompagnata dal guaito solidale di Sgherro.

Il conestabile batté tre volte col bastone  sul pavimento.

“Signore e signori, la Regina”.

Lei avanzò al centro della stanza e si posizionò in piedi innanzi al trono. Il consorte le si sedette accanto, i due figli davanti, in ginocchio, come da usanza.

Fece un cenno a Maya e costei si alzò. Le due donne erano l’una di fronte all’altra e si fissavano da figlia a madre, da principessa a regina. Poi, la Regina sorrise e si accinse a parlare.

“Figlia, oggi è giunto il tuo giorno. Qui, nella tua casa e davanti al tuo popolo, ti prepari a giurare. Gioisce il mio cuore sapendo che diverrai regina, soffre al pensiero dell’inevitabile distacco.” Voltò il capo verso la vetrata che dava all’esterno, lo sguardo sul giardino, i campi, il mare.

“Osserva, figlia. Il sole è tramontato sul nostro regno e la nuova alba ti vedrà lontana, in cammino. Durerà tanto il tuo viaggio e chissà se mai avrà fine. Questo ti auguro oggi, o mia diletta. Che tu possa trovare il tuo regno e il tuo popolo. Partirai oggi con il tuo esiguo seguito e attraverserai terre, regioni, popoli.  Incontrerai tante persone sulla tua via. Ti guarderanno e tu, occhi negli occhi, anima dentro anima, dirai chi sei. Alcuni ti faranno procedere, altri ti vieteranno il passo, altri ancora ti seguiranno. E lo faranno perché nei tuoi occhi avranno trovato la loro strada e la speranza.

Vai, figlia, e non temere. Accoglierai chi ti vorrà seguire e tutti coloro diverranno il tuo popolo. Non aver paura di chi ti odierà senza conoscerti, non biasimare chi ti giudicherà perché straniera. Libera, tu camminerai sulle strade del mondo, finché, un bel giorno, troverai il luogo dove edificare la tua casa.”

A un segnale un paggio si avvicinò reggendo un cuscino con sopra quel che pareva un mattone.

“Ecco. Prendi e portala con te. Sarà la prima pietra con cui costruirai un giorno il tuo castello. Proviene dalle fondamenta di questo palazzo, per non dimenticare chi sei, le tue radici. E, come usanza vuole e ogni essere umano su questo pianeta conosce, chi vorrà seguirti porterà anch'egli un mattone con sé. Insieme, mattone su mattone, donne e uomini, costruirete il vostro solido palazzo in cui vivere in concordia.”

Le prese la mano e si accorse che la fanciulla tremava, gliela strinse. Era giunto il momento.

“Giura, figlia, se è questo che vuoi, di assolvere al tuo compito di regina senza regno, finché gli esseri umani e il destino te ne concederanno uno.”

Maya, con un filo di voce, giurò. La madre sorrise e uno scroscio di applausi festosi e commossi l'accolse. Il conestabile batté ancora tre colpi per invitare al silenzio. Mancava la benedizione della regina. Quella, con gli occhi lucidi e la mano della figlia ancora tra le sue, così parlò.

“O Regina, o figlia, porta con te le mie ultime parole e il sorriso della tua famiglia e dei tuoi sudditi e ricorda.

Che il tuo cuore possa rimanere puro e gli occhi limpidi, la mente aperta e attenta. Quando guarderai avanti, dall'alto delle torri o a terra tra la polvere, possano le stelle, il sole e il mare risplendere sempre per te, anche nei giorni di pioggia. Fa che non si tinga mai di rosso la bianca pietra delle tue mura, che non vi scorra il sangue dei tuoi fratelli. Che nessuno sia straniero nella tua casa e che l'amore del tuo popolo non superi mai il tuo per loro. Fa che non debbano mai soffrire la fame, il freddo o la solitudine. E, nell'ora estrema del silenzio, possa tu essere chiamata da tutti, sempre e per l'ultima volta ,“la nostra amata regina”.

Il banchetto fu consumato tra gioia e allegria. A tarda sera, Maya con il suo seguito partì per il suo lungo viaggio, salutata dai sorrisi e dalle lacrime della sua gente.

I giorni a seguire fu nervosa ed eccitata. Non poteva fare a meno di ripensare a quello splendido sogno. Rappresentava la luce e la compagnia che le mancavano nella vita. Non riusciva a calmarla neanche la solita passeggiata al mare, desiderando ardentemente che fosse notte per tornare a sognare. Ma non capitava e il tempo passava e lei si sentiva sempre più sola. Un giorno, rientrando a casa, trovò una brutta sorpresa. Il portoncino d'ingresso era bloccato. Seguì con le dita la serratura e si accorse che un nastro in plastica l'avvolgeva. Chi poteva essere stato e perché?  Ripensò al carabiniere e all'ordinanza mai letta. Ebbe un tuffo al cuore. Se lo doveva immaginare, in fondo erano mesi che riceveva lettere di ogni tipo, fino all'ingiunzione consegnata personalmente da un rappresentante delle forze dell'ordine. Era successo qualcosa, forse  i servizi sociali, sapendola sola e malata, la volevano rinchiudere in una casa di riposo. O  era a causa del mutuo sulla casa le cui rate aveva smesso di pagare alcuni anni or sono. Insomma, la volevano mettere alla porta? Non sarebbe accaduto. Lei sarebbe stata più furba. Non avrebbe rotto i sigilli, così l'avrebbero lasciata stare in pace, magari pensando che aveva trovato una sistemazione da qualche parente. Sarebbe entrata dal retro, la porta che nessuno conosceva  e che dava direttamente in cucina. Avrebbe fatto attenzione, nessuno si sarebbe accorto della sua presenza, seppure fossero venuti a controllare. Asciugò gli occhi spenti e si diresse sul retro. Sgherro le trotterellava quieto accanto.

Quanti anni erano trascorsi? Almeno quindici, pensò, guardandosi allo specchio di madreperla. Il riflesso forniva l'immagine di una donna alta e fiera, dalla pelle abbronzata, i capelli corvini lunghissimi e gli occhi di un turchese intenso, dove era facile sprofondare, come negli abissi di lontani oceani. Aveva  attraversato città  e montagne, solcato mari e fiumi. Numerose volte si era fermata, nella speranza fosse quella l'ultima meta. Ma ogni volta il vento l'aveva chiamata e lei era dovuta ripartire. E il suo popolo l'aveva seguita, senza fare domande, sempre più numeroso, ognuno col suo mattone, ognuno col suo fardello e le sue speranze. Aveva anche creduto, nel viaggio, di trovare l'amore, ma poi aveva capito che, come tutto il resto, era fatto solo di vento.

Ah, quanta gente aveva incontrato! Quante cose aveva imparato e insegnato! Tra i ghiacci delle terre del nord o fra la sabbia del deserto, tra antichi popoli e nuove tribù. Aveva conosciuto l'odio e il disprezzo nei sorrisi di chi le tendeva la mano e poi la vendeva e tradiva; la paura e il sospetto di chi la vedeva estranea e diversa. E anche lei aveva odiato e avuto paura. No, il suo cuore non era rimasto puro come le aveva augurato sua madre, la sua forza non era riuscita a salvare il suo popolo dal dolore e dalla rabbia, dalla sofferenza senza riparo.

Quanti temporali sulla pelle nuda, quanto sangue innocente, quanti sogni infranti sulla strada percorsa.

Aveva creduto, aveva sperato centinaia di volte che fosse giunto il momento e il luogo promesso dove edificare il proprio regno. Quante volte, stanca, aveva supplicato aiuto e ricevuto in cambio disprezzo. Quante volte aveva promesso speranza e tradito con l'abbandono. E ogni nuova alba aveva portato nuove mete, polvere e rovi con cui segnare la pelle.

Respirò l'aurora, fissò il sole che nasceva sulle dune del deserto. Il campo cominciava ad animarsi, la sua gente a vivere. Tra poco sarebbero ripartiti, via verso est, verso un nuovo destino. Guardò le donne con i bimbi in fasce, i vecchi dal passo strascicato, gli uomini pronti a brandire spade e sorrisi. Chi, stavolta, avrebbe inferto loro nuovo dolore? Chi avrebbe abusato delle loro speranze? Verso quali nuove illusioni lei, Maya, regina di un regno senza terra e senza nome, avrebbe condotto quella gente?

Aveva imparato a non piangere. Alzò il volto e ascoltò il vento. Poi, chiamò il suo popolo al cammino.

L’estate, la stagione più bella. Era giunta improvvisa come ogni anno e aveva preso possesso della campagna, dell’aria. Francesca ne carpiva profumi e suoni serbandoli nel cuore, per ritrovarli freschi e intatti in inverno, come si fa con le conserve. Il problema si presentava quando, invece di semplici sensazioni,  la travolgeva una fiumana di ricordi che la lasciavano senza fiato.

Da una decina d'anni oramai non viveva, sopravviveva. A se stessa, in attesa. Da quando cioè le era morto il marito, l'unico suo vero legame col mondo. Non aveva mai avuto molto nella vita, non le era stato concesso un figlio, né era riuscita a coltivare amicizie durature. Si era sempre consolata con l'idea che tanto i figli vanno via e gli amici tradiscono. Ciò che le era rimasto erano il suo cane, la sua casa, e il mare lì vicino. In attesa che tutto finisse. Infine, il buio l'aveva avvolta completamente da un paio d'anni togliendole ciò che era la sua ultima gioia, la luce.

Non aveva mai trovato il senso a tutto ciò. Poteva considerarsi alla fine del suo viaggio e si rendeva conto che nulla era andato come lei aveva sperato, niente aveva avuto un reale significato. Pochi sogni da ragazza, il suo amore ormai spento: cose lontanissime e forse mai esistite.

Quel sogno, però, l'aveva colpita. Erano secoli che non provava curiosità, che non si emozionava davvero per qualcosa. Chissà se Maya avrebbe trovato quel che cercava!

Entrò in casa di soppiatto. E il suo, di castello? Le avrebbero tolto la casa? Aveva sempre pensato di trascorrerci gli ultimi anni di vita. Quella mattina aveva sentito delle voci di estranei e si era nascosta. Qualcuno andava e veniva un po’ troppo frequentemente da casa sua, ultimamente. Aveva udito una voce maschile e una femminile discutere. La donna chiedeva se era meglio entrare e controllare, mentre l'uomo rispondeva che lo avevano già fatto prima di mettere i sigilli e che nessuno era tornato dato che erano ancora integri. Quel che c'era dentro era solo vecchiume e se la vecchia scorbutica lo aveva lasciato, allora non interessava neanche a lei.

Vecchia. Parlavano di lei. Scorbutica.

Lei era così? Ripensò a quando era giovane. Era stata bella, una volta.

Maya. Le sarebbe piaciuto essere come lei, avere ancora la forza di andare avanti e cercare.

Alì giunse al suo cospetto e le si inginocchiò davanti. Era il suo luogotenente più fidato, sebbene tanto giovane. Era trafelato, la mascella contratta e i muscoli tesi. Era giunto di corsa e, pur avendo urgenza di conferire con la sua regina, rimase a testa bassa fino a che lei gli diede il permesso di parlare. Maya si stupì nel vederlo così inquieto. Quando lui alzò il capo e lei incrociò i suoi occhi scuri, si accorse della preoccupazione che lo agitava.

“Dimmi tutto, amico mio, non ti preoccupare della mia salute e parla.” Lo invitò ad alzarsi, posandogli la mano sulla  spalla.

Lui addolcì lo sguardo. “O mia regina, sai che sono il tuo umile servo e morirei per te. Ma è mio dovere riferirti ciò che turba il tuo popolo.”

“Ciò che angustia il mio popolo angustia anche me. Parla pure.”

“Esitano a rimettersi in viaggio. Urlano che non sei stata una buona regina, che hai donato loro solo sofferenze e privazioni.”

“Hanno ragione.”

“Ti rimproverano di aver loro promesso una terra e un nome e di non aver saputo mantenere fede al tuo giuramento.”

“E' vero.”

“Che non li hai amati a sufficienza.”

“No, questo mai. Sono, siete sempre stati il mio primo pensiero.”

“Hanno paura, o mia regina. Dicono che, e io non lo credo, sei alla fine dei tuoi giorni e, andandotene, ci lascerai allo sbaraglio. Soli, senza meta.”

Maya abbassò lo sguardo. “Non ci saranno ancora molte primavere per me, lo so. Sono vecchia e malata. Non so più quanti anni trascorsero da quando giurai innanzi a mia madre di proteggere la gente che mi avrebbe seguita e fondare per loro un nuovo regno dove vivere in pace. Ho visto invecchiare e morire coloro che per primi mi hanno seguita, bambini farsi uomini e donne valorosi. Gente di ogni età, condizione e provenienza, lasciare la loro casa e seguirmi. Ho promesso a tutti loro la speranza. L'ho vista pian piano svanire sui letti di morte, tra  dolore e  privazioni. Ho fallito. Ma ho creduto, ho cercato.”

Lui accolse la sua mano tremante.

“Oh, mio caro ragazzo, quant'è vana la vita! Com'è fievole e illusoria! Passa via veloce, come il vento e, come il vento ti lascia addosso solo polvere. Dov'è ciò che ho cercato ogni giorno, ogni attimo in questi anni? Dov'è il mio popolo, il mio regno? Ho fallito.”

Lui poggiò le labbra sulle nocche rugose, la pelle sottile e fredda. “Sono ancora giovane, lo so. Non ho la tua saggezza e la tua conoscenza, o mia regina. Il tuo cercare un senso è stato il nostro, nostro il tuo vagare per il mondo. E, quando tu ti fermerai, anche noi lo faremo. Siamo il tuo popolo, noi siamo il tuo regno. Non temere i malcontenti,  essi sono come il vento. Vedrai, o dolce Maya, mai la tua gente ti tradirà.”

“Oh, sagge e dolci parole amiche. Balsamo al mio dolore, luce per i miei occhi. Perché ci mettiamo tanto a comprendere ciò che è a un passo da noi? Regina di un regno senza nome e senza terra, guarda ciò che fino a poco prima non vedevi! Ora solo ho capito, sarà tardi? Oh popolo, o popolo, avvicinati a me, ascolta ciò che avrei dovuto dirti dal primo giorno!”

Con il bastone in una mano e l'altra sul braccio di Alì, Maya uscì dalla tenda, al limpido sole di giugno. Verde la terra e blu la striscia luccicante all'orizzonte, dolce e profumata l'aria. Alì radunò il popolo e disse loro che la regina voleva parlare, tutti si avvicinarono, in ascolto.

Le sue lacrime avevano bagnato il cuscino. Ah, i suoi occhi spenti ancora capaci d'intenerirsi! Il vento soffiava dalla finestra aperta e lontani uccelli notturni segnavano l'ora. I fiati, gli archi. I canti, la melodia. Da quale parte della sua vita giungevano? Un flauto dolce, solitario. Triste? Malinconico? Ecco il mare, il suo dolce cullare. Un violino, due e tre... Risate, parole sussurrate, teneri baci.  Danzavano lente le tende e le sfioravano il viso. Si alzò e serrò le imposte. La quiete della notte l'assopì di nuovo.

“Se non avessi viaggiato non sarei qui, oggi. Se non avessi vissuto non avrei compreso. E' servito il dolore, sono serviti   i dubbi, le difficoltà. Per capire che voi siete il mio regno e il mio popolo, ovunque siamo o andremo, qualunque nome avremo. Liberi di andare per il mondo o di fermarci, liberi di essere quel che vorremo. O popolo, è servita un'intera vita per comprendere ciò? Guardate questa terra: è fertile e ampia, il clima è mite, la gente tranquilla. Volete fermarvi? Sarò con voi. Volete continuare a seguire il vento? Sarò con voi. Non abbiate timore, insieme affronteremo ciò che il destino ci riserverà, per gli anni che mi restano. Non abbiate timore di chi vi chiederà chi siete e cosa volete. Esseri umani. Così risponderete: donne e uomini liberi.

Non voleva svegliarsi, ma forti rumori provenivano da fuori, nonostante le imposte sprangate. Era ormai giorno e fuori c'era qualcuno, qualcosa. Voci, cigolii, rombi di motori. No, non le interessava, voleva dormire e sognare.

 Ogni donna e uomo porta il suo mattone e lo posa intorno all'antica pietra della regina. Mattone dopo mattone, s'innalzano le mura, sempre più alte, cresce il castello del popolo.

Passano le stagioni e giunge il giorno in cui le trombe squillano festose. Ecco i torrioni che sfiorano le nuvole, sui maestosi muri elicoidali, ecco la gente gioisce ed esulta. Ecco la regina, più bianca, più felice, accogliere sorrisi e mani.

“O nostra amata regina...”

Sale, lenta, decisa. Fino alla sommità, fino al cielo da cui, le hanno detto, si vede il mare.

 

“Forse dovremmo controllare nuovamente, prima di procedere...”

“Non serve, i sigilli sono intatti e le finestre sprangate.”

Gli ordini vengono dati e le ruspe avanzano. Sgherro si agita, abbaia, nessuno lo sente. Francesca dorme sorridente.

 

Splende il mare con i suoi riflessi d'oro, splende per lei. Da quanto tempo non lo vedeva! Oh, gli occhi della regina sono i suoi. La guarda, “O Maya, o regina.”

 Entrambe si osservano bianche e antiche e sorridono. Entrambe si ritrovano giovani, lunghi i capelli corvini, gli occhi turchesi. Identiche, una.

 

Cadono le mura, s'infrangono i vetri. Sgherro trema con il muso sulla mano della padrona, gli occhi sgranati.

 

Un'ovazione, un unico urlo l'acclama: “O Nostra amata regina, o amica, o amore, o madre.” La luce l'avvolge, il calore. Francesca sorride.

 

Cade ai colpi di ruspa l'ultimo mattone.

© Maria elisabetta Giarratana





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