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Frontiera di vento
di Margherita De simone
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RACCONTO SEGNALATO DALLA GIURIA NELLA
II EDIZIONE DEL CONCORSO LETTERARIO UNIBOOK - PROGETTO BABELE

 

“Dimmi dove e quando ho
iniziato a perderti dove e
quandoho iniziato a
perdermi dove e quando
se non in questo letto di
spine in una casa che
non so e che non oso
ascoltare mentre
respira col mio
respiro dove e quando
potrò dormire di
nuovo senza
incontrarti ancora e
ancora e ancora.

Giorgio Faletti

-Ha piovuto per tutta mattina. Io  e mia madre, chiuse negli ombrelli, torniamo dalla Messa, come ogni domenica. Adesso la vedo liberarsi di corsa del soprabito  umido, mentre s’avvia in cucina. Fretta subalterna a mio padre. Che non  ammette ritardi,  vuole trovare il piatto fumante in tavola quando ritorna dal circolo. Una luce rosata bagna i pensili e le pareti. Presto spioverà, lo dice quel sole che s’arrampica dall’orizzonte, così come fa sempre qui. Veloce migrerà su altre cime, insieme a quella rabbia che ha ululato fin dall’alba, inzuppando questo paese, strano come una città lunare, sorta su  pianura inattesa di vetta rocciosa, che domina almeno quattro valli. Guardo con tenerezza mia madre, affaccendata a evitare ogni contrasto, sacrificandosi fino all’annullamento, una trottola fra i fornelli, e più tardi attenta a riempire alla svelta ogni piatto, prima che mio padre abbia il tempo di rimbrottarla. Non ricordo che abbia mai replicato, si sia difesa, sebbene maltrattata e non valutata mai, per tutto ciò che fa, che alimenta e mantiene in vita ogni giorno.

Decido di rigovernare io, almeno lei potrà fare con più calma ogni gesto del pomeriggio, che sebbene festivo, è sempre dedito allo stiro. Ha piovuto spesso, le camicie di mio padre cominciano a latitare dall’armadio.

Ho lavato il pavimento di ceramiche amate da lei, e venute fin quassù da quelle piccole botteghe bianche di calce, dirimpettaie del  mare, poi  salgo su in camera mia. Amavo questa casa, la mia casa, un nido appollaiato su in alto, difeso, inarrivabile e protetto. Poi ho avvertito tutto questo come remoto, troppo lontano da tutto, anche da me stessa. Mi stendo sul letto e metto su un po’ di musica, non per ascoltarla ma per riannodare uno scivolo di   note, quel periodo delimitato come un’isola, che io ho lasciato indietro, come una naufraga.

Ho solo sognato. Lo ripeto per dire che questa storia io l‘ho solo immaginata. Se sono stata io sola a sognare, per me, o c’eri anche tu. E così ho inventato tutto. E questo è solo il risveglio. Se potessi cancellare il tempo!

Vorrei lacerare ogni foglio di calendario. Farlo a pezzi. Ma non servirebbe a niente. Un intervento che non cambierebbe nessun avvenimento, neanche il mio. Neppure se ogni data dimenticasse sé stessa, anche se cedesse la propria carta al vento più furioso, e disperdesse ogni frammento d’ istante, cacciandolo negli anfratti più remoti. Anche se rinnegasse ogni legame  con ogni proprio ieri e l’incerto del domani. Non mi resta che il pensiero bifronte, capace d’ arrabbiare e confortare, che ci assolve nell’ineluttabile, che s’

 incolpa col nome di destino. Così mi dico, senza crederci troppo, che non sarebbe stata utile la prudenza, la protezione o il riparo da ogni circostanza o nuovo incontro. Mondi apparentemente incompatibili i nostri. Ho frequentato la Scuola Alberghiera. Perché vicina, perché sistema di fuga, perché facile. E poi la più attigua a quella mia casa, arroccata come una tana d’aquila in cima a tornanti e rocce. In una provincia più celebre per la propria costa, che per questo interno così chiuso e arretrato. Canone inverso il tuo. Venivi da sentieri e curve insospettate, dalla grande città. Come fossi arrivato in questa vena capillare e periferica del tuo immenso universo, enigma per me,e meraviglia ed attrazione. Così come enorme ed eterno, l’amore  che m’offrivi. Spontaneo, tanto da accecarmi e credere che fosse il momento di scommettere su me, su ciò che ero, su ciò che sarei diventata. Perché l’amore pareva essere diventato la vita stessa.

Una sera di marzo ancora inclemente, si fece scintilla di caldo, per noi, fuori dal mio sempre, e credetti, anche dal tuo.

Quello spazio che a volte fa liberi o soli, sciolto  dall’ abituale, che fu unico e solo per noi. Il posto  di lavoro. Che legittimava la tua assenza dalla famiglia e la mia, su scorta d’ ambita evasione dal rigido e lungo ’inverno, tipico della piccola e isolata comunità dov’ero nata e vivevo.

I miei diciannove anni non intimidirono i tuoi quarantacinque. Tu non permetti a niente e a nessuno di fermarti. Ma lo so adesso. Ora che tutti i segmenti s’incollano ad una idea, e sanno parlare la lingua d’amaro e logica, e mi additano come la piccola, sprovveduta, ingenua ragazza paesana, che appena fuori dalla cinta di rocce e boschi, si lascia abbagliare dal nuovo, dal diverso,dal mai visto, che  seduce come  demonio. Rivedo quel pomeriggio, arancio di tramonto, e noi, seduti sul muretto di pietra,  mi mostrasti la mano, e io dissi “Non credo a queste pratiche da Luna Park”, ma lo stesso, in quel fiume di remissività che imbeve il dialogo fra amanti, guardai la linea della vita. Un grosso neo scuro ne spezzava il cammino. Mi dicesti che era per indicare una interruzione, un forte e definitivo cambio, forse la morte. E che per anni l’avevi scavato via, sanguinando ogni volta, ma non appena questa prodotta stimmate guariva, la pelle ricomponeva il neo, quel buio di prima, scuro indifferente ad ogni tua rivolta. Adesso affollato da ogni dettaglio che ci siamo  scambiati, da ogni piccola informazione che ribalta la me di prima, è qui il silenzio.  Incombe come un soffitto inutile, somiglia all’ incessante azzurro che avvolge questo paese, la vana aria pura, la muta e fredda tranquillità che scaccia i rumori, deserto di voci che mostra la tua sagoma nitida e tagliente, come le punte dei monti, armi bianche e affilate che stracciano ogni nube che passa. L’eco delle assenze, metallica  martella ogni illusione e cerca di livellare il tempo. Trasversale lama e difesa che decapita il prima e il poi, senza accettare voragini, che  cerca di riempire quella crepa,  ancora la mia  trappola. Avevo già lavorato in quell’albergo, dove tu facevi manutenzione. Percorso a me già noto, prima da stagista  durante gli anni di scuola, e poi  come stagionale fissa. Itinerario già provato che non si rivelò una garanzia. E da uniforme, si fece discontinuo e ignoto. Incontrarti fu una salita. Pure agevole e senza sforzo. Come viaggiare su altezze  erte ma spettacolari. Realtà  che fece dimenticare pericoli e strapiombi, leggeri eravamo su quei precipizi. Finché ogni curva riuscì pian piano a convincerci del proprio tortuoso, e che a poco a poco, bisognava fermarsi. Il lento ed il veloce si cedevano a turno il passo, verso una destinazione incerta.  Poi, la discesa. Lì dove è difficile fermarsi, dove si prova paura, dove si guarda in faccia la propria rovina.

Dopo quella prima notte ne seguirono altre, ormai m’avevi legato e io t’incoraggiavo. Perché è con te che ho iniziato, mi hai insegnato tutto. Già perché io amavo gli uomini più grandi e non i coetanei. E tu eri questo, e non pareva essere un ostacolo la differenza d’età. In un solo batter di ciglia giunse l’estate, e tu mi confidasti con disappunto, che tua moglie t’avrebbe regalato uno scooter. Significava solo un atroce mutamento. La sera, ogni sera, saresti ritornato a casa. Cosa che ci avrebbe vietato   tutti i fine settimana. Io restai. Sola, ad aspettarti, che tu potessi tornare, a me, a scegliermi, perché io assomigliavo alla tua “libertà”. Da moglie, figli,vita insostenibile. La mia compagna di stanza scrollò la testa.”Non farti illusioni, se le cose fossero state davvero quelle che sostiene, avrebbe già mollato la moglie”. E allora meditai, che non eri lì, vivevi  un mondo  a me precluso,dove a me era vietato entrare, seguirti, sbirciare neanche di nascosto, neanche nel buio. Cominciasti  a indietreggiare, ogni pretesto per vederci  divenne sempre più difficile da escogitare. Il mio contratto stava per scadere, dovevo tornare a casa. Come avrei fatto a vivere lassù, nel lontano e nel  nascosto a tutto ciò che eri, come avrei potuto vivere quei giorni solitari che credevo ormai archiviati per sempre? L’ultimo giorno cercai  di parlarti ,”Non m’importa se vai a letto con tua moglie, ma non farlo con un’altra mi farebbe troppo male”, mentre lo dicevo mi sentivo già impotente e separata da te, dalle tue scelte, da ciò che avresti  fatto.  Annuisti, senza parole.  Saresti venuto su fino ai miei boschi, lo scooter contribuiva nel veloce per bruciare la distanza, ma non riuscì a competere con la rapidità con cui sopraggiunsero i sospetti di  tua moglie. Arrivò settembre e con esso le mie richieste. Volevo sapere quanto tempo  ancora, per parlar chiaro, per decidere, per far smettere lo stillicidio. Ti schernisti :”Li porto al mare qualche giorno, una settimana, poi si vedrà” Non ti avrei rivisto che a metà ottobre. “Possiamo fare sabato, però molto presto, solita piazza”. Mi alzai all’alba, incurante del freddo, mia madre brontolava, le strade  ghiacciate, pericoloso scendere a valle,  sdrucciolevole anche con le catene. La sua voce già troppo lontana, non l’udivo più.  Calai in quel grigio dalle pozzanghere gelate, non  erano ancora le otto. Arrivasti trafelato, e dopo poco fra lenzuola sgualcite da chissà quanti altri clandestini, ci trovammo a parlare nella stanza d’un albergo ad ore. Non rispondesti  che a monosillabi e poi, come parlando a te stesso, “Lo sbagliato sono io, lo sai adesso che fa lei? E’ a casa a badare ai miei figli”. Non erano ancora le dieci, in auto piansi e tu non mi guardasti neanche, anzi frenasti di colpo, e poi di scatto, come bestemmia: “Scendi!”. Fra le lacrime fissai il mare, che non conosco, che temo, uguale  paura ebbi di te, che non eri più ciò che dicevi d’essere. Ripresi la corriera che mi riscagliò a quel cupo, che non pensavo potesse diventare la mia casa. Pensieri, boschi e voglia di non tornare. Un vuoto che  mi accompagnò fino a Natale, quando ti scrissi un sms, auguri che accesero il caos in casa tua,  perché anonimi, così come m’avevi insegnato. Dopo le feste mi aggredisti “Sei forse impazzita? T’è andata ancora bene, quell’idiota di mia moglie s’è l’è bevuta, uno sbaglio le ho detto, ma non riprovarci!” Già, quell’idiota di tua moglie, quella che ancora crede in te, in ciò che dici, che mostri. La sera riporta la coperta di nuvole dense e scure, ma da qui posso vedere anche le zone già stellate, belle come solo lontano dalle luci  della città sanno essere. Rabbrividisco al pensiero di te, distante da tutto questo, da quest’abbaino, fiabesco come una casa sull’albero, che tu non potrai mai vedere come adesso faccio io. Cercai nei giorni un filo che potesse mostrarmi un punto d’arrivo oltre quel tempo, oltre la tua condizione, oltre i miei anni che da un po’ sentivo essere una colpa. Specie quando m’apostrofavi “Ma tu che ne sai?” E fu allora che la mia età  divenne piombo, zavorra, inconciliabile con le tue traversate fra i mondi e le vite. Febbraio sghignazzò di feste e coriandoli, io declinai inviti, amici, ritrovi, identità. In mezzo al sale, quella ultima  neve polverosa che incipriava le strade , ci trovammo ancora, ma già nel  diverso. Lo sentii, come d’istinto, come un animale, come per diritto mi conducesti in quell’alcova a tempo.  Dopo,  m’accorsi che eravamo lì  per chiudere. Dicesti: “In fin dei conti eri maggiorenne no? T’ho forse puntato un’arma? Che pretendi?” Parlasti chiaro non c’è che dire,  assegnando colpa e condanna. Che avrei fatto? Mi detestai quando mi sentii proporre “Restiamo almeno amici” E tu, lapidario e  pronto :“Non dire stupidaggini!”. Troncato ogni futuro e illusione su di esso. Ma questo non parve riguardarti. Già, tu sapevi dove riapparire, da chi tornare, e io? Rimpatriasti, impedendomi di  telefonare. La mia coscienza non  ebbe tempo. Neanche il tempo di risolvere chi adesso sei, nel dopo, senza me, senza noi. Mi hai fatto sentire una ladra, illecita, sporca, come se la nostra complicità fosse un cavo di  trapezio a senso unico, vissuto da una parte sola. Eppure io so di non aver rubato, neanche la parte che hai negato al tuo mondo. Perché tu della sua porta,  hai duplicato le chiavi e me ne hai dato una copia. Sono troppo giovane per dirmi “Mai più”,  lo so e sarebbe inverosimile. Sei tu che hai derubato me. Entra mia madre con la mia biancheria stirata, sorride mentre apre i cassetti e la ripone. Cura quel suo universo, che continua ad esistere nonostante tutti i rimproveri ingiusti, gli arbitri e il poco amore con cui mio padre l’annega, da anni. So che tenta una speranza,  insegnarmi un possibile, nell’inatteso che può divenire la vita, malcelato amore svestito da altri, e  me ne mostra  scudo segreto, femminile, eterno che consente un valico ad ogni donna. La guardo, le tinte per capelli fatte in casa,  le lasciano macchie sul collo, e resistono più che sulla chioma, e ciò  per risparmiare il parrucchiere, le ciabatte ormai sfasciate che non butta via, “Tanto sono per casa!” si giustifica,  e lo fa  per colmare i disavanzi dello stipendio, ciò che mio padre spende per bere. Lei sa negare la realtà e provvedere anche al ripristino delle altrui mancanze. E’ una monade che vive del proprio cosmo. Non saprà mai di te. Giuro a me stessa. Hai lacerato anche  le sue aspettative,sul suo domani, quello che sono io. Che è parte di ciò che le consente di continuare. E io non la getterò nella certezza, di sentirmi perduta . Penso a tua moglie, ho saputo che è rimasta incinta del terzo figlio. E tu mi disgusti ancora di più. Mentre cresce l’ammirazione per una donna, che replica ancora futuro e credito alla vita . Monade anche lei.  So che potrei scegliere di sottrarmi per sempre  al matrimonio.

E’ sparito il sogno, quello umano, investito di progetto  esistenziale. L’intento a  modo proprio, unico, personalissimo, e che gli altri non dovrebbero scalfire. Per me è un bozzetto andato in pezzi, prim’ancora che avessi in mano un lapis per tratteggiarlo.  Nessuna difesa a  risparmio per domani, dall’  oltre, da ciò che precocemente conosco.  Illusorio è ogni muro da innalzare intorno. Niente  trincea da scavare o  steccato da segnare.

Si entra e si esce  dalle vite,  scordandosi delle chiusure che sono inespugnabili per chi ci crede e inesistenti per ogni possibile altro.  Dietro i vetri, il vento. Spazza o arruffa, ci posso leggere l’una e l’altra cosa. La finestra è una dogana, posso scrutare di là da essa, provare il sicuro. Mi  vedo alla finestra, o  guardarmi  chiusa in una casa. Dentro? Fuori?  Frontiera?   Le monadi cercano di tutelarsi  dagli anagrammi, che le mutano in nomadi. A minaccia delle   proprie radici, quelle che reclamano la difesa d’ una   frontiera. Frontiera ignota ai nomadi, e che le monadi amano e non   sondano, temendo la dissolvenza, la prova che è fatta  di vento.

© Margherita De Simone





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