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Absinthe
di Frank Iodice
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A Gilles Calabria.

 

La sala era talmente piccola che ogni nota entrava nella nostra testa senza preavviso, bastava distrarsi un secondo e tutto diveniva forte e rosso, assumendo i colori che dovevano essere nella sua testa.

Il ragazzo aveva appena vent’anni, arrivava da Metz, e stava suonando il vecchio pianoforte della padrona del bar; era giovane, è vero, ma non aveva nulla da invidiare ai grandi musicisti jazz che avevano toccato quei tasti, adesso ingialliti e opachi. Indossava una camicia a quadri, di un verde militare, e pantaloni cachi; era, a vedersi così, nulla di più che un giovane di passaggio per il paese; aveva capelli già sudati e un po’ di barba. Capelli lisci come quelli del tale seduto accanto a me, anche quel giorno, come tutti i giorni, o come tre mesi prima di allora per la prima volta.

Le note deliziavano le pareti dell’Absinthe Bar, e dopo due canzoni era già incominciata questa storia.

La rabbia con la quale il giovane cantava le sue note era più forte della mia, la sua voce pacata esplodeva e moriva in una lotta interiore, la sua lingua si uccideva da sola, veniva fuori dalla bocca per guardare gli spartiti e rientrava inumidendosi di nuovo, come quella di un cane assetato. I suoi movimenti erano convulsivi; suonava come me, che scrivevo e non riuscivo a rallentare per essere più chiaro: capivo, mentre lo guardavo, come noi altri fossimo così diversi ma allo stesso tempo così simili. La carta era umida e morbida; provavo quell’intimo gusto nel toccarla che è tipico degli uomini della mia specie, un piacere profondo ed eclissante, simile alla gioia della rinascita.

L’Absinthe Bar era al centro della città vecchia, era rinomato per le sue centotrenta varietà di assenzio e liquori d’altri tempi, serviti sempre in bicchieri delle epoche d’oro, quelle senza proibizioni e vergogne. Le rocce sulla nostra testa erano illuminate da una luce gialla che non si vedeva, arrivava da angoli della mente; fotografie ingiallite di antichi bevitori e inguaribili puttane ci fissavano e agognavano poter riassaporare presto quella vita che scorreva goccia a goccia nei nostri bicchieri. E le note continuavano a dare ritmo alla storia, che era ancora alla fine o già all’inizio. Guardavo il pianoforte di inizio secolo, i grossi bicchieri poggiati sul legno, l’assenzio che scorreva ghiacciato e il suo mento serio accanto a me. Il tale, che seguiva il ritmo con gesti piccoli della testa, era serio e compatto, come sempre.

Davanti al ragazzo, appeso alla parete ricurva sul pianoforte, c’era uno specchio; di tanto in tanto, durante un intermezzo, lo guardava come se stesse lottando contro se stesso, scuotendo più forte la testa. Quella era una scena come tante altre. Ad Antibes tutto sembrava immobile, i balconi, il teatro, la colonna romana che ci aveva fatto ombra sulle mani prima di entrare, quei vicoli un po’ marci. E noi eravamo in quel bar, a bere assenzio e mangiare aglio, quando entrò la ragazza nera di Marsiglia.

Portava vestiti poveri come i miei. Nessuno dei due odorava di soldi; come avremmo potuto? Aveva l’aria di una selvatica domata, di saggezza, come una tigre al guinzaglio della civilizzazione. Ma non eravamo forse noi i veri selvaggi? Noi, che battevamo le mani sui tavolini di marmo e ridevamo, come posseduti da quell’invisibile luce. Che cos’era Antibes quella sera, in quel bar così piccolo, così scuro e pieno di fumo? Il tale fece colare ancora un po’ d’acqua ghiacciata dalla fontana della felicità. Disse che ne avevo bisogno, che stavo sudando e ridendo troppo, e che le due cose insieme non erano un buon segno. La ragazza nera era proprio davanti a noi mentre scrivevo la mia storia e diceva troppo spesso merci. La sua bocca era dolce, ma velava una rabbia ancestrale, un risentimento sopito nel ventre della sua terra o nel suo ventre. Era lì, davanti a me, e io sentivo le gocce ghiacciate cadere dall’alto della mia eccitazione. Il tale mi guardava con la sua aria seriosa e divertita, non gli piacevano le nere, le trovava troppo forti, abituate alla fatica anche quando avrebbero dovuto lasciarsi dominare dalla forza di qualcun altro. Le braccia erano sottili e tese, le spalle dritte, educate. Anche il modo di tenere chiuse le labbra, era compito, erano decisamente contenute da secoli di sottomissione; quella sera mi resi conto che soltanto chi fosse stato dominato, schiavo, vittima, sapesse avere la capacità di dominare gli altri. La musica cessò all’improvviso, qualcuno era caduto sul pianoforte, la padrona del bar lo stava picchiando con due mani che sembravano baguette indurite da tempo, e lui rideva, si teneva il cappello di paglia con una mano e rideva più forte ad ogni colpo. Chi erano dunque i selvaggi? Chi di noi aveva realmente capito il significato di quella musica così ossessiva, più veloce della mia penna, più scaltra dello sguardo, del sorriso, delle labbra morbide e dure, chiuse o bagnate dal piacere e dall’assenzio?

E per il piacere di raccontarla, di toccarla con le mie parole, io continuavo ad ascoltare i suoi merci e i suoi sorrisi educati. Il ragazzo ci guardò nello specchio e cantò più piano, suonava con la forza dell’Africa e la lussuria della Francia il suo repertorio trattenuto, modificato per i gusti di quei selvaggi, e la sua musica assomigliava sempre più al sorriso della ragazza davanti a me, che, dopo un lunghissimo viaggio della mia testa, prese posto accanto a noi e ripeté per l’ennesima volta merci.

Eravamo arrivati ad Antibes come tutti quelli che vi erano arrivati prima e dopo di noi. Il caldo era talmente forte che avevamo superato quella soglia di resistenza per la quale si tende a cercare di rimanere asciutti, come in una lotta tra la civiltà e la natura selvatica dell’uomo, e tutti in quella stanza di pietra eravamo madidi di sudori cronici, simili fra loro, accomunati dal progresso e dai deodoranti a buon mercato.

Persino il ragazzo, che si contorceva nelle sue convulsioni da artista, era tutto bagnato, la camicia era di un verde più scuro, del colore dell’acqua. Quando si sedette al nostro tavolo, non mi chiese cosa stessi facendo; il rispetto reciproco tra le nostre diverse forme di espressione era come un patto tra vicini di casa, ognuno orgoglioso del suo giardino, innamorato del proprio profumo mescolato con quello degli altri. Solo dopo aver concluso questa o quella frase, alzai gli occhi e gli dissi qualcosa che era molto diverso dai complimenti ricevuti dagli altri. Gli strinsi la mano, come per dargli il benvenuto sulla mia nave, non potevo rivelargli che sarebbe finito in questo libro; non bisogna mai dire a qualcuno che  finirà nel tuo libro, mai e poi mai. A volte non bisogna dirlo neanche a se stessi.

E così, dopo mesi di ricerca, la ragazza era lì, accanto a noi, a ripetere merci con la sua bocca sfacciatamente compita e l’aria sottomessa della dominatrice. Se il ragazzo avesse voluto cantare per lei, avrebbe fatto meglio a calmarsi prima, perché le note erano troppo veloci, non l’avrebbero descritta bene. Eravamo simili anche per questo.

Quando le rivolsi la parola per la prima volta, già sentivo il sapore della resurrezione, lei mi sorrise con la timidezza tipica di chi sa essere timido e sfrontato a seconda delle situazioni. Le domandai di restituire le chiavi d’oro della villa di quel tale, la stavamo cercando da tre mesi; lei era fuggita con le chiavi e, come un fantasma nero, era riapparsa quella sera nell’Absinthe Bar. Si voltò e con gli occhi mi chiese di seguirla. Io ubbidii.

Sul fondo della sala, dietro una tenda di raso, color del sangue, c’era un cancello come quello di un giardino o di una scuola; aprii con la chiave che mi aveva porto senza guardarmi negli occhi, saltando rimanendo ferma, ed entrammo. Ci chiudemmo dietro una tenda o in una gabbia, senza immaginare che non v’era in fondo una enorme differenza. Il ragazzo cantò più forte per nascondere il rumore di quel catenaccio vecchio come l’assenzio. Il tale ci guardò e disse di no con la testa, non lo ascoltai; come avrei potuto?

Sopra la mia testa c’era una lampadina che non cessò di oscillare contenta. Tra le mie mani avevo un tesoro nero e non ricordavo più quale fosse la ragione per la quale ore prima avessimo ordinato il primo bicchiere.

La ragazza nera di Marsiglia si leccò le labbra come una tigre che aveva appena sbranato la sua preda; tornammo in sala, io ero sconvolto, lei appagata, calmata e più disposta a discutere sulla chiave rubata a quel tale.

Il ragazzo fece un’altra pausa e si venne di nuovo a sedere al nostro tavolo, portò con sé la sua birra e il suo sorriso modesto. A quel punto successe quello che, invano, avevo tentato fin ora di raccontare; la ragazza di Marsiglia gli chiese: Che cosa fai tu per mantenerti?

Ecco che mi aspettavo una delle nostre tipiche frasi, un misto di vergogna e fierezza, dette con la lingua tra i denti, a bocca stretta, con lo sguardo vago. Non sono ancora affermato, Cerco di non togliere troppo tempo alla mia arte; oppure, Mi arrangio a fare un pò di tutto. Cos’altro avrebbe potuto dire? Non v’era nulla che avrebbe potuto stupirmi, ne avevo sentite di risposte del genere, a centinaia. Invece quel figlio di puttana mi stupì. E posai quella maledetta penna sul tavolo per il resto della serata. Il mio sogno in realtà è di fare lo scrittore, disse così. E io posai la mia stupida penna sul tavolino; il tavolino era di marmo, bianco grigio verde scuro freddo opaco maleodorante cigolante duro piccolo scomodo basso rotto imbrattato triste bugiardo infinito bagnato odiato amato picchiato schiaffeggiato accarezzato riscaldato sfiorato lavato sporco scalfito unto graffiato ubriaco dimenticato usato consumato macchiato disonesto lapide bianca sulla tomba delle mie idee, segnato da tempi dimenticati e felici, da tutti i bicchieri che vi erano stati poggiati prima del mio, una decina al giorno per cento anni, almeno trecentosessantacinquemila. Avrei dovuto fare il matematico.

© Frank Iodice





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