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Teenage Lobotomy
di Paolo Merenda
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E' suonata la sveglia sul cellulare, impostata su Know your rights dei Clash. I Clash erano meglio quando facevano punk, ma 'sto pezzo spacca. La gatta, che stava facendo danni sulla libreria, buttando giù ogni soprammobile, si precipita sulla mia pancia e attacca a fare le fusa. La accarezzo per un po' poi cerco di alzarmi. Fuori dalle coperte fa freddo e ho la solita sabbietta fra le palpebre. Vado in bagno per pisciare, col cazzo duro che mi gonfia il pigiama. Non sento mia madre russare. Strano, di solito la sua stanza sembra una segheria.

La gatta si piazza sul bordo del water e guarda il getto di piscio. Per poco non le piscio in testa. Vado in cucina, c'è mio padre in mutande e canottiera che mi ha preparato il tè. A me piace scuro e amaro. Come al solito lui lo fa dolce e con due fette di limone. E' senza occhiali per cui ne ha versato mezzo litro fuori dalla tazza. Ha il riporto spettinato, mi scappa da ridere, ma mi trattengo per non offenderlo.

Bevo il tè Lipton - mmmm fenomenale diceva Dan Peterson - , scarto una “Camilla” - carote e nocciole, poche calorie - .

Mio padre dice che devo sbrigarmi per non fare tardi al lavoro. Corro in camera accompagnato dalla gatta. E' la mia ombra. Mi vesto in trenta secondi. Maglietta dei Ramones - del periodo Joey, Johnny, C.J. e Marky - jeans sdruciti e Converse All Stars bucate. Infilo la felpa con sopra la facciona brufolosa di Lemmy e sono pronto.

Arriviamo al centro Caritas dove lavoro. Mio padre è il direttore, ha l'ufficio al primo piano. Io sono addetto al centro d'ascolto, ma faccio anche altro. Compilo il registro presenze, poi iniziano i colloqui. C'è già la coda fuori. Devo rinnovare la tessera mensa a due albanesi, concedere una serie di notti al dormitorio a un marocchino e dare un paio di scarpe 44 a un senegalese. Durante una mezz'ora di quiete mi dedico al “Piccolo spacciatore”. E' una sottospecie di videogioco in DOS dove bisogna comprare le droghe nelle varie zone delle città per poi rivenderle e con l'utile comprarsi un'arma o corrompere i poliziotti per non essere arrestato.

All'una mio padre scende per accompagnarmi a casa. Oggi ho il pomeriggio libero perché stasera devo fare la notte al dormitorio. Devo sostituire un collega che si è ammalato. Ritorniamo a casa in pochi minuti, attraversando piccole strade non trafficate. Dopo pranzo mio padre torna in ufficio. Io sto a casa con la gatta. Metto sul piatto del giradischi “Rocket to Russia”. Lei cerca di prendere a zampate il braccetto del giradischi. Parte Teenage lobotomy, il pezzo che preferisco, che mi mette addosso la giusta adrenalina. Stasera devo affrontare una notte in compagnia di senzatetto, drogati e alcolizzati. Alzo il volume a palla e mi metto a pogare da solo nella stanza. Sbatto contro il muro, la gatta mi guarda storto. Esco dalla stanza e vago per casa come uno zombie, gridando a squarciagola lobotomy. Guardo le foto di famiglia appese in camera dei miei. Mi soffermo su quella del loro matrimonio. La mamma da giovane sembrava Mina, il papà Jack Lemmon. Avevano la mia età quando si sono sposati. Loro sembravano felici, io non so.

Alle otto arriva mio padre. Mi accompagna al dormitorio. Non ho la patente per cui il vecchio deve farmi continuamente da tassista. Cazzi suoi. Il SUV che guida è stato appena immatricolato, ha ancora il cellophane sulle porte. Entro in ufficio, compilo il registro presenze ospiti, copiando i nomi dalle tessere di riconoscimento. Sono cartoncini verdi fotocopiati con una fototessera incollata sopra. Cazzo, che facce da galera ci sono stasera. Uno somiglia a Nicholas Cage. Ci sono poi un paio di kosovari con gli zigomi appuntiti, classici tratti somatici da delinquente, e un barbone ciccione che sembra Bud Spencer. Aspetto che entrino tutti. I soliti ritardatari arrivano dopo le dieci e sono tentato di mandarli a dormire alla stazione. Mando il fax alla questura con l'elenco degli ospiti, completo dei numeri di carta d'identità. Un paio di loro vogliono la camomilla, altri soltanto un po' di bagnoschiuma per farsi una doccia.

Stasera sembra tutto tranquillo. Non mi caga nessuno, mentre di solito qualcuno vuol giocare a carte. Ho insegnato ad alcuni di loro “Dernier”, il mio gioco preferito. E' una sorta di “Uno” fatto con le carte da scala quaranta, ma con molti più trabocchetti. Vince chi finisce le carte per cui ci sono trucchi per far aumentare quelle degli altri, come far parlare l'avversario prima di calare un nove. Per ogni parola che dice si becca una carta. Se si cala un asso e quello dopo non può rispondere con un altro asso si becca tre carte. Il Jolly ne vale cinque.

Visto che le pecorelle sono mansuete mi dedico al “Piccolo spacciatore” che ho installato anche sul computer del dormitorio. Compro fumo in rione Cristo, visto che costa poco, e lo rivendo in zona centro. Guadagno il necessario per comprare un pistola e difendermi dall'attacco degli altri delinquenti. In realtà il gioco era impostato di default con le zone di New York, ma l'ho personalizzato con quelle di Alessandria. Ora è molto più figo.

Verso l'una comincio ad essere stanco. Mi stendo sul divano e attacco lo stereo a volume basso. E' una vecchia compilation di gruppi punk della prima ondata. Gli “Sham 69” mi strappano sempre un sorriso di godimento quando attaccano con If the kids are united.

Mi sveglio di soprassalto poco dopo. Guardo l'ora, sono soltanto le tre. Stavo sognando un gatto, ma non una piccola e dolce tricolore come la mia. Era un gatto nero, grande e grosso, con gli occhi gialli, che cercava di aggredirmi. Sono sudato marcio e ho una sete tremenda. Apro il frigo e bevo un po' di chinotto a canna. Faccio partire un altro cd dallo stereo. Inizia “London Calling” col suo basso martellante. Stanotte mi sa che non riuscirò a dormire.

Mi sono assopito da poco quando suona la sveglia sul cellulare. Stavolta è Police Oppression degli Angelic Upstairs. La gatta a casa mi starà aspettando accucciata dietro alla porta d'ingresso. Vado in bagno per pisciare, col cazzo duro che mi gonfia la tuta che indosso per dormire qua.

Preparo il caffè agli ospiti. Odio l'aroma del caffè, soprattutto della moka casalinga. Amo il tè, odio il caffè. Verso il tutto nei bicchierini di plastica. Gli utenti sorseggiano il caffè caldo, ritirano i documenti, salutano e se ne vanno. Fuori c'è mio padre che aspetta seduto in macchina. Fuma una Zenith. Ha due manone enormi. Sembra Gianni Morandi, ma non è coprofago. Mi accompagna a casa senza dire una parola.

Sono distrutto dalla notte in dormitorio. Ogni volta che sono di servizio non riesco a dormire. Ho paura che scoppi una rissa, di prendermi una coltellata o magari di essere inculato da una senegalese. Entro in casa e la gatta mi accoglie strusciandosi su di me. Le do da mangiare un po' di Felix al salmone, il suo cibo preferito. La prendo in braccio e entro in camera. Non vedo l'ora di dormire nel mio letto. Prima però metto su un po' di musica. East end kids! Urlano dallo stereo gli Ejected. Strappo da una rivista Yoga di mia madre l'immagine di un'insegnante formosa che esegue il cane a testa in giù mostrando il perizoma. Mi faccio una sega-concilia-sonno e mi addormento.

Dormo poco, a mezzogiorno sono di turno in mensa. Insieme ad un volontario ritiro i pasti dalla mensa dell'ospizio comunale. Oggi il menù è: Fusilli al ragù, bistecca, cavolfiore e frutta. L'odore del cavolfiore mi dà il voltastomaco.

Tra gli ospiti c'è una ragazza carina, molto giovane. E' decisamente una punkabbestia. E' vestita completamente di nero. I suoi pantaloni, la felpa e lo zainetto sono tappezzati da toppe di gruppi dai nomi terrificanti: Extreme Noise Terror, Disrupt, Dropdead. In una c'è la caricatura del pupazzo McDonald's con l'espressione da omicida e un coltello in mano. Un'altra dice “In grind we trust”.

Nonostante il look pesante si vede che la ragazza è molto femminile. Sfoggia anche un gran bel culo. I suoi pantaloni aderenti me lo mostrano perfettamente quando si abbassa per raccogliere una mela caduta a terra. La punkabbestia si siede e inizia a fissarmi mentre mangia. Mi sorride, poi mi fa l'occhiolino seguito da un pollice alzato. Mi comunica la sua approvazione verso la maglietta che indosso oggi dei Cock Sparrer. Chissà se pure quella è felice.

Poco dopo la ragazza mi dice che deve fare la tessera, oggi probabilmente si è presentata in mensa e con qualche scusa ha preteso di mangiare ugualmente. La volontaria le avrà risposto di entrare per ultima e di accontentarsi degli avanzi. Entriamo nel mio ufficio, scrivo le sue generalità. In effetti è molto giovane e nella foto della carta d'identità è ancora più carina. Nella custodia di plastica trasparente dove tiene il documento c'è infilato un pezzo di carta. E' un biglietto da visita, di quelli fatti a poco prezzo, alla macchinetta self - service della stazione.

La punkabbestia è una sarta, ma evidentemente in questo periodo non riesce a trovare lavoro. Mi dice che posso tenere il biglietto se voglio. Non me lo faccio ripetere due volte, c'è il suo numero di cellulare che mi ammicca. La ragazza chiede se può andarsene. Le dico di sì, che per i pasti è tutto a posto. Almeno per una settimana avrà da mangiare un pasto caldo due volte al giorno, poi si vedrà.

Mio padre entra in ufficio mentre la punkabbestia se ne sta andando. Lei non lo saluta. Si infila il cappuccio in testa e gli rifila pure una spallata. Il mio vecchio tira giù un diofà, poi mi chiede se ho finito. Oggi avrò un'altra mezza giornata libera, visto che ieri ho fatto la notte al posto di un altro. D'altronde oggi ho dormito poco più di quattro ore.

Appena torno a casa mando un messaggio alla ragazza. Ho deciso che voglio provarci con una scusa becera, tipo di farmi cucire un po' di toppe sul giubbino di jeans. Ne ho giusta da parte una enorme dei Cramps e una da taschino dei Dead Kennedys. Mia madre non è capace a cucire. Le scrivo semplicemente: Ciao sono il responsabile del centro ascolto Caritas. Potresti cucirmi un paio di toppe sul giubbino?

Mi risponde dopo pochi minuti che non c'è problema.

La punkabbestia si presenta il pomeriggio stesso a casa mia con una scatoletta piena di fili, aghi e ditali. La gatta la accoglie come se la conoscesse da una vita. Si struscia su di lei e ogni tanto fa qualche piccolo salto. Oggi la tipa si è cambiata, indossa una minigonna microscopica che le fascia stretto il culo, delle calze a rete strappate e un paio di anfibi con le stringhe gialle. Cazzo, vestita così è proprio figa. Dice che imbastirà soltanto la cucitura per fissare la posizione delle toppe. Finirà il lavoro a casa, con la macchina da cucire.

Non riesco a levare gli occhi dalle sue cosce lunghe e affusolate. Indossa una maglietta macabra con con sopra scritto “Wretched - Finirà Mai”. Sotto le scritte ci sono le immagini di alcuni bambini africani denutriti. Voglio offrirle qualche cosa da bere, anche se a parte il chinotto ho solo acqua in casa. Ovviamente opta per l'acqua. Mi afferra la mano mentre appoggio il bicchiere sul tavolo e se la porta su una guancia.

Dopo pochi minuti la punkabbestia è seduta nuda sul tavolo della mia cucina con le gambe aperte. Ha la figa rasatissima, è ricoperta di tatuaggi, tra i quali un kit da cucito - ago, filo e ditale - sulla schiena. Lo vedo soltanto quando riesco a metterla a pecorina. Il suo culo è stupendo, sembra scolpito nel marmo. Appena sento che sto per venire mi tolgo e le inondo il culo di sperma. Lei si gira e mi abbraccia, ancora ansimante. Mi viene in mente quando da ragazzino ero ancora terrorizzato dalla figa.

A quindici anni mi sono messo insieme a Manuela. Era una stangona dai capelli rossi piena di lentiggini. Aveva una terza di reggiseno, che non è cosa da poco per una ragazza di quattordici anni. Nel 1995 difficilmente si andava oltre ai baci in un rapporto di coppia. Si iniziava a scopare verso i diciassette anni. Ero quindi tranquillo che non sarebbe successo nulla se l'avessi portata a casa di mia nonna, quando lei la lasciava libera. Sinceramente ero ancora un po' terrorizzato dal sesso, non mi sentivo pronto. Mi ammazzavo di seghe, ma non riuscivo a vedermi nel ruolo di stallone al posto degli attori dei film porno che guardavo. Quando uscivo con le ragazze mi limitavo a toccare tette e culo mentre la baciavo. Anche per loro andava bene così. Alcune dicevano di voler perdere la verginità dopo i diciotto anni, altre non prima del matrimonio.

Manuela non sapeva baciare. Ficcava la lingua timidamente nella mia bocca per poi muoverla a caso senza un minimo di passione. Continuava però a dirmi che le sarebbe piaciuto fare una cosa con me. Non ti dico cosa finché non siamo soli. Così qualche giorno dopo l'ho portata a casa di mia nonna. Lei si era vestita con una canottiera forata che lasciava intravedere il reggiseno. Un camionista le ha perfino fischiato dietro quando è scesa dall'autobus. Appena entrati in casa siamo andati in camera da letto e abbiamo iniziato a baciarci. Io le toccavo avidamente quelle tettone che a malapena riuscivo a agguantare con una mano sola. Le ho sbirciato dentro i pantaloni per vedere di che colore avesse le mutande. Erano nere e di pizzo come il reggiseno. Dopo un bel po' di colpi di lingua non sapevo più cosa fare. A quel punto mi metto a raccontare qualche cazzata capitata ai miei amici.

Lei mi interrompe e mi chiede se voglio sapere cos'era quella cosa che voleva fare con me. Io pensavo che la questione fosse già risolta. Invece la stangona tira fuori dal portafoglio una bustina di carta e mi dice che dentro c'è un indovinello. Ora però dobbiamo andare, mia madre mi fa stare fuori solo un paio d'ore al giorno. Usciamo, la accompagno alla fermata dell'autobus poi torno a casa di mia nonna che non è ancora tornata. Apro la bustina e dentro c'è un biglietto. C'è scritto “Io vorrei tanto S.....E”. Esisteranno mille parole che possono risolvere l'indovinello. SCOPARE però è la prima che mi viene in mente, ma non può essere. Così passo due giorni ad arrovellarmi il cervello per trovare una soluzione più plausibile.

Ci troviamo da soli una seconda volta, sempre a casa di mia nonna. Manuela mi chiede se ho risolto il suo quesito. Dico di no, perché a parte SCOPARE non mi è venuto in mente niente che abbia un senso. Non posso dirle l'unica parola che ho pensato possa riempire i puntini di sospensione. Detta poi in un modo così volgare. Una ragazza di quattordici anni non usa un linguaggio del genere, al primo appuntamento in libertà con un ragazzo poco più grande. Lei sorride, non aggiunge altro. Ci stendiamo sul letto e comincio a baciarla. Sta lentamente migliorando. Oggi indossa un top bianco senza reggiseno. Per poco non lo buca con i capezzoli duri che si ritrova. Comincia a fare molto caldo per cui è anche senza calze e la sua minigonna è veramente microscopica confrontata con la lunghezza delle gambe. Intravedo da sotto la gonna che è senza mutande, ma forse sto solo sognando. Probabilmente è un tanga di pelo rosso. Comunque non sia non mi passa per la testa di controllare.

Quando usciamo mi dà un'altra bustina di carta. Mi bacia sulla fronte e dice vediamo se stavolta ci arrivi. Aggiunge domani parto per le vacanze estive, tornerò a settembre. Ci rimango male, mi sento una merda. Vorrei che fossimo abbastanza grandi per passare insieme le vacanze. Ci siamo visti così poche volte e per così poco tempo che non so quasi nulla di lei. Mi ha detto solo che i suoi genitori sono separati per cui dovrà stare un mese al mare con la madre e uno in montagna con il padre. Per me le uniche vacanze estive saranno le domeniche in piscina. Sua madre è talmente possessiva che non l'ha mai lasciata venire, così io non l'ho ancora vista in costume. La saluto trattenendo una lacrima. La guardo andarsene sull'autobus. Ha ancora i capezzoli duri. So già che non la rivedrò più. Non so perché, ma me lo sento.

A testa bassa mi avvio verso casa di mia nonna. Apro la busta e ci trovo un involucro di alluminio luccicante. Lo apro e ne esce qualcosa di unto, gommoso, molliccio e profumato. E' un preservativo alla fragola incartato in un biglietto scritto da lei. Ora hai risolto l'indovinello?

© Paolo Merenda





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