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di Carla Montuschi
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Sara non era mai stata capace di sostenere veramente uno sguardo. Da bambina la chiamavano “occhi belli” ed ella li osservava allo specchio domandandosi perché. Erano pietre verdi come muschio umido di rugiada incastonate nel suo viso, a distrarre tutto il resto sminuendolo a contorno. Bastava che li posasse sugli occhi di chiunque che, come una calamita, essi stabilivano un contatto tanto invisibile quanto forte, staccarsi dalla presa di quel contatto lasciava dietro di sé la sensazione di vuoto, della perdita irrimediabile di un qualcosa che spesso non lasciava spazio alla conoscenza. Era sempre un guardarsi con l’emozione della prima volta per poi subito dirsi addio. L’unico addio che Sara sapeva non essere mai definitivo era rappresentato dal loro riflesso nello specchio. Gioie e dolori passavano dalla sua fragile anima come dagli occhi, bastava immergersi dentro di essi per viverne tutta l’intensità.
Ogni giorno era sempre la stessa storia, azioni ripetitive e solitarie che si snocciolavano silenziose nell’intimità del mattino. La sveglia squarciava una notte iniziata sempre troppo tardi a testimoniare un lasciarsi andare difficile, fatto di lunghe ore trascorse ad inseguire i pensieri. Ella si stirava liberandosi dalle coperte ancora avviluppate in sogni agitati, si sedeva sul bordo del letto e posava i piedi a terra. La realtà della giornata immediatamente raggiungeva i suoi occhi ancora chiusi attraverso il pavimento fresco e compatto che seguendo le linee di fuga delle piastrelle l’accompagnava a passi esitanti sino al bagno. Il rumore caldo di un rivolo defluiva dal suo corpo per poi essere seguito dallo scroscio di una piccola cascata che, sempre troppo intensa, offendeva le orecchie che faticavano a svegliarsi. Apriva il rubinetto del lavandino e questa volta il suono si faceva più discreto. Con gli occhi ancora semichiusi univa le mani a formare una convessità antica ponendole sotto il getto d’acqua per raccoglierne un po’ e tuffarvi così il viso. Il fresco dell’acqua quasi come fosse di fonte, apriva i suoi occhi ancora gocciolanti che si guardavano ora nella luce fioca dello specchio. Le lunghe ciglia scure, umide di lacrime non loro, lentamente si schiudevano a voler cercare se in fondo al verde vi fossero tracce di sentimenti buoni, freschi e nitidi come l’aria del primo mattino.
Ogni giorno Sara incontrava sé stessa nello specchio sapendo che, suo malgrado, quella sarebbe stata l’unica persona a cui non avrebbe potuto dire addio per sempre.
Sara non utilizzava trucco per quegli occhi, essi erano già abbastanza vistosi così com’erano… semmai sceglieva vestiti anonimi e monocromatici che riprendessero i colori più tenui della giornata al fine di diventarne lo sfondo. Tutt’al più, quando si sentiva particolarmente audace, utilizzava il nero colore di una notte buia di stelle. Indossava strati su strati di indumenti in qualunque stagione, a voler colmare un freddo insaziabile. Il risultato finale era immancabilmente che ogni traccia di femminilità di quell’esile figura, veniva cancellata, sostituita dal goffo aspetto come di una cipolla.
Indossava il casco, cavalcava il motorino e poi via, nella confusione del traffico mattutino. Sfidava tutte le stagioni a cavalcioni del suo motorino poiché detestava stare in fila, sostare incolonnata semaforo dopo semaforo. Esso le consentiva di superare gli ostacoli, di infilarsi fra auto ed auto e di scavalcare gli sguardi impotenti di coloro che, prigionieri delle loro auto, sprecavano minuti preziosi delle loro vite in attese inutili, spese sempre per andare nello stesso posto.
Sara osservava gli sguardi della gente scorrere nel senso opposto al proprio nascosta dal casco, le si vedevano solo gli occhi… procedeva a strattoni rapidi intervallati da pause nervose fatte per valutare, studiare le traiettorie ideali da compiere per arrivare al traguardo.
Gli occhi solitamente incontravano vite di tutti i tipi e se ne andavano lesti scomparendo nel consueto addio.
Ma quel giorno Sara si soffermò in qualcosa di diverso. Accadde ad un semaforo.
La lunga fila era tanto compatta da non poter procedere sino alla linea della partenza e fu così che ella si trovò quasi di fronte un paio d’occhi a cavallo di una moto dalla grossa cilindrata. Erano gli occhi orgogliosi di un uomo, Sara avrebbe potuto fuggire ma per la prima volta ella si sentì capace di sostenerne lo sguardo.
Due cristalli di ghiaccio incastonati in un viso la scrutavano a circa dieci metri di distanza sicché a guardare la scena da distante, si sarebbe potuto affermare che cielo e terra si specchiassero l’un l’altra. I loro destrieri ruggivano un modo impari: quello di Sara gracchiava di vecchio e quello dello sconosciuto rombava spavaldo. I due si guardavano fissi, incapaci di andare altrove, immobilizzati in un legame che sembrava sempre più simile ad una sfida. Le mani salde sui destrieri, la corazza solida ed anonima ed un solo spiraglio da cui spiarsi, incapaci di distogliere lo sguardo e procedere senza tener d’occhio l’altro.
Al segnale partirono tutti gli altri e loro rimasero lì, incuranti della folla che ai lati sfilava nervosamente. Loro erano semplicemente lì, immobili che si guardavano con una calma decisa a dispetto dei loro destrieri che urlavano sempre più scalpitanti . Era come se avessero deciso di partire ad un cenno che doveva provenire da uno dei due, ma che al contempo aspettassero che quel cenno partisse dal cuore dell’altro.
I secondi corsero dietro ai primi raggiungendo un momento al contempo breve ed incalcolabile, i minuti, a dispetto del loro nome, si dilatarono in uno spazio immenso dove esistevano solo gli occhi dei due che, specchi delle loro anime, si scrutavano a distanza. Sfilarono attraverso quegli occhi una miriade di sensazioni quasi a voler riassumere tutti i significati di due intere esistenze. Fissi gli uni negli altri, con una nobiltà ostinata ed affascinante.
Il cuore di Sara rimbombava ora in modo assordante, scandendo il ritmo dell’emozioni, scuotendola incessantemente. Dalla sua esile figura però non traspariva nulla in quanto le mani erano saldamente avvinghiate al compagno di sempre e ciò le garantiva un’apparente stabilità. Vampate di caldo si alternavano a rivoli gelidi che le attraversavano la schiena ma ciò nonostante Sara continuava a mantenersi ritta e fiera di fronte ai propri timori.
Il tempo si fece antico, immemore… persino il traffico svanì, cancellato da vaste praterie di un verde surreale che si abbracciavano in un orizzonte non lontano ad un cielo gelido e profondo.
La calma avvolgeva i due consapevole della tempesta in cui versavano i loro cuori, e li impregnò sino a che dovettero desistere e placarsi , cedere il passo ad una quieta consapevolezza.
Sara decise di prendere l’iniziativa e di affrontare l’incontro, sapeva che ad un suo minimo accenno anche lo sconosciuto sarebbe partito ma ora non lo temeva più, ogni traccia di timore era svanita, era stata soppiantata dalla serenità. Sara sapeva che non avrebbe più avuto senso tergiversare ancora e che quello era proprio l’istante giusto, indugiare ulteriormente avrebbe potuto voler dire perdere un’occasione sicuramente unica.
Inspirarono profondamente, controllarono ancora una volta la solidità dell’appiglio e spronarono i loro fedeli destrieri. Occhi negli occhi sfrecciarono su una traiettoria decisa e calcolata, accompagnati dal ritmo fermo dei loro cuori. Percorsero in un attimo il breve tratto della loro precedente distanza accorgendosi che essa, in vero, non era mai esistita. Il legame del loro sguardo aveva annullato ogni dimensione, tanto il tempo, quanto lo spazio. Corsero sino a raggiungersi anche con il tatto, sfiorandosi in un impercettibile contatto che durò una frazione di istante. Spalla contro spalla, occhi sempre fissi negli occhi. I sentimenti raggiunsero il loro culmine e divennero oro fuso che percorreva le loro vene.
Fu a quel punto che il legame si spezzò.
Gli sguardi dovettero procedere oltre per non perdere l’equilibrio. L’abitudine li obbligò a proseguire senza neppure voltarsi, la paura di dover cambiare qualcosa amaramente li costrinse a non sbilanciarsi.
Sul campo non rimasero né vincitori né vinti, rimase la consuetudine di un altro addio e di due vite confinate entro i propri limiti.

© Carla Montuschi





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