Ho sempre odiato il rumore della mia sveglia.
Sono Seth, ho seicentocinquatadue anni e sono un vampiro.
Tutte balle.
Allungo il braccio sinistro verso il comodino e mi accorgo che è tutto atrofizzato; mi pervade un formicolio inquietante che percorre tutto il braccio e continua su per il collo. Cerco di muoverlo ma il fastidio che mi provoca mi urta a tal punto che mi convince a rimettere il braccio lì dove lo avevo trovato. Sotto il cuscino.
Sono Seth, la mia storia inizia in una fredda mattinata invernale quando per caso nella soffitta trovai, in un vecchio baule, un antico libro tutto impolverato. Sfogliandolo scoprii che parlava di me, della mia famiglia. Era una fredda mattinata di inverno e io, Seth, scoprii la mia eredità magica. Ancora balle.
Apro gli occhi. Sbatto le palpebre con velocità cercando di mettere a fuoco quella grossa macchia gialla che sembra mi stia per cadere addosso. Pochi secondi per ricordarmi di essere nella mia piccola stanza da letto, nella piccola casa dei miei genitori, in un piccolo quartiere, di una insignificante città. Quella macchia gialla sopra di me? Nessun portale magico, nessuna minaccia terrestre, soltanto il sole che io e mio papà dipingemmo un paio di anni fa. Ero piccolino e avevo paura del buio; allora ai miei venne l’idea di disegnarmi un sole sul soffitto della stanza per essere sempre illuminato. Ecco, devo ammettere che all’inizio l’idea non sembrava male. Dopo si, una grande cagata.
«Seth!!! Muoviti, il treno non ti aspetta!». Mia madre. Avere una conversazione con lei negli ultimi anni era diventato stimolante quanto una full immersion del Signore degli anelli, naturalmente parlo della versione integrale; in una sola parola? Devastante. Continuavo a rivoltarmi nel letto nella speranza che qualcosa intorno a me cambiasse. Che ne so, un leone gigante che mi soffiasse qualche cosa di fico su per la testa, o … mah, forse niente più. Qualcuno c’era in realtà nella camera in quel momento. Trafficava con la serranda provocando una inondazione di luce pazzesca per tutta la stanza. All’improvviso la mia pelle cominciò a bruciare. Il dolore mi immobilizzò all’istante. Sentivo i pori dilatarsi e io, inerme, disteso sul letto, non avevo neppure la forza di urlare e chiedere aiuto. Uno strattone deciso e la mano di mia madre mi aveva tolto le coperte di dosso. Costretto così ad interrompere i miei viaggi mentali spinsi una gamba fuori dal letto. Ora era fuori dondolante, troppo in là per rientrarci, troppo corta per toccare il pavimento. Nel tentativo maldestro di alzarmi qualcosa doveva essere andato storto. Forse non avevo indovinato il ritmo di rotazione della terra, forse le caviglie non avevano retto, comunque ero di nuovo steso, questa volta sul pavimento. Con fatica mi rialzai, diedi uno sguardo alla sveglia e scattai in piedi. «Cazzo!». Eh si, il treno non mi avrebbe certo aspettato. Corsa veloce in bagno, un’occhiata rapida allo specchio, sistematina ai capelli arruffati, che forse peggiora le cose, ma libera la coscienza da un peso e ancora corsa; questa volta disperata giù per le scale. Ci sono momenti della vita che passano senza che niente di essi rimanga, che so come un graffio sulla pelle, almeno per dire: «Ei!! Ci sono stato anche io!». Mentre leggete queste righe immaginatemi con una fetta di pane con della marmellata alla ciliegia spalmata sopra, quella fatta da mia nonna, correre fuori lasciando la porta aperta, trascinandomi la valigia dietro. Avrò fatto un cenno alla vicina di casa, quella carina e affascinante, oppure quella vecchia e grassa, poco importa. Avrò calpestato la cacca di un cane, o di un gatto, o di un canguro, o di due cani, poco importa. Potrei aver incrociato l’amore della mia vita, la persona che mi assassinerà tra vent’anni in un supermercato, l’amante di mia moglie, ma ancora poco importa, del resto quello è un di quei momenti destinati a morire sul nascere. Sto correndo e ho un obiettivo.
Sono fermo da cinque minuti alla fermata dell’autobus. Mi sto maledicendo per quella tremenda ansia che mi rincorre da una vita. Io e l’ansia siamo come due vecchi amici. Ormai ci odiamo, non abbiamo più argomenti. Siamo diventati due estranei, proprio come due vecchi amici. Devo alla mia ansia la mia sveglia con le lancette spostate di mezz’ora in avanti, devo alla mia ansia la schiena bagnata dal sudore; in questo momento sarei in grado di accusare la mia ansia anche di avermi dato mia madre. Devo alla mia ansia il mio essere qui, ora, in questo momento, in anticipo di venti minuti alla fermata dell’autobus.
In altre parole per Gadamer il lavoro ermeneutico implica una tensione tra l’estraneità e la familiarità. Lo specchio presente e poi lo specchio in frantumi sono il segno di questa ambivalenza. Ci sono voluti tre anni, una laurea triennale, altri quattro mesi, ma adesso è arrivata. Sapevo che questo momento sarebbe venuto, che non si trattava di leggende o dicerie, pensavo di essermi preparato. La verità? L’impatto è stato devastante, peggiore di qualsiasi immaginazione possibile. Parlo della consapevolezza di essere uno studente sulla via della disoccupazione. Mi sento disoccupato da tre anni e quattro mesi. Leggo Gadamer per l’esame di storia della filosofia medievale. Questo è già parecchio strano, cado nell’illusione e nella speranza che si tratti di un sogno. Il livido sul braccio mi dimostra il contrario. No, non è la situazione strana. È il mio docente strano. Lo dico qui, dove non conta niente, dove lui non rischia il posto e io la bocciatura: balbetta, non è in grado di concludere una frase sensata, sputa quando parla, ma questo forse è irrilevante. Questo è il mio docente di filosofia medievale. Questa è l’Italia. Vi accenno soltanto alla docente di morale. Ha avuto una tresca con il vecchio ordinario di morale, ha avuto un figlio dal vecchio ordinario di morale, ha avuto la cattedra di morale. Nella mia vecchia università cambiava la materia, ma la trama è la stessa.
Sono Seth, un miliardo di libri da studiare e sono un disadattato.
Le prossime righe bianche che vedrete sono questi dieci minuti che stanno trascorrendo con me sullo sfondo. Il libro di filosofia mi fissa.
Il libro continua a fissarmi.
Sono arrivato ad una conclusione: la verità è che non gli piaccio abbastanza.
Mentre mi disperavo divorando avidamente le pagine del libro che mi mancavano per concludere il capitolo sul linguaggio, ero in biblioteca. Luogo curioso.
«Ciao, posso?». Seth mosse il capo in segno di assenso, allora Jenny fece spazio sul tavolo per i libri e si sedette accanto a lui. Era bella di una bellezza particolare, i lunghi capelli castani raccolti in una coda. «Non ti ricordi vero?». Seth non sapeva di cosa stesse parlando la ragazza. Lei continuò: «Ci siamo conosciuti ieri sera alla festa di Jimmy!». Dovevate esserci per vedere la faccia di Seth in quel momento. Desolante. «Scusa non sei tu il ragazzo della veranda? Quello mezzo ubriaco con la fissa per Twilight?». È vero ci sono dei momenti della vita che passano senza che niente di essi rimanga, ma ci sono degli attimi che li rievocano all’improvviso, tutti assieme. Seth in quell’attimo si spiegò il perché della caduta dal letto, il perché si era svegliato con la convinzione di avere seicentociquantadue anni, il perché di tante cose.
Il tempo era passato e la biblioteca si era svuotata. Erano rimasti soltanto Seth e Jenny nella sala lettura. La conversazione tra loro era continuata piacevolmente. Jenny si era divertita a punzecchiare Seth per la storia della ubriacatura e lui era stato al gioco.
«È stato bello parlare con te». «Magari domani potremmo farlo ancora», un leggero rossore invase le guance di Jenny.
P.S. Se non hai capito nulla di questa storia, un consiglio: non scegliere filosofia all’università.
P.P.S. Se hai capito qualcosa di questa storia, un altro consiglio: non scegliere comunque filosofia all’università.
P.P.P.S. Se hai capito che siamo stanchi di quindicenni vampiri che si fanno i fighi perché super belli e coi poteri, se hai capito che siamo stanchi di gente ignorante pagata per esserlo sempre di più e hai capito che Seth è un ragazzo in gamba, che ha un cervello non per appoggiarci il cappello, ma per essere un originale che non può essere scaricato da emule, e se hai capito che non è perfetto, ma fa di tutto per cercare la sua strada, allora sarai uno come me: un po’ incasinato, ma fiero di essere non un quasi, non un pienamente adatto, ma un completo Disadattato, dove il confine tra adattamento e disadattamento, tra salute e malattia è chiaro solo a chi, come me e te, è arrivato alla fine della Coscienza di Zeno.