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Trattamento di quiescenza
di Piercarlo Macchi
Pubblicato su SITO


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RACCONTO SEGNALATO DALLA GIURIA NELLA
II EDIZIONE DEL CONCORSO LETTERARIO UNIBOOK - PROGETTO BABELE

Anche per lui era giunto il tempo del pensionamento.
Ne era felice? Sì, no, non lo sapeva.
La pensione era arrivata dopo una carriera lunga, faticosa, impegnativa, ma anche piena di soddisfazioni. Era un alto funzionario del corpo diplomatico, e le sue responsabilità erano via via aumentate, fino a farlo diventare uno dei fattori decisivi in molte trattative. Le sue idee avevano influenzato grandi sistemi economici, avevano salvato milioni di esseri dalla fame, i suoi errori erano stati pagati da intere popolazioni.
Come buonuscita gli era stato concesso di scegliersi un luogo dove ritirarsi, uno qualunque, a suo piacimento. Gli sarebbe stato dato in comodato d'uso. Solo gli avevano chiesto di rimanere in incognito, e di restare a disposizione del corpo diplomatico in caso di necessità grave o di un'emergenza.
L'anonimato gli andava bene: essendo senza famiglia, l'avrebbe chiesto lui stesso. E restare a disposizione l'avrebbe fatto sentire ancora utile, senza contare che un po' d'azione avrebbe rotto la monotonia e la nostalgia che forse lo attendevano dietro l'angolo.
Per il luogo, non aveva dubbi: scelse un casolare della campagna toscana. Una zona che aveva conosciuto in passato, quando aveva visitato un politico che si era rifugiato in quel paese, per sfuggire alla condanna a morte decretatagli da una setta segreta di assassini. Adesso quel politico era morto, in un altro posto in un altro momento la setta aveva raggiunto il suo scopo; ma a lui era rimasto il ricordo di quel luogo, il più bello della Terra. Ricordo che era cresciuto, col tempo, fino a diventare una nostalgia, un bisogno che ora poteva soddisfare.
La visita di controllo, per accertarsi che tutto fosse rimasto come ricordava, fu più che soddisfacente. Anzi, adesso che le fattorie erano state ristrutturate, che i pali e i tralicci dell'elettricità non erano più necessari, che l'asfalto era sostituito da un conglomerato che dava alle strade un aspetto naturale, era addirittura migliorato.
Così iniziò la sua nuova vita, in un bel casolare in cima ad un'altura baciata dal sole, quel bel sole caldo che solo lì si poteva gustare appieno. Un'aia, degli alberi per riposare all'ombra, degli animali da compagnia, e la discreta assistenza di una famiglia di vicini che si era prestata ad accudire l'affascinante pensionato inglese, questa era la copertura, che era venuto a stare in Italia.
Il fattore gli insegnava i rudimenti di giardinaggio e orticoltura, e lui rimase affascinato dalla coltivazione delle fragole. In poco tempo, ne divenne un vero conoscitore, creando specie nuove ed esotiche ed utilizzandole in marmellate e altre vivande.
I manicaretti della moglie del vicino gli fecero accumulare rotoli impertinenti intorno alla vita, quindi decise di fare un po' di moto. Fu con gioia che scoprì una vecchia, antica, bicicletta nera con i freni a bacchetta, molto signorile. Una volta risistemata divenne il suo mezzo preferito per fare visita ai vicini e per esplorare i dintorni. Adorava girare in quei luoghi, e non si lasciava innervosire dai ragazzi schiamazzanti sui loro motorini monoruota che infestavano i dintorni come sciami di zanzare.
C'erano le salite, faticose, che lo obbligavano a scendere di sella e a procedere a piedi, ma erano seguite dalle discese, esaltanti e sfrenate che lo ripagavano dello sforzo.
Fu in fondo ad una discesa che incontrò Giulia. Veramente, quasi si scontrò con lei.
Lui, dopo una discesa, era arrivato all'incrocio più veloce e più pericoloso di uno di quei vituperati ragazzini. Si era trovato davanti la donna che procedeva sulla propria bici e, per evitarla, aveva dovuto sterzare all'improvviso perché i freni, meno efficienti di quelli moderni, non l'avevano aiutato.
Una sventagliata di conglomerato aveva investito la donna, che era scesa veloce di sella, abbandonando la bici, nel timore di essere investita, e lui aveva finito la sua corsa incontrollata in mezzo a un prato.
Lei lo aveva atteso rossa in volto, con le mani sui fianchi, infuriata, e quando lui le fu vicino, mogio e colpevole, si guardarono. Lui porse le sue scuse che lei accettò subito, perché è così che succede fra due persone che si piacciono a prima vista.
Dopo l'imbarazzo iniziale cominciarono a parlare e continuarono davanti ad un tè nel bar del paese vicino.
Non smisero di parlare neanche nei giorni seguenti, sfruttando ogni occasione per incontrarsi.
Lei, Giulia, una bella signora sopra i cinquantacinque, bionda, fine, elegante e colta. Vedova da tempo, usciva distrutta da una brutta relazione terminata da poco.
Lui, Cesar, vicino ai sessantacinque, alto, robusto, raffinato. Non aveva mai avuto relazioni lunghe, solo avventure inconcludenti, a causa della sua professione che lo faceva viaggiare lontano e per molto tempo.
Tutti e due, di tacito accordo, continuarono a darsi del lei, desiderando un rapporto di amicizia, profondo e riservato, senza complicate implicazioni sessuali.
Riuscivano a parlare di tutto, a ridere di ogni sciocchezza e a rimanere in silenzio davanti al sole che tramontava, elargendo uno spettacolo quotidiano, gratuito e grandioso.
Lui le portava le sue fragole, le marmellate e altri preparati, lei gli faceva trovare libri da leggere e cercava di istruirlo dopo aver scoperto con stupore che, pur essendo inglese, non conosceva Lewis, Orwell, Shelley, Joyce. Lui addusse la scusa che era sempre stato molto impegnato, provocando un'espressione di corrucciata incredulità sul bel viso di lei.
E arrivò la chiamata per una missione diplomatica, che lui si era impegnato a rispettare. Scoprì di continuare a pensare a lei con un senso di dolcezza, e di desiderare di tornare presto a casa. Già, perché ormai sentiva quel posto come casa sua, per la prima volta nella sua vita.
Così tra una missione e l'altra, perché ce ne furono altre, cercava di riempire il tempo passato insieme, di mille cose. Non aveva quasi più contatti con nessuno perché l'unica persona con cui desiderava avere contatti era lei.
Lei era appassionata di arte, in particolare, diceva, dei preraffaelliti e di tutti i movimenti di fine ottocento, prima che quei depravati impressionisti, cubisti, astrattisti, rovinassero tutto, ma lo diceva sorridendo, come se avesse già perdonato i depravati per quello che avevano fatto.
Aveva deciso di colmare l'abissale ignoranza di Cesar riguardo alle cose artistiche, così lo portava a visitare mostre, musei grandi e piccoli, chiese, paesini e città piene d'arte. Si spostavano usando mezzi antichi: biciclette, autobus, treni locali, disdegnando i velocissimi aerobus supersonici e i treni ultrarapidi a binario magnetico.
Del resto tutta la vita di Giulia era così. Abitava in un casolare semi-deserto, ristrutturato solo dove necessario, amava i vestiti di fibra naturale ormai quasi introvabili, portava gli occhiali anche se avrebbe potuto, con tecniche chirurgiche ormai consolidate, eliminare ogni difetto della vista.
Lui ne era contento perché trovava che quegli attrezzi preistorici le donavano molto, dandole un aspetto colto e raffinato.
Non aveva il televisore, che ormai era in tutti i salotti con i suoi schermi che erano diventati grandi quasi quanto una parete. Non avrebbe saputo dove metterlo, tutte le pareti della casa erano piene di quadri che non avrebbe mai avuto il coraggio di sfrattare, neanche uno.
Ultimamente aveva cominciato a chiamarlo Dorian, e lui non capiva, allora gli diede da leggere 'Il ritratto di Dorian Gray'. Ma, dopo averlo letto, lui ancora non capiva.
Lei, allora, con pazienza, gli spiegò che anche lui doveva avere un ritratto nascosto in soffitta, visto che sembrava non invecchiare, e che prima o poi sarebbe andata a casa sua a cercarlo. Lui obiettò che una signora non va in casa di un uomo da sola. E lei sorridendo concluse che una signora, una vera signora, può andare dappertutto senza timore di rovinarsi la reputazione, cosa di cui, del resto, a lei non importava molto.
Smettendo di scherzare lei osservò che Cesar col tempo aveva conservato una bella chioma castana, solo un po' spruzzata di bianco sulle tempie, mentre i capelli biondi di lei stavano diventando rapidamente bianchi, che lui aveva solo qualche ruga sul viso volitivo, lei invece si era riempita di piccolo segnetti attorno agli occhi, e un po' dappertutto. Non se ne dispiaceva perché era contraria alla chirurgia estetica cui ormai ricorrevano tutti, forse anche lui?
Cesar negò decisamente e, accalorandosi, le giurò che lei non era affatto invecchiata, e che era esattamente come quando l'aveva vista la prima volta.
Lei sorrise a quelle parole, pensando che fossero bugie, e sorrise proprio perché erano bugie.
Un pomeriggio stavano seduti sotto il portico a godersi il tramonto dell'ultimo dolce sole di settembre, silenziosi e malinconici. Lui le annunciò la sua prossima partenza per un'altra missione, che sperava breve.
Lei, continuando a guardare il sole quasi autunnale, appoggiò la mano sulla sua e disse solo: «Torna presto.»
Non lo aveva mai fatto, non si erano mai toccati, neanche per sbaglio. Lui si alzò e, con un perfetto inchino, le baciò la mano.
Poi si allontanò, in bicicletta, tra i filari delle viti colme di grappoli ormai maturi, verso il tramonto e verso chi già lo stava aspettando.
La missione fu un disastro: tentare di far andare d'accordo chi non voleva nemmeno parlarsi, cercare soluzioni che nessuno voleva, proporre idee a chi non voleva cambiare le proprie. Fu una perdita di tempo, viaggi continui e ripetuti per incontrare chi non voleva farsi trovare.
Invece del mese preventivato erano passati tre mesi. Ne uscì distrutto e, assieme al rapporto conclusivo, presentò le dimissioni definitive, chiedendo di non essere più disturbato.
E tornò a casa che era notte, si mise a letto sfinito, senza togliere dai mobili le tele protettive che usava sempre quando partiva, e si addormentò con le finestre spalancate al gracidare delle rane e all'assordante canto dei grilli.
Al mattino, il primo pensiero fu per Giulia, senza fare colazione inforcò la bicicletta e si diresse allegro verso il suo casolare. Pedalò con foga sulla strada che attraversava i campi di grano quasi maturo, salutò le vigne che stavano già formando i piccoli grappoli d'uva DOC.
Imboccò deciso la stradina per il casolare di lei e notò che qualcosa era cambiato, la strada era più larga e risistemata. Bene, era ora.
All'ultima curva rimase senza parole, scese dalla bici stupito. Il casolare era stato ristrutturato, e alzato di un piano, un'architettura moderna, forse un residence. Molti alberi erano stati abbattuti per far posto a due piscine e a dei bungalow, alcuni automezzi da cantiere stavano spostando masse di terra per movimentare il paesaggio, file di pianticelle erano in attesa di essere piantate.
Un operaio con caschetto regolamentare gli si avvicinò e gli spiegò che doveva andarsene perché l'ingresso era solo per gli autorizzati. Comunque gli chiese se cercava qualcuno.
Lui, ancora stordito, disse che sì, cercava la signora Giulia, la proprietaria.
L'operaio assunse un'espressione triste e gli spiegò che la signora era morta tre anni prima, che gli dispiaceva ma che ora doveva tornare al lavoro.
Cesar sentì il suo cuore mancare un colpo, ebbe un capogiro e vacillò. L'altro si preoccupò e gli chiese se stava male, lui lo tranquillizzò, e lo salutò allontanandosi.
Continuando a sentire un rombo nelle orecchie, ritornò al proprio casolare a piedi, senza risalire in bicicletta.
Passarono due giorni prima che trovasse la forza di andare alla tomba di Giulia, sapeva dov'era perché un giorno lei gli aveva mostrato il luogo che aveva scelto, dicendo che conveniva pensarci prima, invece di lasciare fare agli altri. Contrariamente all'uso comune, diventato quasi un obbligo, aveva deciso di non farsi cremare, incontrando difficoltà e spese impensabili. Però non si era arresa e aveva ottenuto di rimanere integra anche dopo morta.
Arrivò a piedi al piccolo cimitero e vide la lapide, sotto un bel cipresso. Il cuore mancò ancora un colpo e a lui mancò il fiato.
Con fatica arrivò di fianco alla tomba. Sulla lapide, semplice e di pietra bianca, c'era scritto il suo nome e le date di nascita e di morte. Di fianco, facendo corpo unico con la lastra, era stato scolpito uno sgabello stilizzato, un posto per sedersi. Di sicuro lo aveva fatto fare per lui, sapendo che gli sarebbe stato impossibile rimanere lì in piedi, infatti si sentiva mancare e, con gratitudine, si sedette.
Guardò le date, era morta a settantaquattro anni, si erano conosciuti quando lei ne aveva cinquantasette e lui sessantatré, e adesso lui aveva sessantasei anni. Gli sfuggì un sospiro.
Durante il viaggio di ritorno si era preparato un discorso da farle, appena arrivato, e adesso voleva dirglielo comunque, parlarle. Se era da qualche parte, forse l'avrebbe sentito.
«Cara Giulia,» Dovette schiarirsi la voce. «l'ultima volta mi hai parlato dandomi del tu, quindi penso di poter osare anch'io...» Gli sembrò di ricevere un assenso.
«Sono tornato per rimanere, più nulla e nessuno riuscirà ad allontanarmi da te. Prima, però, voglio dirti qualcosa di me, qualcosa che ti ho nascosto.
«Non mi chiamo Cesar, il mio nome non ti direbbe niente e non riusciresti nemmeno a pronunciarlo. Non sono nato sulla Terra, sono di un altro pianeta, anche se, adesso, grazie a te, considero la Terra come mia patria adottiva e la razza umana come la mia. Sono davvero un diplomatico, ma della galassia. Quando ti parlavo di viaggi, di popoli, di nazioni, intendevo su pianeti e sistemi stellari diversi e lontanissimi e non ti ho corretto quando fraintendevi pensando agli abitanti della Terra.» Sospirò.
«Pianeti lontanissimi. E' questo il problema. Un diplomatico passa la maggior parte del tempo in viaggio e non può avere famiglia, anche se ormai si viaggia a velocità vicine a quella della luce, anzi proprio per quello. Sulla Terra non lo sapete ancora, ma si possono raggiungere quelle velocità. Ma, viaggiando a velocità simili, si deforma il tempo e, per i viaggiatori, il tempo scorre più lentamente. Molto più lentamente. Un vostro genio l'ha pensato ed ha esposto una teoria, senza poterla dimostrare empiricamente. Io ne sono la prova, per chi viaggia a quelle velocità passano mesi mentre, per tutti gli altri, anni.» Gli sfuggì un singhiozzo.
«Per te. Anni.
«Come hai potuto sopportarlo? Come hai potuto accogliermi ogni volta con un sorriso? Io che arrivavo allegro, come un ragazzino stupido e incosciente che rientra da una vacanza di un mese, e non da un'assenza di anni. Non hai mai turbato i nostri incontri con una sola lamentela, una protesta. O, sì, protestavi e ti arrabbiavi e contestavi per mille altre cose, ma non per quello che ti stavo facendo.
«Ho una sola scusante, ogni volta che ti guardavo rivedevo la snella signora, ai piedi della discesa, infuriata e bellissima, quando i nostri occhi si erano incontrati e trovati. Non mentivo dicendo che non ti vedevo cambiata, era così vero che non mi sono accorto del passare del tempo. Mai.
«Ed ora rimpiango non i miei anni persi a girare la galassia, ma i tuoi, quelli che ti ho fatto perdere ad aspettarmi da sola, e che avremmo potuto e dovuto passare assieme.
«Ti ho portato una cosa.» Tolse da una sacca un vasetto con una piantina di fragole. «Questa piantina è il risultato di innumerevoli incroci, di anni di ricerca e fatica, è stata la mia sola passione dopo di te. E' l'unico esemplare ed io lo lascio qui.» Cominciò a scavare e sistemò le radici, poi chiuse bene il buco. «Questi sono gli unici anni della mia vita che posso donarti, che posso lasciare qui vicino a te.»
Si schiarì ancora la voce, esitò. «E... adesso devo farti la domanda che mi preme più di tutto: … Giulia, vuoi sposarmi?»
Era l'imbrunire e lui rimase sulla panchina con gli occhi fissi sul suo nome scolpito nella pietra, attendendo non sapeva nemmeno lui cosa.
Solo quando fu buio si alzò, guardò le stelle sempre così diverse e sempre uguali, così fredde e lontane. All'improvviso, come mai prima, si sentì completamente, irrimediabilmente, disperatamente solo.

© Piercarlo Macchi





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